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CULT
Immagine e metropoli
Fotografare la metropoli e le sue periferie senza volti umani permette di esplorare la “spazialità di soglia” e le potenzialità delle reti di flussi produttivi e vitali che stanno all’origine dei processi di trasformazione urbana
L’assenza umana, “ridondante stereotipo” nella fotografia della periferia e della trasformazione urbana. Un’affermazione colta di recente, stuzzicante per la sua ambivalenza. Da una parte, per la sua pericolosa banalità e, dall’altra, per l’occasione che offre di una riflessione sul rapporto tra immagine e metropoli.
Il linguaggio fotografico riferito a tracce, strati, interstizi, rapporti struttura/ambiente, struttura/uomo, porosità in assenza di corpi costituirebbe dunque – a detta di taluni – una produzione insensibile, superficiale della narrativa urbana. Si tratta di una ricostruzione che espone a rischiose distorsioni la lettura più complessa e prospettica del contesto metropolitano. Specie se l’indagine riguarda luoghi oggetto di aggressiva speculazione e sfruttamento urbano.
Sostenere che l’assenza di persone nell’immagine della metropoli contemporanea sia un obsoleto cliché è poca cosa, spavalda leggerezza. È un modo diseducativo, reazionario nel posizionamento culturale della fotografia del bordo urbano.
Lo è per ragioni di merito storico e tecnico legate all’evoluzione del linguaggio fotografico (ambito però collocato lateralmente alle riflessioni che qui si intendono sviluppare, suggerendo semmai ai sostenitori della tesi “anti-assenza” di intraprendere uno studio proficuo della storia fotografica del paesaggio urbano). Soprattutto, lo è per ragioni eminentemente politiche: un’irruzione greve nel milieu dei processi della produzione urbana, in spregio al possibile contributo cooperativo che potrebbe offrire l’immagine a discipline e saperi inerenti il contesto sociale, antropologico e filosofico della metropoli.
Inutile a dirsi, non si stigmatizza, in territori svantaggiati del tessuto urbano, il soggetto protagonista di una vita segnata dalla difficoltà.
Preoccupa semmai la superficialità di approcci all’immagine urbana contemporanea che, parafrasando Gilles Deleuze in Spinoza-Filosofia pratica, dà adito a una fotografia delle passioni tristi in tre possibili declinazioni. E cioè quando inneggia a tali passioni fino a restarne imbrigliata, schiava; quando invece sfrutta le passioni tristi e di esse ha bisogno per definire il contorno di uno smisurato ego autoriale; e, infine, quando con la parvenza della solidarietà per la mesta condizione umana, pone le basi per una rapace operazione di controllo, appropriazione e smantellamento del territorio stesso.
La riproposizione di un’estetica della periferia urbana in chiave contemporanea che richiami un maldestro mood pasoliniano è oggi rischiosamente controproducente, asfittica.
È una narrativa epifenomeno della sussunzione reale del bios periferico al capitale, una proposta fotografica della malinconica emarginazione che si adegua, passiva, fungendo da carburante al virus dello stigma nei confronti del polo urbano dolente.
Agisce, contribuendo a determinarlo, uno spazio necrotico affermativo della periferia recintata, indugiando sul ritratto di questo o quel soggetto simbolo, tacendo il carattere intersezionale e multiculturale, vero patrimonio della periferia urbana. Ne emerge un racconto ripiegato, melanconico, limitato al disagio isolato per condirlo di retorica umanitaria: un ulteriore sbilanciamento dei rapporti di forza nell’alveo canceroso della città finanziaria che con le sue “rigenerazioni”, “riqualificazioni” somministra dosi di disciplina e controllo fino all’espulsione progressiva del potenziale umano già emarginato.
Insomma, un’iconografia che fa da lubrificante a logiche estrattive utili alla speculazione territoriale, edilizia, alla rendita pianificata a spese della moltitudine progressivamente espulsa determinando la definitiva cancellazione dall’agenda amministrativa del diritto disatteso all’abitare, vera, intollerabile piaga della metropoli.
In definitiva, l’immagine molle, funzionale alla rinuncia di ogni consapevolezza moltitudinaria e di ogni possibile progettazione di un contropotere.
Occorre ricordare che questa languida, neomelodica rappresentazione dell’area urbana in difficoltà si imbibisce rapidamente del veleno di un populismo razzista e fascista.
Associare poi il territorio a fisionomie, razze, colori, fedi – questi sì stereotipi identitari della descrizione metropolitana periferica – arricchisce quell’humus del risentimento escludente, abilmente messo a frutto da reazionari odiatori per professione.
In pratica, un’operazione dell’immagine che enuclea l’emarginazione posizionandola nello stadio regressivo, paraffinico del malessere riterritorializzato. È il pre-requisito per l’ispessimento tattico del netto confine tra centro e periferia nonché delle divisioni e intolleranze stesse all’interno dell’enclave costituita per il controllo. Sicché residue e resistenti energie di classe, incastonate nell’ambra di un’estetica ruffiana, si smorzano in una raffigurazione a uso e consumo della divisione, dell’incistamento.
