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Grigi e divenire urbano. La fotografia di Michael Schmidt

Non c’è inizio e fine nella narrativa visiva del fotografo tedesco, ma la ricerca costante del divenire dell’immagine urbana. Una riflessione a partire dall’esposizione a lui dedicata, con oltre 100 scatti

“Michael Schmidt. Photographs 1965-2014” è l’ampia retrospettiva dedicata all’autore tedesco scomparso nel 2014. Operativo nella Berlino divisa dal muro, coi suoi grigi fotografici che agiscono nel corpo analitico dell’immagine in bianco e nero, Schmidt compone un originale e solido apparato concettuale della visione urbana. Mediata da scelte chirurgiche sulle controparti riprese, si sviluppa una fotografia ostile al potere di convenzioni tecniche e cliché estetici, determinando un’immagine ricca di tensione emotiva del vivere metropolitano in contrapposizione a visioni patetiche e compassionevoli della città

«Il grigio è il colore della differenziazione. Il bianco e il nero sono due punti fissi a sinistra e a destra. Pensavo che il mondo non si definisse in modo univoco, ma che si presentasse in una miriade di sfumature. Ed è così che ho cercato di introdurlo nella mia fotografia».

In questa sintesi concettuale si formalizza e sostanzia un antagonismo. L’intensità emotiva nell’opera di Michael Schmidt è ostile al dispositivo di potere di cliché categoriali e manierismi estetici tanto diffusi nella produzione e critica fotografica. Al fotografo berlinese, nato al termine della grande Guerra e prematuramente scomparso nel 2014, è dedicata un’ampia e profonda retrospettiva con l’esposizione di centinaia di fotografie tratte dalla sua vasta e complessa produzione.

Michael Schmidt. Photographs 1965-2014” ha fatto il suo esordio alla fine di agosto 2020 presso la Nationalgalerie dell’Hamburger Banhof della capitale tedesca, per poi raggiungere importanti contesti museali in altre capitali europee: prima il Jeu de Paume di Parigi, quindi il Reina Sofia di Madrid e, fino al prossimo 26 giugno 2022, all’Albertina di Vienna. L’obbligo di limiti e divieti imposti nei tempi pandemici ha reso problematica la visita alla retrospettiva sulla fotografia schmidtiana peraltro non nuova al complicato accesso a grandi platee.

Meno noto di autori connazionali divenuti più popolari, Michael Schmidt è però figura assai rilevante della fotografia del ventesimo secolo.

Fama non troppo diffusa che si motiva in una potenza creatrice aliena da scelte facili e ruffiane, in cerca della profondità di contesti urbani “minori” finalmente protagonisti, in contrapposizione a visioni patetiche e compassionevoli della città, dei suoi bordi periferici, dei corpi che la animano.

Del materiale compreso nella retrospettiva, qui si considera la produzione fotografica perlopiù rivolta al tema urbano. È giusto però ricordare l’attenzione riposta da Schmidt in molteplici altri ambiti sociali relativi alla condizione delle donne, degli anziani, dei lavoratori, dei soggetti svantaggiati e degli immigrati, non trascurando le curiose suggestioni offerte dalla natura o i rapporti perversi tra produzione industriale degli alimenti e i consumi di massa.

Dopo una breve parentesi abitativa a Berlino est, l’umile famiglia Schmidt si stabilisce nell’ovest cittadino. Michael è dunque uomo della città divisa dal muro, vivendo a ridosso della frattura cittadina in quel quartiere di Kreuzberg così presente in tutti i passaggi più significativi della sua vita personale e del percorso fotografico. È lì che muove i primi passi nel mondo del lavoro: prima come imbianchino, poi assunto nel corpo di polizia da cui, col supporto della psicanalisi, volentieri si allontana nel 1973.

Autodidatta, in possesso di una conoscenza approssimativa della storia della fotografia, inizia quindi a maneggiare con costanza la sua prima 35 millimetri, un’Exacta Varex, e man mano le altre fotocamere di medio e grande formato che ama possedere affrontando volumi, vuoti, affettività offerti dal paesaggio urbano.

