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OPINIONI

Viviana Peretti: «Come fotografi qualcosa che non vedi, ma sai che lì c’è tutto?»

Intervista a Viviana Peretti, nata in provincia di Roma, cresciuta come fotografa tra la Colombia e New York. Oggi lavora presso la “Unidad de Búsqueda de Personas dadas por Desaparecidas” (Commissione di ricerca per le persone scomparse), un’entità umanitaria e extragiudiziale dello Stato colombiano che, nell’ambito del Sistema Integrale per la Pace, dirige, coordina e contribuisce alla ricerca delle persone dichiarate scomparse durante il conflitto armato.

Viviana Peretti immortala la morte. Una morte non patologica, tutt’altro che naturale. Dovuta a processi sociali, non chimici.  Le prime fotografie scattate da una ferita aperta. L’esigenza di comprenderla, la morte, partendo dai luoghi di culto che catalogano culture, che inscatolano sofferenze. Un’etichetta diversa, a seconda dei luoghi. Un marchio di fabbrica che differisce a seconda della latitudine. Nata in provincia di Roma, cresce come fotografa tra la Colombia e New York. Innamorata del mediterraneo, ne cattura il profilo più intimo.

Oggi lavora presso la “Unidad de Búsqueda de Personas dadas por Desaparecidas” (Commissione di ricerca per le persone scomparse), un’entità umanitaria e extragiudiziale dello Stato colombiano che, nell’ambito del Sistema Integrale per la Pace, dirige, coordina e contribuisce alla ricerca delle persone dichiarate scomparse durante il conflitto armato.

Senegalese women sharing food at the Murid Islamic Community in America. MICA is an Islamic Religious non profit organization founded in 1989 and located at 46 Edgecombe Avenue in Harlem, New York. “You can come here to eat, to pray, to get free food, to ask questions, to use the bathroom. It’s for everybody. That’s what we call Islam”, they say. New York, June 2011. (Photo by Viviana Peretti)

Viviana, la tua serie  Infierno/Paraíso, immortala immagini di cimiteri. Quando hai cominciato a pensare ai cimiteri come una chiave di lettura della società?

Il mio percorso di studi, in lettere e filosofia, mi ha dato accesso all’antropologia e, soprattutto, alla storia delle religioni. Mi sono appassionata a Gruzinski e al concetto della conquista dell’immaginario. Un dettame dal quale ho sviluppato la mia tesi di laurea sulla colonizzazione dell’immaginario durante la conquista in America Latina. Una conquista che inizia attraverso l’indebolimento della cosmogonia dei popoli indigeni e che culmina nella conquista militare.

È in questo periodo che inizio ad interessarmi alla morte e a come viene culturalmente processata, raffigurata, vissuta. La morte si intromette, inoltre, nella mia vita: mio fratello muore in un incidente, in bicicletta.  Lui ventenne, io un anno più giovane. Come consueto, le dinamiche familiari si scardinano e non appena riesco, “scappo”, in Colombia, grazie a una borsa di studio. Motivata da una irrequietezza interna, comprendere l’impianto culturale del lutto diventa il mio modo di processarlo.

In Colombia cosa hai visto?

Un forte contrasto rispetto a quanto conoscevo. Un cimitero in Italia, per me, è indice della fine: una città separata, impermeabile. Vita e morte che comunicano, ma solo in parte. Il grigio, il marmo… In Colombia i cimiteri sono color pastello, le lapidi senza foto. Si leggono i nomi dei/delle defunti/e e qualche riferimento alla persona: ci scappa anche qualche errore d’ortografia. È normale trovarvi cani, pecore, asini, galli – come in un mondo dell’alterità. Inoltre i cimiteri in Colombia sono rappresentazione delle differenze geografiche e sociali del paese. Strutture architettoniche molto diverse a seconda delle regioni. In alcune zone, per esempio, i fiori sono di carta o di plastica perché più economici e perché il caldo li farebbe appassire in un paio d’ore.

In Colombia i due mondi comunicano?

