EUROPA

Governare nell’emergenza

Riceviamo e pubblichiamo questo contributo sulle primarie in Francia, che hanno visto la vittoria del socialista Benoit Hamon

Un tentativo d’analisi sull’elezione del prossimo presidente francese.

Con la vittoria di Benoit Hamon alle primarie del partito socialista è completamente definito il quadro dei principali candidati alle presidenziali francesi che si terrano il 23 aprile (secondo turno 7 maggio). Oltre al candidato socialista, avremo Jean-Luc Melenchon che capitanerà l’altra grande candidatura di sinistra “la France insoumise”, la candidatura “né di destra né di sinistra” di Macron, e le due candidature di destra di François Fillon e Marine Le Pen.

Grande assente: il presidente in carica François Hollande, che ha rinunciato a correre per la rielezione. È forse da questa assenza che bisogna cominciare per provare una lettura delle presidenziali, seguendo l’ipotesi che Hollande non fosse solamente a terra in tutti gli indici di popolarità, ma che con la sua abdicazione abbia voluto anche definire un’opzione politica ed indirizzare la scelta del suo successore.

Troppo impresentabile dopo una presidenza segnata dall’austerità e dalla promulgazione dello stato d’urgenza, Hollande ha liberato lo spazio politico sotto due punti di vista: ha aperto terreno al centro, per un soggetto che prosegua le sue politiche neoliberiste dentro il quadro dell’unione europea, ed ha aperto la possibilità di una resa dei conti tra le due anime del partito socialista. Se lo spazio centrista è stato occupato dal suo vecchio ministro dell’economia Macron, le primarie conclusesi il 29 gennaio rappresentavano una prima grande battaglia dentro al PS. A vincere è stata l’ala sinistra di Hamon, con un programma che parla di reddito universale, riconversione ecologica, maggiore apertura delle frontiere ed anche legalizzazione della cannabis. Perdente l’ex primo ministro Valls, con quella parte del partito che guarda a destra e vuole ritirarsi dalla campagna elettorale (come annunciato da una ventina di parlamentari in un appello apparso su Le Monde) e che ora pensa di votare Macron, come già dichiarato dal sindaco socialista di Lione.

Una corsa a tre?

Nei sondaggi troviamo ancora avanti Le Pen e Fillon, accreditati entrambi poco sopra al 25%. Subito dietro, intorno al 20%, c’è Emmanuel Macron: personaggio anomalo di queste presidenziali, in grande salita secondo tutti gli indicatori. Anomala la sua candidatura, non supportata da nessuno dei partiti storici, ma semplicemente dal movimento “in marcia”, nato lo scorso aprile per iniziativa dello stesso Macron. Anomalo il suo linguaggio giovanile, per una classe politica affezionata al passato come quella francese. Anomala la partecipazione ai suoi meeting, elevatissima da ormai più di un mese. Macron interpreta una visione filo-UE e di impianto neoliberista, è un ex banchiere che con la retorica dell’efficienza e del lavoro vuole lanciare una nuova ripresa, vuole tagliare le pensioni ma contemporaneamente si vanta di voler difendere gli impiegati statali della république. Ribatte allo sciovinismo lepenista, solleticando però lo spirito della grandeur francese, mutuando a modo suo un ritornello costante della politica d’oltralpe: se per il gollismo la grandezza della Francia è sinonimo di pace ed ordine, se per le sinistre è sinonimo di espansione universale dei diritti, per Macron il rilancio della Francia preconizza il rilancio economico europeo.

Cosa attendersi dai due candidati di (estrema) destra al momento in testa? Fillon, ex primo ministro di Sarkozy e vincente nelle primarie dei Repubblicani (il vecchio UMP ha preso questo nome due anni fa), è dato in vantaggio ma accerchiato dagli scandali per uso improprio di fondi pubblici quando era senatore. Si disputerà gli elettori di centro-destra con Macron, e potrebbe pagare la sua vicinanza agli estremisti cattolici della manif pour tous. Marine Le Pen, invece, sembra aver esaurito la sua onda lunga: candidata per il Front National, portatrice di una linea anti-europea e razzista, la Le Pen è da anni la vera mattatrice del discorso politico, capace di guidare uno slittamento epocale verso destra ma impossibilitata a fare il salto di voti necessario alla presidenza. In particolare, anche in caso di passaggio al secondo turno, tutte le combinazioni la danno sconfitta nella tornata decisiva.

