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ITALIA

Prima e dopo gli accordi di Malta: “facciamo che era…”

Gli expat italiani nel mondo illustrano il paradosso dei migranti “economici” che vanno bene quando lo siamo noi, sono “clandestini” quando arrivano dal mare.

Il pagliaccio It è uscito dal Viminale, i porti cominciano ad aprirsi (con il contagocce), di blocco navale si schiamazza solo ad Atreju; certo i decreti sicurezza restano lì, ma si è avviata con il pre-accordo di Malta, con tutti i suoi limiti, la redistribuzione europea di una minoranza degli sbarcati (quel 10% trasferito su navi Ong) ed è probabile che si vada verso una “normalizzazione” del fenomeno migratorio. Nessuno scandalo, ci sono urgenze e occorre essere pragmatici, immaginarci che alcuni cambiamenti avvengano sotto banco, nella prassi prima che nelle leggi. Il problema è che nel senso comune di una grossa ma crescente minoranza frastornata e nelle istituzioni italiane ed europee i rifugiati non sono più un’invasione portatrice di terrorismo, scabbia e spaccio ma un fenomeno da gestire dividendo i legittimi beneficiari di asilo per cause di guerra o persecuzione e oggi forse anche per emergenza climatica da quelli illegittimi o economici, che cioè pretendono di sopravvivere senza addurre scuse accettabili. In altre parole, resta la distinzione fra “regolari” e “clandestini”, pur prendendo atto che di costoro non possiamo sbarazzarci (se non a parole) con espulsioni in massa e quindi dovremo conviverci con una gamma di soluzioni che vanno dal rinchiuderli come bestie al farli lavorare in nero sotto caporali o pusher di qualche nostra mafia nazionale. Questo è il post-Malta.

Nel senso comune della parte “buona” del Paese (c’è di peggio, lo sappiamo) la discriminazione selettiva verso i migranti economici e il loro incanalamento verso forme di lavoro irregolare o di detenzione amministrativa nei CPR è un presupposto tacito e inscalfibile. Al massimo, in una (tutt’altro che disprezzabile) prospettiva di razionalizzazione economica e demografica, ci si propone di sottrarre al mercato nero dei clandestini ricattabili una parte legalizzata mediante la ripresa di flussi concordati secondo le esigenze produttive e di cura. Così fanno infatti i paesi del Nord e Centro Europa: l’Italia non lo faceva più da anni in parte per i deliri sovranisti in parte per debolezza economica, per la prevalenza del settore illegale e precario sull’industria e i servizi strutturati. In pratica “fluivano” solo badanti dall’Europa dell’est in un regime di soggiorno semi-legale perché il ricambio dei pannoloni faceva aggio sui pregiudizi razzisti. Per la raccolta di pomodori i barconi andavano più che bene. Che i migranti possano spostarsi dove vogliono loro e non dove decidiamo – noi non se ne parla neppure. Anzi, non sappiamo neppure quale sarà il loro status nei paesi dove saranno ricollocati e per di più l’Italia – in prima fila Di Maio – propone di considerare per i nuovi sbarchi autonomi “porti sicuri” quelli di Tunisia, Algeria e Marocco, riproducendo nel Maghreb la sciagurata e fallimentare operazione filtro-della Turchia.

Anche in tempi di neo-umanesimo e buonismo sdoganato (con juicio) l’immigrazione economica – l’80% dell’insieme – resta una “criticità”. I più audaci propongono lo jus soli per di studenti di seconda generazione ed è l’unica forma di legalizzazione e cittadinanza per quel settore. Meglio che niente, tuttavia…

Facciamo un esperimento mentale. Facciamo che era – ­come dicono i bambini.

Venezia sprofonda nella laguna, Il vento ammucchia le dune di sabbia sulle colonne dei templi siciliani e dell’ottagono di Castel Del Monte. Succederà probabilmente domani, ma oggi ancora no. Sciamano i giovani italiani all’estero, ma non sono profughi climatici.

Giganti buoni ammazzano compagne non consenzienti, si moltiplicano ignobili aggressioni razziste, una strage silenziosa colpisce che lavora in fabbrica e nei campi. Andrà sempre peggio, sicuro. Ma ancora non si sentono i cannoni. Sciamano i giovani italiani all’estero, ma non fuggono da una guerra.

Non è che quei connazionali siano proprio i nefasti profughi economici, quelli che vanno a rubare il pane e il lavoro agli onesti aborigeni oltralpe e oltre gli oceani? Magari complottano pure di tirarsi dietro parenti e partner con la scusa del ricongiungimento familiare. Cosa non si fa per “proteggere lo stile di vita europeo” se, appunto, a casa propria non si riesce a conseguirlo.

Comprensibile esigenza, che però viene vista male dai primi occupanti il paradiso: dagos, rital, mafia, spaghetti. Si ripete una secolare storia di affamati diretti nelle due Americhe e in Nord Europa, solo che stavolta è cambiata la composizione e il numero. Quindi si usa meno apostrofarli così, ma dipende dalle cerchie e dai paesi. Comunque, al primo stormire di recessione i transfrontalieri più leghisti di Varese diventano “terroni” nel Canton Ticino. Con la Brexit vedremo.

