EUROPA

I significati di un NO

Quella che abbiamo visto in Grecia in questi giorni è stata una radicale messa in discussione degli attuali poteri europei, proprio là dove il potere ha le sue radici più profonde: nel campo del linguaggio, del senso comune e delle paure.

Cos’è il potere? Inizia con questa domanda uno dei dialoghi più belli della serie letteraria/televisiva Game of Thrones. L’eunuco Varys dà al nano Tyrion Lannister una risposta che condividiamo: “Il potere risiede dove un uomo crede che risieda. Nulla di più, nulla di meno.” “Vuoi dire che il potere è un trucco da guitti?” “Voglio dire che è nient’altro che un’ombra sul muro” […] “Ma le ombre possono uccidere. E, certe volte, un uomo molto piccolo può proiettare un’ombra molto grande.”

Quella che abbiamo visto in Grecia in questi giorni è stata una radicale messa in discussione degli attuali poteri europei, proprio là dove il potere ha le sue radici più profonde: nel campo del linguaggio, del senso comune e delle paure. Il NO che ridisegna il futuro d’europa è stato il grido conclusivo di una settimana spiazzante per le istituzioni della troika. Ogni antropologia del capitale ha fallito miseramente, non c’è stata l’impennata della paura, non abbiamo visto scene di panico: dopo la chiusura delle banche e la limitazione dei prelievi (imposte dalla mossa della BCE di non incrementare la liquidità d’emergenza) erano attendibili lunghissime code ai bancomat, difficoltà nella distribuzione dei beni di prima necessità soprattutto fuori dai centri urbani, diffusi problemi di ordine pubblico. Invece niente di tutto ciò è realmente avvenuto, nonostante i media di tutta europa si fossero impegnati in una campagna di menzogne con l’esplicito tentativo di far apparire qualcosa che non c’era.

Questo ribaltamento semantico è stata la precipitazione di processi politici in atto in Grecia da almeno 5 anni, ed il risultato di una strategia politico-comunicativa decisa da Syriza e dal governo e messa a punto nelle ultime settimane in cui il negoziato è entrato in definitivo stallo. Tornerò più avanti sul ruolo e le strategie della comunicazione, ma voglio intanto sottolineare alcuni flash di nuovo senso comune che hanno caratterizzato l’ultima settimana greca: rifiuto della “tragedia greca”, rifiuto degli ultimatum, la festa finale di piazza Syntagma opposta alle visioni apocalittiche del “fronte del sì”. Il NO ha vinto perché ha saputo contrapporre alle dicotomie esclusive (euro-dracma, dentro-fuori dall’UE) uno scenario estensivo ed inclusivo, votare OXI è divenuto sinonimo di aprire un nuovo campo di possibilità e non un “serrate le fila”.

Cosa accadrà adesso? La domanda è difficile, ma più importante di una risposta precisa è capire con quali categorie dobbiamo affrontarla. Fin troppe analisi, da una parte e dall’altra dello spettro politico, hanno provato a dare risposte “tecniche”, valutando la fattibilità/probabilità di una Grexit e la possibilità di un terzo bailout. Ma qua non ci troviamo all’interno di uno scenario prevedibile con strumenti tecnici, la trattativa tra creditori e governo greco si trova nel punto di intersezione di tantissime tensioni, e diventa fondamentale ritrovare le soggettività di classe che possono rompere il quadro di compatibilità.

L’elefante nella stanza delle negoziazioni, che tutti hanno finto di non notare fino ad oggi, sono le elezioni spagnole del prossimo autunno. Un attacco frontale al popolo greco era probabilmente immaginabile se quest’ultimo si fosse trovato isolato. Al contrario, la prospettiva di una “coalizione degli insolventi”, che avesse due governi (ed il 15% del PIL europeo) entro la fine del 2015, non è sostenibile per la governance dell’eurozona. Quando il governo Syriza ha materializzato il deficit di democrazia chiamando il suo popolo al voto, queste contraddizioni sono esplose: una campagna per il sì portata avanti senza nessuna esitazione dai leader dell’UE, la BCE che abbandona il suo ruolo tecnico e prova a scatenare il panico (senza riuscirci), il FMI che cambia linea, cede alle pressioni USA e mette sul piatto un rapporto in cui ammette l’assoluta necessità di una ristrutturazione del debito. Gli stessi partiti al comando in Germania, popolari e socialisti a braccetto, hanno deciso di giocarsi la faccia su questo referendum. E l’hanno persa.

Parallelamente, i movimenti spagnoli e greci che volevano uno stop all’austerità hanno trovato un appoggio irrinunciabile gli uni negli altri. Di fronte al ricatto continuativo, sono deboli da soli e forti se uniti, in un rapporto che va ben al di là dell’attuale forma politica dell’europa. Abbiamo dovuto assistere a interpretazioni sovraniste (di destra e di sinistra) di questo voto greco, ma niente è più errato: oltre l’UE e oltre l’Euro, il debito è un rapporto di forze politico che vede i singoli stati nazionali in posizione perdente se isolati, ma che dentro la definizione di un nuovo campo politico può essere ribaltato. Un’europa senza frontiere, fatta di democrazia radicale e diritti, questa alternativa è entrata in campo definitivamente, spinta dalla contingenza di un 2015 in cui i fenomeni Syriza e Podemos hanno contemporaneamente raggiunto il loro apice. L’europa dei popoli è un fatto tangibile e già in atto e non più un’ipotesi per pochi.