I due mondi comunicano perché, la morte, in Colombia, è parte “de la agenda”. Succede, può succedere, “è normale”. Si comunica con la persona defunta, li, sul posto. Anche da noi, ma magari in maniera più interiorizzata.

Hai parlato di differenze sociali, spiegaci.

I cimiteri colombiani sono l’altra faccia del classismo. È possibile vedere lapidi in marmo di Carrara, accanto a tumuli di terra, magari ornati da tegole di terracotta. È un luogo, anch’esso, di disuguaglianze, di potere.

Oggi lavori per la commissione di ricerca per le persone scomparse. Sono tornati i cimiteri nella tua vita, cos’è cambiato?

Quando ho iniziato non lo sapevo, ma ho presto scoperto che degli oltre 103.000 desaparecidos, almeno 30.000 sono stati sepolti nei cimiteri. Un luogo ideale dove nascondere i morti, vero? Morti illegali, vittime di crimini contro l’umanità, extragiudiziali: come nel caso dei falsos positivos.

Cosa intendi per falsi positivi?

Questa strategia, in inglese body counting, è stata utilizzata da molti eserciti nel mondo e si riferisce alla dimostrazione dei risultati di guerra. In Colombia, durante il governo di Uribe, soprattutto ma non solo, tra il 2003 e il 2008, sono stati moltissimi i casi di falsos positivos. Attraverso agenzie del lavoro, molti giovani venivano inviati nelle province con la promessa di un impiego. Una volta lì venivano assassinati da militari e vestiti da guerrilleros. Ogni vita valeva 500 mila pesos, circa 100 euro. Venivano ritrovati senza documenti, quindi senza possibilitá di essere identificati  e sepolti con la singla NN (senza nome). Oggi la dicitura è cambiata a CNI (corpi non identificati). Come dicevo all’inizio, questa strategia serviva al governo per produrre numeri in relazione al conflitto armato: più guerrilleros eliminati, più consensi per il governo. In particolare venivano arruolate persone indigenti o abitanti di quartieri marginali delle grandi cittá.

A grave in the cemetery of Florencia, the capital of the Southern region of Caquetá in Colombia. Historically, Caquetá has been a zone dominated by illegal armed groups who control drug production and trafficking. In the past fifteen years it has been a disputed zone between paramilitary groups and guerrillas, making the region one of the most violent of Colombia. Florencia, Caquetá region, Colombia, October 2014.

Quando vedevi la sigla NN, cosa pensavi?

Ho svolto i miei primi lavori tra il 2007 e il 2009, quindi verso la fine del governo Uribe. Sì, molte lapidi presentavano questa dicitura, ma non ne comprendevo la vera essenza. Non lo collegavo al conflitto. In quegli anni, però, iniziavano i rumors riguardo ai falsi positivi. In particolare un gruppo di madri, le “madri di Soacha”, una città dell’area metropolitana di Bogotà, iniziarono ad alzare la voce contro il governo. Sostenevano che i loro figli, scomparsi, non erano certo guerriglieri. Immaginati, un paese con sette milioni di sfollati interni dove non esiste la banca del DNA. Sì, medicina legale era obbligata a conservare i corpi per tre mesi; a emanare comunicati per il loro riconoscimento – ma dopo tre mesi li inumavano nel cimitero del luogo di decesso.

Oggi hai un rapporto diverso con i cimiteri. Ci entri per lavoro..

Per oltre un anno ho lavorato come fotografa forense per l’unità di ricerca. Una fotografa forense documenta la fase di prospezione; ovvero l’inizio degli scavi per recuperare i corpi. Si dice prospezione intrusiva, quando si scava, e non intrusiva, quando si fotografa un’area, un perimetro di terra, per permettere agli/alle antropologi/ghe forensi e archeologi/ghe di predisporre un piano d’intervento.

Inoltre, viene documentata l’esposizione delle ossa che si rinvengono, con il fine di elaborare una prima ipotesi  sulle cause del decesso e valutare se il corpo in questione è d’interesse forense e va recuperato. Negli ultimi mesi  sono passata all’ufficio comunicazione e mi occupo di documentare tutte le fasi di lavoro dell’unità di ricerca.