E le sinistre? I primi sondaggi post-primarie pongono sia Hamon che Melenchon intorno al 10%, un ulteriore spostamento di voti verso il primo è plausibile, dato che il discorso lavorista e nazionalista del secondo non sta dimostrando slancio. Ma nella Francia del 2017 questi due elettorati non sembrano poter rubare voti alle altre candidature o all’astensionismo: non più di un francese su quattro voterà a gauche.

L’ossessione del governo

Per spiegare la parabola di Hollande bisogna forse risalire al luglio 2015, quando il premier greco Alexis Tsipras decide di cedere al ricatto della Troika, smentendo il risultato del referendum popolare indetto sul memorandum europeo. In quei giorni Hollande gestisce da vicino le trattative con i vertici di Syriza, gioca la parte del “poliziotto buono” insieme al “poliziotto cattivo” Angela Merkel (appoggiata pienamente dai socialisti tedeschi), ed ottenendo un risultato che dobbiamo ritenere gli stia molto a cuore: tutti i partiti di governo dell’area europea hanno accettato completamente la sudditanza all’ordoliberalismo tedesco pur di non rompere con l’UE. L’esistenza di un sistema di governo europeo è preservata. Lo stesso Hollande, dopo aver risposto agli attentati con uno stato d’emergenza permanente, lancerà la Loi Travail che innescherà gli imponenti movimenti del 2016. Anche lui ha scelto di piegarsi al diktat economicista per preservare l’area euro ed il ruolo della Francia al suo interno.

Tutto il quinquennato di Hollande sembra percorso da un grande interrogativo: come si mette in atto un governo della crisi? Il problema non è soltanto quello della contingenza di una riforma o un referendum, ma quello della possibilità di garantire la continuità del governo. Generalizzazione della precarietà, moltiplicazione dei muri dentro l’europa e verso l’esterno del continente, stato d’emergenza, militarizzazione delle metropoli, gestione dei flussi, rifunzionalizzazione della forma sindacale: come sviluppare tutto ciò prevenendo allo stesso l’esplosione della conflittualità sociale, l’emergere di nuove soggettività indisponibili?

Ci vorrebbe un libro per descrivere le misure prese in questo senso sul piano poliziesco, amministrativo e lavorativo dal governo francese. Un’altra parziale risposta è sicuramente nella complicità con le estreme destre, che però si è anche dimostrata un boomerang incontrollabile.

L’ipotesi che provo a considerare è che la “discesa in campo” di Macron sia un’operazione in continuità con quell’area che ha controllato l’eliseo negli ultimi cinque anni. Macron era il ministro dell’economia del governo Hollande, ma ha tenuto intelligentemente fuori il suo nome dal progetto di legge sul lavoro. Dopo aver lanciato il suo movimento nell’aprile 2016, ha costruito una campagna forte, diffusa, e appoggiata dai principali media. In un recente articolo, http://ilmegafonoquotidiano.it/news/pablo-iglesias-trump-e-il-momento-populista Pablo Iglesias parla del populismo come di un momento politico piuttosto che di un movimento: “una forma di costruzione della sfera politica dall’esterno”. Lo stesso Iglesias individua esempi di movimenti politici che hanno tratto vantaggio da questo momento pur essendo movimenti molto distanti: Trump in America, Podemos in Spagna, Marine Le Pen in Francia. C’è un’imprecisione forse in quest’ultima ipotesi, perché la Le Pen non è il risultato di questo momento populista, ma di un altro avvenuto circa 6 anni fa. Quando Marine sostituì il padre Jean-Marie alla guida del Front National, cominciò un’operazione di ripulitura del partito che la portò a incrementare sostanzialmente i consensi ed a sdoganare definitivamente i discorsi della destra razzista. Oggi il tentativo populista è quello di Macron, spalleggiato da un’elite già influente che non vuole perdere la guida del paese, spinto da quegli stessi dogmi politico-economici che hanno sostenuto l’austerità di Hollande. L’operazione-Macron va oltre queste presidenziali, e si propone di preservare e potenziare uno spazio di governo neoliberista. Si propone di rilanciare quella “Europa a due velocità” ormai sulla bocca di tantissimi, dopo le parole della Merkel, dando ovviamente alla Francia un posto privilegiato nel continente di serie A.

Sinistre fedeli alla linea?