Eccola qua, quindi, la grande novità. Il campo europeo è stato risignificato, la moltitudine non è più un soggetto passivo ma un attore di primo piano, la paura non è una costante imprescindibile ma una scelta che può essere contrastata efficacemente.

Meritano infine un occhio di riguardo i discorsi che hanno preso il centro della scena nella settimana precedente il referendum: come è possibile che una linea di gioioso rifiuto dell’ultimatum abbia sconfitto l’azione di tutti i gruppi editoriali dominanti?

Penso che ci siano due angolazioni da cui guardare questo fatto. La prima viene dal basso e si posiziona in Piazza Syntagma. La piazza simbolo delle proteste oceaniche di 2011 e 2012 è diventata punto d’incontro e di valorizzazione di questo rifiuto. In Grecia i social media non hanno la portata che hanno in Spagna o in Italia, l’esempio che colpisce di più è quello degli eventi su Facebook delle manifestazioni per il sì e per il no ad Atene: le prime hanno sempre avuto più di 20000 utenti-partecipanti, le seconde arrivavano a stento ai 3000. Inutile dire che la materialità di quei cortei si rivelava poi radicalmente diversa. In un paese in cui la miseria ha probabilmente impedito la diffusione delle tecnologie-smart tra i ceti più poveri, possiamo ipotizzare che piazza Syntagma sia stata la rete a cui i cittadini greci potevano continuamente connettersi, una rete materiale in cui ogni claim “virale” diventava subito “comune”. In questo senso la scommessa sulla festa e sulla gioia acquisisce un ulteriore significato: se la paura e i ricatti hanno funzione normativa, l’investimento estensivo sulla piazza e sulla rete relazionale apre ad un campo di valori che il dogma dell’austerità ha continuamente sbarrato.

La seconda angolazione viene dall’alto: una delle promesse mantenute del governo Tsipras è stata la riapertura dei tre canali della tv pubblica ERT. Da quei canali i ministri del governo Syriza hanno condotto l’offensiva del NO, riuscendo ad arginare lo strapotere delle tv private. Secondo una lettura portata alla ribalta dall’avanzata di Podemos, il formato televisivo si rivela centrale anche nelle strategie comunicative di nuovo tipo: rispetto alle decadi precedenti cambiano i tempi ed i modi d’utilizzo, ma oggi è comunque attraverso una riappropriazione partigiana del mezzo televisivo che si può pensare un immaginario vincente e di rottura. Immaginario che passa attraverso una riflessione sulla personalizzazione e la leadership: i personaggi di Tsipras e Varoufakis sono stati accuratamente costruiti proprio per rappresentare una rottura anche d’immagine con i burocrati europei, e l’ultima imprevedibile evoluzione, le dimissioni del ministro dell’economia come condizione per un nuovo accordo, confermano che l’operazione è stata vissuta come molto dannosa dalle élite incravattate degli uffici europei.

Dopo il 5 luglio è il dizionario politico di tutti ad essere profondamente mutato. Tante parole acquisiscono un nuovo significato. Tre in particolare devono tormentarci, perché sono probabilmente le chiavi per allargare l’anomalia: europa, democrazia e movimento. L’europa, intesa come spazio dei popoli e delle lotte dove costruire alternativa, non è più un progetto, ma un contesto reale. Oggetti come Podemos e Syriza entreranno sempre di più nel dibattito pubblico anche italiano, perché la loro azione avrà sempre più un effetto sul qui ed ora degli italiani. Ogni ricerca della “nostra syriza” o della “nostra podemos” perde quindi di spessore: chiediamoci piuttosto come moltiplicare il terreno comune che questi ed altri eventi hanno aperto, perché non si tratta più di mettere a rete diversi fenomeni nazionali, ma di allargare su più terrritori un comune che è già effettivo.

La democrazia è stata per troppo tempo paravento formale di un’europa costruita sottosopra, da oggi diventa una pratica moltitudinaria inclusiva, sinonimo di incontro e spina dorsale della politica nell’epoca della valorizzazione sociale. Da opporre alla retorica della paura e da usare come collante nella costruzione di nuove istituzioni collettive. Infine movimento, forse la parola più difficile da interpretare. Vogliamo escludere dalla parola movimento il terreno della paura e della contrapposizione ideologica, che negli ultimi dieci giorni è stato consacrato come il terreno perdente delle élite tecnocratiche. La domanda resta irrisolta: cos’è “movimento” nell’epoca in cui un governo nazionale si fa fedele interprete delle volontà di un popolo? Senza incanalarla in gabbie di compatibilità ma anzi mettendo le strutture formali dello stato al servizio di un progetto radicale come la lotta all’austerità. Non c’è una risposta facile, ma la politicizzazione di fasce sempre più estese del corpo sociale è un fatto che nessuno può ormai permettersi di ignorare. La ricerca e l’innovazione dei linguaggi devono diventare l’asse di ogni movimento che si ponga l’obbiettivo di cambiare lo stato di cose presenti. Usare i nostri linguaggi, le nostre storie e le nostre identità, solo come delle bandiere attorno a cui cercare consenso, sarebbe un clamoroso errore ed una vera tragedia (non greca).

Foto tratta dal profilo fb di Atene Calling