Tu sei un’artista, racconti storie… cosa senti che stai facendo adesso?

Ho lavorato come  fotogiornalista freelance a lungo. Una fotogiornalista deve chiedere il permesso, non è facile documentare certi eventi, soprattutto se sei donna: perché una donna corre rischi maggiori. L’unità di ricerca mi ha dato accesso a territori altrimenti irraggiungibili e mi ha insegnato una nuova metodologia di ricerca. Sono anni, però, che mi occupo di desaparición e lo faccio in analogico, lentamente, cercando di allontanarmi dalle immagini consuete, da quelle che ci riportano alle madri di Plaza de Mayo, oppure alle manifestazioni in Cile. Esiste un’estetica della desaparición …. il mio lavoro, invece, si concentra sul territorio. Si consuma all’interno di una  geografia violentata, di territori che diventano cimiteri occulti e fosse comuni. Come fotografi qualcosa che non vedi, ma sai che lì c’è tutto?

Lasciamo un attimo da parte la fotografa, che cosa ha stupito Viviana in questi anni di lavoro?

Le donne. Mi commuovono le donne. Sono quasi sempre loro a cercare i corpi… madri, mogli, figlie. Anche il team di esperte è a predominanza femminile. Per trovare un corpo nel bel mezzo della selva è necessario che qualcuno ti indichi il luogo di sepoltura e spesso la tua fonte è chi ha ucciso o inumato. Ti immagini che sforzo di ricerca per ottenere queste informazioni in luoghi così complessi e pericolosi?

Quando per anni documenti la morte, poi si può fotografare altro?

Ho vissuto sei anni a New York, prima di rientrare in Colombia. Lì ho lavorato sulle comunità religiose, concentrandomi sulla teatralità dei riti. Messe cattoliche, oppure riti voodoo, come opere teatrali. Ho voluto immortalare la messa in scena dei riti. Quindi, sì, il filone mistico è sempre riapparso, seppur io non sono una persona credente. A riemergere è però sempre stata la morte e la sua banalità. Come scriveva Hannah Arendt, il male è banale, perché spesso perpetrato per fini superficiali. Anche il tema urbano mi appassiona. La serie  “Labirinti Umani ”, per esempio, è una riflessione su come l’architettura intercede nelle relazioni interpersonali.

Viviana, per concludere, ci regali un’immagine che ti è rimasta impressa?

Una madre che cerca il figlio assassinato nel Tolima. Accompagna l’unità di ricerca…Il percorso è complesso, le viene messo a disposizione un cavallo. Lei lo rifiuta, ha paura.  Arriva in vetta con indosso delle pantofole di pelo. La ricerca dura giorni, lei decide di attendere in paese. «Non salgo più», dice. Resta in basso, in paese, in attesa di un messaggio telefónico che aspetta da troppi anni. Un messaggio che le permetta di porre fine a quel sentimento di “perdita ambigua” (ambiguous loss) del quale soffrono i parenti dei desaparecidos. L’assenza di un corpo toglie certezza alla morte e non permette di elaborare il lutto. Non lo trovano suo figlio, così come tanti non sono stati trovati. Lei dice una cosa, che ho sentito ripetere molte volte. «Vi ringrazio per averci provato».

Questo articolo è dedicato  a Massi

Biografia: Nel 2010 Viviana Peretti è stata selezionata per l’Eddie Adams Workshop di New York. Nel 2013-2014 è stata Artist-in-Residence presso L’École Nationale Supérieure de la Photographie (ENSP) di Arles, Francia. Nel 2014 è stata eletta Fotografa dell’anno nella categoria Arts & Culture dei Sony World Photography Awards, ha vinto l’American Photography 30 negli Stati Uniti e il suo lavoro è stato selezionato al Taylor Wessing Photographic Portrait Prize di Londra. Nel 2022, Viviana ha ricevuto una menzione d’onore ai World Press Photo Awards per il suo progetto a lungo termine “A Portrait of Absence” sulle sparizioni forzate in Colombia.