ITALIA

Il Giubileo “dei ritardatari”
La manifestazione del 7 giugno, pur tardivamente indetta dalle forze parlamentari di sinistra, è una svolta nella formazione di un’opinione pubblica pro-Pal non più demonizzata. Un risultato che rivendichiamo come un primo passo nella direzione giusta, ma che non è esente da limiti e contraddizioni tutte da gestire e da sciogliere
Leggo sui social frasi del tipo «Questa non è la mia piazza» (riferita al 7 giugno). Come se fosse un sabba di Sinistra per Israele, mentre è un appuntamento assai più largo e diffuso, che vuole ribadire l’isolamento morale e in prospettiva politico ed economico di Israele per i massacri di Gaza. Una manifestazione multistrato, che comprende portatori di opzioni differenziate e soprattutto di gruppi che sono arrivati a una condanna di Israele in tempi scaglionati rispetto all’inizio dei bombardamenti intensivi, chi dopo più di un anno e oltre 50.000 morti. Non è una graduatoria morale, caso mai di intelligenza e sensibilità umana. Sono qualità naturali distribuite nell’umanità in modo irregolare, che però con un certo sforzo possono essere acquisite. Perciò diciamo: meglio tardi che mai, è un anno giubilare e qualche indulgenza si può concedere loro, purché facciano numero e tengano un profilo confacente. Poi ci sono gli ipocriti, che si accodano per non essere tagliati fuori da un movimento irresistibile dell’opinione pubblica o addirittura a tempo scaduto. Apprezziamo sempre, nell’ipocrisia, l’omaggio che il vizio rende alla virtù, anche se nessuno ci obbliga a prendere un caffè con i viziosi e in qualche caso neppure a sfilare insieme. Una manifestazione non è un atto di fede, ma un oggetto pratico, situato. Ci si accontenta di quello che si dice e si fa oggi. Per più vasti programmi e parole d’ordine più avanzate c’è sempre tempo.
Del resto, anche quando manifestavamo per la Palestina dopo la Guerra dei sei giorni, ci si divideva fra chi gridava “Palestina rossa!” e “Palestina libera!” – e io, che ovviamente scandivo il primo slogan, devo constatare con amarezza che oggi, 58 anni dopo, nessuna delle due opzioni si è realizzata. E continuammo a impegnarci sulla Palestina, malgrado lo sgretolamento delle strutture politiche locali e l’avanzata di nuove ma non più fortunate ondate islamiste in tutto il mondo arabo. Per dire che un filo di indulgenza ce la possiamo permettere, commisurandolo alla difficoltà dell’impresa.
Il salto del 7 giugno rispetto ai molti appuntamenti che già abbiamo praticato tenacemente in forma minoritaria – con tensioni e varietà di promotori – sta nell’ampiezza della partecipazione con diluizione, parziale, dei contenuti. Non tutti – come invece le redattrici e i redattori di questo sito – nomineranno il genocidio, ma preferisco marciare con decine di migliaia di persone che hanno in bocca massacro, sterminio, pulizia etnica, piuttosto che contare quelli e quelle che maneggiano il mio stesso lessico. Il 7 giugno non è una tavola rotonda ma un raduno a base politico-emozionale, che serve a moltiplicare l’indignazione per la politica di guerra israeliana e a favorire misure concrete di isolamento internazionale, a cominciare dai trattati di associazione europei e dagli investimenti italiani. È la prima messa a terra di un disagio e di una protesta che finora ha avuto espressioni meritorie ma sporadiche e minoritarie e che vorremmo diventasse senso comune e sentimento condiviso di una larga maggioranza in Italia, mettendo in difficoltà le destre, il Governo e le imprese di morte come Leonardo e le università complici.