Se guardiamo il programma con cui Benoit Hamon ha vinto le primarie non possiamo che stupirci positivamente. Dopo anni segnati dai tagli di salari e diritti, si parla invece di superamento della cultura lavorista, di reddito ed impegno ecologico, di lotta alla logica europea del debito, di ritiro della Loi Travail e lotta alla precarizzazione. Questo primo ottimismo si scontra però con l’osservazione che le primarie della sinistra hanno avuto una partecipazione molto bassa, a stento raggiunti i 2 milioni, sia rispetto alle stesse primarie di 5 anni fa (quasi 2,9 milioni di persone allora) sia rispetto alle primarie della destra che hanno incoronato Fillon (più di 4 milioni di persone). Soprattutto la sensazione diffusa è quella di un partito ridotto agli sgoccioli, che riesce ad attrarre solo uno zoccolo duro storico.

Le cause di questo esaurimento sono ancora da cercare nel mandato di Hollande. Durante la sua presidenza il partito è stato teatro di una lotta intestina. I cosiddetti “frondisti”, l’ala sinistra del partito di cui Hamon fa parte, hanno più volte minacciato rotture drastiche: hanno criticato aspramente le politiche economiche, hanno ritirato alcuni ministri, tra cui lo stesso Hamon, dal primo governo Valls, hanno espresso contrarietà alla Loi Travail… ma in fin dei conti hanno accettato tutto senza mai lanciare mozioni di sfiducia e senza un vero ostruzionismo. Hanno combattuto una battaglia tattica, in vista di una resa dei conti futura con l’ala destra dei “riformatori”, senza però mettere in crisi il governo della Repubblica. I frondisti hanno tacitamente accettato l’esigenza governista, ed è attorno a questo nodo che hanno perso la loro credibilità, proprio in quel 2016 in cui la mobilitazione contro il governo socialista ha attraversato tutto l’esagono. La candidatura di Hamon e quella di Melenchon soffrono entrambe di questa ambiguità di fondo, che trova nello stato d’emergenza il suo punto più alto. Da ormai più di un anno la Francia vive in uno stato d’eccezione accettato da tutte le forze politiche, e che non è mai oggetto delle discussioni elettorali. Amplissimi poteri alla polizia, inasprimento dei confini interni ed esterni della società francese, soppressioni di molti diritti elementari: lo stato d’emergenza è un laboratorio post-democratico, e una sua critica radicale è una priorità non rinviabile dell’agenda politica francese ed europea.

Quello che sembra chiaro è che tra i protagonisti dei movimenti dell’ultimo anno, alcuni supporteranno senza entusiasmo le candidature di Melenchon o Hamon (o del troskysta Poutou), ma moltissimi diserteranno più o meno dichiaratamente il voto.

Innanzitutto numerosi soggetti che hanno attraversato le piazze ed i cortège de tete (spezzoni di testa), hanno lanciato sotto lo slogan di “generazione ingovernabile” un esplicito invito al sabotaggio delle elezioni. Si tratta per lo più di giovani, di un pezzo di società che rifiuta esplicitamente il patto sociale e cercherà di osteggiare lo svolgimento stesso del processo elettorale.

In secondo luogo tutti quei soggetti razzializzati che hanno conquistato la centralità della scena nel corso del 2016, con ogni probabilità manterranno gli altissimi tassi d’astensionismo che li caratterizzano da decenni. Si tratta di migranti di seconda, terza o quarta generazione, abitanti per lo più le periferie delle metropoli francesi, che lottano contro il razzismo di stato, le violenze della polizia e lo stato d’emergenza. Dal 19 luglio, giorno della morte di Adama Traoré per mano della polizia, il movimento che chiede verità e giustizia per Adama è diventato la punta di un iceberg in conflitto con la rigida organizzazione coloniale che imperversa nelle metropoli francese. Da pochi giorni un altro caso, quello del giovane Theo, stuprato con un manganello da 4 poliziotti, porta in strada le banlieue.

Impossibile per queste battaglie trovare dei referenti politici in qualsiasi schieramento in corsa.

Confini post-coloniali, stato d’eccezione, impoverimento e precarietà. Questi discorsi non sembrano limitati al caso francese, ma costituiscono altrettanti pilastri del governo europeo della crisi. Le presidenziali non saranno un punto d’arrivo, ma un passaggio intermedio che definirà probabilmente i nemici di chi cerca un futuro oltre questa governamentalità.