Schmidt prende a frequentare inizialmente alcuni circoli amatoriali per poi approdare allo studio autonomo di arte, letteratura ed esplorazione della realtà urbana. Siamo nel pieno delle contestazioni degli anni 70: tra i primi scatti a maggior diffusione va ricordata – cosa significativa per un ex poliziotto – la ripresa di cortei antagonisti.

In gran parte, però, volge la sua attenzione a spazi, vincoli e sviluppi potenziali offerti dallo scenario urbano, spesso ricorrendo a un’originale narrativa astratta con dettagli e tracce della metropoli solo in apparenza inespressivi.

Più fonti documentano la capacità di Schmidt nel trarre sostegno economico, certo non immune da scopi propagandistici ed elettorali, da parte di esponenti dell’area socialdemocratica. È però più significativo ricordare il frutto fotografico di tali interventi con la pubblicazione di opere come Berlin Kreuzberg e Ausländische Mitbürger in Kreuzberg in cui si fa luce anche sull’imponente presenza turca in città, sino a quel momento ampiamente trascurata dalla fotografia più in voga. Il contesto multiculturale destinato a svilupparsi nell’occidente cittadino è oggetto di profonde discriminazioni e Schmidt ravviva l’oscurità proiettata da quest’ombra, illuminandola coi suoi grigi in una sensibile ricostruzione sociologica di denuncia.

Con l’ampio spettro offerto dalle sfumature della sua visione, il fotografo berlinese induce risolutamente lo spettatore alla riflessione su una composizione sociale sghemba eppure proficuamente attraversata da intensità volte a distaccarsi da una condizione di iniqua impotenza e farsi protagoniste.

Emerge da questa fotografia la coraggiosa, anche spavalda, presa di distanza da rappresentazioni e formalismi modaioli, venendo invece proposto un insieme metropolitano talvolta frammentario e però coerente con la sua cruda complessità, con le sue genuine contraddizioni.

Certamente, l’opera dei coniugi Becher e la personale amicizia con alcuni dei protagonisti del movimento New Topographics hanno esercitato stimoli in parte assorbiti negli approcci adottati in Berlin-Wedding e, in modo più evidente, in Berlin nach 45.

Da tale configurazione, che pure è alla base di una significativa fase produttiva, Schmidt però si allontana con serenità affrontando percorsi di indagine urbana meno descrittiva a maggior valenza emotiva. “Quando fotografo la pioggia, è pioggia. Nelle foto di alcuni colleghi, la pioggia sembra un gruppo di perle di vetro”.

Si impone dunque l’importante vena di indefinitezza, l’umore viscerale partecipe della genesi di un’immagine depurata di ogni velleità oggettivante o rappresentativa. Il fotografo, macchina azionata da sensibilità politica, procede chirurgicamente a una folta selezione di radicali amputazioni: quella di didattici crismi compositivi, di lineari angustie dettate dalla dittatura della nitidezza, di parossismi geometrici esaltanti architetture condannate a un’improduttiva aridità e, infine, di quelle attese percezioni – inquadrate e corrette – perciò anaffettive. Si giunge a spazi atemporali che lanciano fendenti emotivi siano essi generati dalla struttura urbana nelle sue provvisorietà o da corpi e volti ritratti in fisionomie sfuggite alle manette ergastolane del disonesto connubio tra umana compassione ed etichetta identitaria.

In più raccolte, la scelta operata della separazione netta corpi/strutture colloca la fotografia di Schmidt su un piano originale dal punto di vista editoriale, nobile per la valenza sociale: è Foucault che ci rammenta come “l’architettura può produrre effetti positivi allorquando le intenzioni liberatorie dell’architettura coincidono con la pratica reale delle persone nell’esercizio della loro libertà”, chiarendo così il campo di gioco dei rapporti tra gli enti coinvolti. Per commutazione, gli effetti negativi di tali rapporti possono sfociare in rivolta e violazione: non può delegarsi all’oblio lo sfondo contemporaneo in cui Schmidt opera e vive, fatto di una divisiva cinta muraria.

Diviene quasi ossessiva l’attenzione ai rapporti congruenti tra due controparti, dove corpi e cemento sono protagonisti in un territorio di differenza e ripetizione e dove impotenza e potenziali sono in lotta nell’abitare la metropoli, nel liberarsene, se opprimente con geo-costrizioni.

