EUROPA

Guerra in Ucraina, lungo la frontiera. Lo snodo di Siret

Dinamopress è al confine fra Ucraina e Romania, dove sono ormai arrivate oltre 150mila persone in fuga dalla guerra: una grossa mobilitazione della società civile e delle istituzioni, che “accompagna” i profughi nei loro spostamenti

Se in “superficie” la guerra in Ucraina è una guerra fra nazioni, poco più sotto – a cavallo delle frontiere e dei territori – emergono popoli, lingue, etnie e religioni: accomunati, almeno per quello che si può osservare fra Suceava e Siret (confine nord della Romania), da un senso di solidarietà spontaneo e trasversale.

Stando all’alto commissariato delle Nazioni Unite, sono ormai oltre i due milioni e mezzo le persone in fuga dal paese invaso da Vladimir Putin.

La maggior parte si dirigono verso la Polonia. Altre verso la vicina Moldavia, in cui si temono possibili attacchi per via della presenza della regione separatista della Transnistria. Oltre 150mila stanno passando invece i confini che connettono la regione occidentale della Galizia (in cui sono iniziati da un giorno i combattimenti, con le bombe su postazioni militari vicino a Lviv) alla Bucovina e Transilvania rumene.

Foto di Renato Ferrantini

Sono soprattutto donne e bambini, per via della legge marziale imposta dal governo di Zelenskij che impedisce ai maschi fra i 16 e i 60 anni di lasciare il paese. Spesso – ci spiegano volontari e persone impiegate nella protezione civile che si trovano a Siret dall’inizio del conflitto – sono proprio questi ultimi ad accompagnare gli altri familiari o conoscenti alla frontiera, per poi separarsi e far ritorno sul suolo ucraino.

«Il marito di mia figlia è rimasto direttamente a Carkhiv, quando abbiamo deciso di scappare il tre marzo», ci racconta una signora originaria del Donbass mentre sale sull’autobus che la sta per portare a un primo centro di accoglienza.

«Lo riusciamo ancora a sentire, fortunatamente internet e la rete telefonica continuano a funzionare. Mi ero già trasferita nel 2015 per un’altra guerra all’interno del mio paese, non mi aspettavo che sarebbe successa una cosa del genere: assieme a mia figlia e alle due nipoti, ci siamo spostati a ovest trovando ospitalità in casa di conoscenti. Solo ora abbiamo deciso di andarcene».

Per andare dove, non è ancora chiaro. Quando glielo si chiede, la signora risponde con una frase ironica velata da una punta di rimpianto: « Verso il mare».

La gestione dell’accoglienza

Per tante altre persone, invece, i piani sembrano essere più convintamente segnati. A Siret, appena passato il confine, ucraine e ucraini vengono accolti da volontari e personale dei vigili del fuoco, che mettono immediatamente a disposizione un servizio di traduzione per capire esigenze e bisogni di chi arriva e, soprattutto, i luoghi in cui intendono dirigersi.

Poco al di là della dogana inizia un lunghissimo cordone di tendoni, stand, bancarelle di diverse provenienze e appartenenti a diverse realtà: ci sono beni di prima necessità, assistenza medica e veterinaria (non pochi gli animali domestici che vengono portati con sé nella fuga del conflitto), comunità religiose e governative (massiccia la presenza della Turchia con un piccolo chiosco di ispirazione alevita e un camion dell’agenzia di solidarietà internazionale Afad, per esempio, ma molto visibili sono anche le sigle israeliane), addirittura ambasciate di differenti paesi.

Foto di Renato Ferrantini

Numerosi giornalisti si assiepano oramai come presenza fissa ai lati dell’“ingresso” in Romania. Una volta che le persone che arrivano dall’Ucraina comunicano le proprie intenzioni, vengono “smistate” come meglio si riesce: chi vuole proseguire più a sud, verso Italia e Spagna, viene spesso “preso in carico” da progetti di cooperazione già attivi sul posto (come Progetto Arca, di Milano, oppure Remar, Ong originaria della Spagna) che organizzano appositi pullman per proseguire il tragitto; altri si fermano in “centri intermedi” come quelli di Milisauti (dove protezione civile e comune hanno messo a disposizione un complesso sportivo) oppure del capoluogo dell’area Suceva (in cui sono davvero tante e variegate le strutture messe a disposizione sia dalle istituzioni che più spontaneamente dai cittadini, fra l’università Stefan Cel Mare a un’area da ballo dell’hotel di lusso Mandachi, dalle chiese ortodosse del luogo fino alle case private).

Ma, per quasi tutti, la Bucovina rappresenta semplicemente un posto di transito, uno snodo verso altre mete magari definite dalle proprie conoscenze oppure dalle proprie lontane origini: «Finalmente faccio ritorno in “patria”», afferma un’altra anziana signora che incontriamo con figlia e nipote nell’imponente sala d’attesa della stazione di Suceava, trasferitasi a Kiyv come insegnante da più di una ventina d’anni ma originaria di Baku, in Azerbaijan.

La sua “fuga dalla guerra” non è stata di certo facile: costretta da una malattia a muoversi principalmente su una sedia a rotelle, era ormai da tempo che non usciva dal suo appartamento nella capitale ucraina. I bombardamenti (e, come accenna lei stessa con un po’ di affettuoso sarcasmo, “l’insistenza della figlia”) la hanno convinta.

Fuori da una ex-repubblica sovietica (che nel suo celebre discorso del 24 febbraio Putin ha definito un “errore di Lenin”), troverà probabilmente rifugio dentro i confini di un’altra ex-repubblica, in un andirivieni della storia che in qualche modo “tradisce” e disattende la visione imperialistica espressa dal presidente russo.

Foto di Andrea Tedone

Così come – anche se di fronte all’eco delle bombe si tratta più che altro di una pallida suggestione – sembra disattenderlo la “mescolanza” continua di storie e appartenenza che affollano i locali della stazione di Suceva e non solo: ad assistere le persone in arrivo dall’Ucraina ci sono molti giovani del luogo, studenti e studentesse dell’università, che in alcuni casi anzi provengono dalla vicina città d’oltreconfine Cernivci e riescono a dare una mano con la lingua; ci sono numerosi sacerdoti della chiesa ortodossa di Romania, che si “alternano” all’entrata del centro ferroviario (fin dall’inizio del conflitto, il patriarca Daniel ha condannato la guerra definendola senza mezzi termini un’“invasione”); ci sono persone come Dragos, orfano di origini armene con trascorsi nel nostro paese, che vediamo affannarsi da un posto all’altro sia per parlare con chi arriva “dall’esterno” che per accompagnare poi i profughi sulle carrozze.      

Biglietti gratis

E, appunto, il fischio dell’ultimo treno per Bucarest che attraversa la fredda notte di Suceava segna una nuova tappa per chi fugge dall’Ucraina. Trasportate in stazione dagli autobus della protezione civile, le persone trovano a disposizione anche un biglietto gratuito per spostarsi nella capitale rumena e da lì proseguire il viaggio.

Altre si muovono con degli autobus, magari andando verso Polonia, Germania o – come menzionato – pure in Italia, magari grazie ai trasporti organizzati da associazioni del terzo settore. Il più lontano possibile da una guerra che, però, per quelle stesse nazioni che ora sono impegnate nell’accoglienza, rischia di essere sempre più vicina e minacciosa.     

 Immagine di copertina di Andrea Tedone