Il testo di convocazione è una mozione unitaria parlamentare delle opposizioni, largamente insufficiente e per sua stessa natura volta a vantaggi elettorali e a riposizionamenti tra le forze che l’hanno sottoscritto. Non importa, è un primo passo e che vadano pure a caccia di voti, al momento vogliamo impedire che le e gli abitanti di Gaza muoiano di fame o di bombe e che i villaggi cisgiordani vengano annessi a Israele e le e i superstiti espulse ed espulsi. Qualsiasi battaglia contro il colonialismo sionista richiede che le e i combattenti siano vie e vivi, sul posto e relativamente libere e liberi di lottare. Per questo possiamo e dobbiamo batterci, lontani come siamo dal fronte immediato di morte e di lotta.
Non che l’adesione al corteo sia cieca e indifferente alla qualità delle forze in campo. Senza nulla concedere a un settarismo in nome di identità immaginarie, tuttavia – e proprio in quanto è un primo passo cui dovranno seguirne molti altri – valutiamo criticamente certe ambiguità presenti (quelle passate lasciamole pure perdere). I renziani si sono inventati (insieme allo sfigato Calenda) un secondo appuntamento il 6 giugno a Milano, in cui esecreranno Hamas come il responsabile di tutto, insisteranno sul diritto di Israele a difendersi e porteranno le bandiere palestinesi insieme con quelle israeliane per testimoniare la loro solidarietà con le forze che in Israele, a loro dire, si oppongono a Netanyahu, considerato l’unico cattivo della scena insieme a Ben Gvir e Smotrich. Come se pulizia etnica e genocidio fossero cominciati solo dopo il 7 ottobre e non costituissero invece un cancro di tutta l’esperienza sionista.
Sappiamo bene che nella storia moderna del popolo ebraico e attualmente nella Diaspora (molto meno, purtroppo, dentro i confini di Israele) esiste una gloriosa tradizione laica e religiosa anti-sionista, che però non sventola le bandiere di Israele e coniuga con simboli diversi identità e anti-colonialismo in Europa e ancor più negli Usa.
La diatriba delle bandiere e l’equiparazione fra anti-sionismo e anti-semitismo le liquideremmo come una piccola provocazione marginale se, per calcoli personali e di corrente (neppure di partito), una bella fetta del Pd non ostentasse la doppia partecipazione al 6 e al 7 giugno come alta mediazione politica e se Renzi non tentasse di infiltrarsi a San Giovanni per non perdere uno strapuntino nel campo largo. Le divergenze e le furberie su questo tema, d’altronde, sono perfettamente simmetriche a quelle che si sono registrate riguardo alla campagna referendaria, indebolendola oggettivamente.
Quindi l’allargamento dell’eterogeneo fronte pro-Pal è una grande cosa ma è tutt’altro che stabilmente acquisito e operativo e andrà costruito con altre iniziative per aprire contraddizioni all’interno della compagine che ha convocato il corteo, rendendo difficile e politicamente sconveniente un completo esproprio e neutralizzazione della lotta al fianco della Palestina.
Tanto più che, nel caso tutt’altro che facile che si conseguisse l’epocale risultato di un cessate il fuoco a Gaza e in Cisgiordania e di un crollo della coalizione Netanyahu, balzerebbe in primo piano l’assenza di una classe dirigente di ricambio in Israele e in Palestina, dunque la prima condizione per la soluzione politica di un problema aggravato da un vortice di odio e vendetta che non potrebbe essere tenuto a bada da giochi di potere neo-coloniali o da una egemonia saudita imposta dall’esterno.
Se già oggi non sappiamo immaginare un “dopo Gaza”, figuriamoci domani, in un contesto di guerre guerreggiate e commerciali, per cui Rafah e Khan Yunis saranno i modelli di “bonifica” urbana come lo furono, all’alba della Seconda guerra mondiale, Guernica e Coventry. E allora, quelle che oggi sono contraddizioni secondarie su cui insistono soltanto i provocatori professionali – la retorica decoloniale e le sbavature antisemite – potrebbero diventare rilevanti ostacoli per una pace giusta in Medio Oriente, ovvero per un modus vivendi realistico fra una maggioranza regionale araba e iranica e una minoranza ebraica dotata di armi atomiche e vettori adeguati – quindi entrambe non annientabili o deportabili in massa in una perversa logica di “remigrazione”.
L’immagine di copertina è di Marta D’Avanzo
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