Ne consegue un impedimento al divenire, allo sviluppo biologico di connessioni altre verso lo scenario del comune. Una colla viscida che ostruisce quella porosità strutturale osservata da Walter Benjamin commentando Napoli e cara a un approccio consapevole e di proposta su cui si fonda il ruolo politico della fotografia della trasformazione urbana: «qui la sera filtrano verso l’altro una luce opaca e una musica tenue… l’architettura è porosa come questa roccia. Edifici e azioni si trasformano gli uni nelle altre in cortili, arcate, scalinate. A tutto si lascia lo spazio per divenire teatro di nuove costellazioni mai viste prima. Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre».
Attraverso il paesaggio, la struttura, il soffio umano potente.
Vi è poi un livello ancor più bieco di certa narrativa della metropoli: quello della ricerca di consenso personale del sedicente fotografo urbano. E così si sviluppa l’abuso omologante di sceneggiatura “periferica”: volti dal sapore vintage che tanto ammaliano certa critica, esaltati nella loro perorata umanità e resi sintonici col mastodontico espressionismo del contesto architettonico popolare. Gli stessi volti e sfondi urbani soggetti di una fotografia motore di borghese e disonesta domanda di social like.
Alla stessa famiglia di operazioni narrative afferiscono le “spiate” di abbienti in divertente tour a pagamento tra i paria nella riserva indiana del disagio e l’acefala lode di qualsiasi manufatto di street art da parte di avidi scattatori di foto, rapsodi di benefici cromatismi a vantaggio del buonumore e del senso di appartenenza dei residenti in quartieri sino ad allora etichettati come malfamati.
Resta del tutto elusa e assente l’innervazione del progetto e della pianificazione urbana popolare con le istanze sociali di chi vi abita o, ancor più taciuto, il rischio dell’incombente speculazione immobiliare che si affaccia avida sul facile boccone di una periferia slabbrata e stigmatizzata.
Gabriele Basilico ammoniva circa la diffusa attitudine a volgere il nostro sguardo fino al primo piano degli edifici, vale a dire fino a dove si manifesta in vetrina la lucciola del consumo.
Franco Bifo Berardi quantifica nell’ottanta per cento il tempo a nostra disposizione trascorso nel contesto cyber-digitale: questo comporta un sempre minore contatto bio-sensoriale col paesaggio urbano. Condizione ulteriormente peggiorata dalla pandemia da coronavirus.
La fotografia della trasformazione urbana che intenda sviluppare un contributo politico, deve considerare con cura e asciuttezza tali aspetti, osservandoli non compiaciuta e non compiacente. Deve alimentare capacità critica verso l’ambizione strutturale e sociale del progetto urbano anche mediante la testimonianza presente pur non carnificata di chi ci abita. Deve evitare declinazioni identitarie e configurare una proposta che amplifichi invece il passaggio dal progetto struttura al comune poroso. Quella che Stavros Stavrides denomina spazialità di soglia, contrapposta all’enclave cittadina.
L’immagine urbana diviene feconda quando preferisce all’approccio verticale rivolto a un singolo luogo quello di un continuum orizzontale, ponendo le basi di scambi di pratiche e dialogo tra vari distretti e varie realtà dolenti delle metropoli.
Scatti che indagano ed esaltano gli adattamenti biologici che superano la pianificazione metrico-amministrativa. Ivi compresi i territori lasciati per così dire provvidamente orfani dal cortocircuito tra diritto e politica come l’abusivismo con successivo condono. Con questo stimolando la pianificazione urbana a divergere da esiti strumentali alle distopie disciplinari e del controllo.
La metropoli del capitale tende a contingentare spazialmente flussi e popolazioni. Ed è dunque fondamentale la consapevolezza della potenza dello spazio urbano. Della sua solidità, delle sue contraddizioni e della sua opportunità produttiva di essenza comune, potenza di tutti.
La fotografia urbana deve considerare questo e domandarsi ad esempio perché sistemi biologici densamente popolati (alveari) raggiungano un limite di affollamento, in media circa 80mila unità, per poi sciamare verso nuove prospettive, mentre la metropoli contemporanea, che come ricorda Toni Negri è luogo per eccellenza della produzione, concentra sempre più folto popolo sottomettendolo al consumo e a regimi securitari.
Quindi, emerge nitido il ruolo di fotografia della praxis. Non può essere contemplativa o, peggio ancora, narcisista! È invece una fotografia che testimonia il potenziale e la potenza, cooperando con i saperi in movimento. Non tace degrado sociale e strutturale, evitando di farne un totem. Denuncia l’espressionismo sterile di configurazioni architettoniche sociali poco innervate nelle istanze di chi le vive ed evita la ruffianeria che attraversa canoni compositivi estetici dell’immagine.
La fotografia della trasformazione urbana è essa stessa luogo della partecipazione e della riflessione, nella sua tensione propositiva e creativa alimentando coesione tra chi il luogo lo abita e chi della foto è spettatore. La foto, allora, si popola e si mette in marcia.