Schmidt propone così Waffenruhe (trad. tregua, cessate il fuoco), l’opera di maggior successo, dove il muro è ripreso nel suo coté occidentale ma non identificabile nei suoi attributi fisico-politici: “dal mio punto di vista le mie foto sono autonome, non hanno più alcun riferimento diretto a ciò che sta accadendo al di fuori di loro, non c’è più alcun rapporto diretto con il mondo esterno, ma si crea un mondo nuovo”. Siamo nel 1987, ciò che interessa è la metafora della condizione: cemento, graffiti, porzioni di vegetazione concorrono a definire una cartografia quasi balbettante, volutamente ambigua del contesto circostante, lontana dalla morsa di censimenti e mappature ed elusiva della diafanità da non-luogo. Le immagini di Waffenruhe sono fenomeni visivi carichi della psicologia di una città divisa e ignara del processo che di lì a poco segnerà la caduta del muro stesso. Lo spaesamento dei giovani ritratti ci consegna l’angoscia dei tempi qualificata nei grigi produttivi di un divenire possibilmente autentico. Schmidt ribadisce l’inconsistenza della dipendenza funzionale del progetto esistenziale dalle scelte di disegno e struttura urbana e potente è l’urgenza attuativa di pratiche di libertà sollecitate dall’immagine stessa.

È facile perciò dedurre quanto insopportabile possa risultare per questa fotografia lo schema di potere di regole compositive, di auree e magiche armonie visive, di quella gradevolezza estetica comunemente accettata. La fotografia di Schmidt sfuggendo a questo cappio converge in una cinetica emotiva che, non bisognosa di filtri traduttivi, comunica in modo diretto col suo patrimonio di concetti “stranieri nella propria lingua” atti a scongiurare percezioni indotte e corrotte. Insomma, la produzione di un tessuto fatto di intensità inospitali per il cuneo di immagini pleonastiche, assuefatte eredi dello sterminato armamentario delle convenzioni visive.

Siamo dunque al cospetto di un’immagine che guarda lo spettatore intento a guardare il guardare dell’immagine.

Schmidt non si arresta compiaciuto e tira dritto stimolando una lettura non setacciata attraverso le maglie del cliché e che sia invece a supporto di un impegno militante. Non a caso, lascia fuori tutto ciò che risulti inessenziale “elimino gli scatti che sono specialmente negativi e quelli specialmente positivi”.

La mancanza di accorgimenti di potere che inducano percezioni distorte ci delinea un’immagine diminuita ma credibile: queste fotografie non possiedono “io”, in esse vige la genuina semplicità di scelte politiche che attendono di essere adottate.

Le immagini non smettono di agire e reagire le une sulle altre, di produrre e di consumare: “per me è molto importante che le immagini non colpiscano di per sè. Non raccontano una storia in quanto tale. Forniscono una struttura narrativa che però non risiede nel singolo fotogramma”. È il principio costituente di Ein-heit (U-ni-ty) dove la serie si concretizza irrinunciabile in una raccolta di scatti deploranti il degrado figlio della standardizzazione nello spazio urbano e lo svilimento del dialogo pubblico. Facciate, piazze, strade si mescolano a volti o frammenti di corpi e strutture desunti anche da fotografie di fotografie, elaborate con lo zoom fino a sgranarle.

Non c’è inizio e fine nella narrativa fotografica di Schmidt. Passato e avvenire sono Storia e Schmidt sembra non interessarsi alla Storia: quello che interessa è il divenire. Un divenire in rivolta, per questo potrebbe a ragione essere definito un fotografo minore se per minore intendiamo fotografo del milieu, di ciò che si trova nel mezzo: non nel passato, né nell’avvenire.

La Storia genererebbe un’impronta di potere e Schmidt è attento alla soppressione di elementi dominanti nelle sue immagini. Il suo uso del grigio toglie tono alla polarizzazione tra bianco e nero e, d’altronde, ricordando Gilles Deleuze “l’interessante è in mezzo, au milieu.

Non è un caso che la velocità massima non sia all’inizio o alla fine ma si raggiunga nel mezzo”: proprio lì dove i grigi di Schmidt si posizionano conferendo un generoso supplemento di emozione e urgenza alla pratica politica nella città che diviene.

Tutte le immagini di Michael Schmidt