Quanti sono oggi gli expat – mica vorrete chiamarli migranti o nomadi, sono poveri ma appunto europei civilizzati” – e chi sono? Si tratta (2017) di oltre 155 mila persone, pari al 2,6 per mille degli abitanti, una quota più che doppia rispetto a quella di 10 anni prima (1 per mille) – ma i dati sono sottostimati, perché non tutti si cancellano dall’anagrafe italiana. Nella composizione abbiamo  un’incidenza di laureati  per circa il 30% (contro il 15,4% della popolazione residente italiana) e una provenienza per lo più (70%) da regioni settentrionali e centrali, a differenza della precedente emigrazione di origine meridionale, maggioritaria fino al 2007. Fra i residenti che emigrano, secondo una ricerca Ires-Cgil Emilia Romagna, i cittadini italiani crescono dal 2011 ininterrottamente fino al 73,9%, i restanti sono in prevalenza altri europei. Passano le frontiere anche i clandestini non registrati violando le clausole di Dublino, ma non sono calcolati. Insomma, parliamo di bianchi con un buon livello di istruzione e non appartenenti agli scalini di reddito più basso. Anche l’emigrazione non è più quella di una volta.

In cosa consiste l’esperimento mentale? In una epoché, cioè nel sospendere il sistema di diritto europeo della libera circolazione e lasciare gli stati di destinazione liberi di applicare restrizioni al libero trasferimento delle persone – perciò sarà interessante capire cosa succederà con la Brexit. In buona sostanza: ipotizziamo che finiscano i privilegi di Schengen, cioè di essere bianchi – notate come si guarda con sospetto un nero nei corridoi veloci dedicati degli aeroporti! Tutti i nostri cervelli in fuga e affini risulterebbero essere nient’altro che sporchi immigrati economici in paesi diffidenti.

Però – si potrebbe obiettare chiusa la parentesi immaginaria – le leggi vigenti in Europa per i cittadini europei non fanno distinzione sui motivi del passaggio di frontiera e della scelta di vivere in un paese straniero. Mica è un’invasione! Anzi, lungi dall’impoverirli, li arricchiamo portando il valore di una formazione acquisita a casa nostra (esatto, bei coglioni che siamo), oppure spendiamo le nostre pensioni fregando il fisco italiano in Portogallo, Tunisia, Albania, abbiamo già un capitale di stile di vita europeo e vogliamo soltanto incrementarlo con più ampi contatti (per esempio i contributi della ‘ndrangheta a Dortmund o a Miami), portiamo un tocco di mediterraneità nel grigiore ordinato del Nord. Detto in breve: ci piace viaggiare e stabilirci dove cazzo ci pare (non dove vogliono “ricollocarci”), vogliamo più soldi, minimi salariali decenti, borse, dottorati e tenure, cibo peggiore ma servizi migliori, siamo migranti economici ma bianchi come voi, solo più poveri. Accoglieteci a braccia aperte!

 

 

Abbiamo insistito su un problema di whiteness quasi inesistente nell’opinione pubblica e nella cultura accademica italiana a differenza degli Usa. dove è centrale per motivate ascendenze schiavistiche e segregazioniste. Nondimeno è assurdo far finta che razza e colonialità non ci riguardino, come se Libia, Etiopia, Eritrea fossero nella costellazione di Andromeda. Il fatto che il mondo mediterraneo a noi contiguo ci presenti una gamma sfumata dall’olivastro e nero non toglie che, in ogni modo, noi ci rappresentiamo come bianchi. Al punto che la paranoia dell’invasione e della sostituzione etnica si accanisce su chi viene dal mare senza badare ai molto più numerosi flussi terrestri balcanici; più che al Dna si guarda alla pigmentazione della pelle. L’islamofobia si sovrappone alla demarcazione di colore: il maghrebino o mediorientale più chiaro è però un potenziale integralista musulmano (anche se copto o monofisita), mentre il nero cristiano del Senegal o dell’Eritrea è comunque un nero… In conclusione, l’italiano che va a cercar fortuna all’estero è un bianco, chi arriva in Italia è un clandestino o un terrorista, a essere buoni un migrante economico. Di colore più o meno marcato, guarda caso. Che il razzismo sia spesso inconscio non toglie che razzismo sia.

L’esperimento mentale ci ha consentito di mettere in luce un paradosso: che la distinzione fra regolari e irregolari e la libertà di movimento valgono solo per “noi” e non per “loro”. Che la differenza è riconducibile alla linea del colore. Che si passa dal suprematismo straccione della marmaglia di Papeeteland e da quello sotto traccia del “non siamo razzisti ma…” a forme più sottili e sublimate, la cui materia è la figura giuridicamente indefinita e amebica ma stigmatizzata e angariata del “clandestino”. Da cui, ripetiamolo, noi italiani, emigranti per ragioni non politiche o climatiche ma bassamente “economiche”, ci esoneriamo soltanto in quanto “bianchi”.

Per i “cattivisti” il clandestino è un “tipo d’autore”, come l’Ebreo, lo Zingaro e il Comunista per i nazisti, cioè qualcuno che è un criminale in sé a prescindere dalle concrete violazioni di legge che gli si possono attribuire; per molti “buonisti” è una figura da proteggere per la sua vulnerabilità più che per il suo essere portatore di diritti universali. Il superamento di Dublino, quindi la libertà di movimento è riservata ai migranti meritevoli di asilo per ragioni inoppugnabili, mentre per gli altri è prevista nel migliore dei casi tolleranza compassionevole, nel peggiore espulsione o sommersione nella sfera illegale. Fin quando questo modello di divisione non sarà superato e avremo (non solo per tale motivo) un mercato del lavoro duale e una cittadinanza non coincidente con la residenza la democrazia sarà a rischio (l’estate 2019 ha sgranato una bella serie di avvertimenti) e la produttività del sistema economico sarà tarpata. È istruttivo il confronto con la Germania, che ha sottomercati del lavoro tipo Hartz IV e squilibri regionali ma non settori etnicizzati. Sono più ricchi.

Stiamo parlando della sola area mediterranea e sappiamo bene che movimenti migratori e suprematismi perfino più vigorosi esistono in Russia nei confronti dei caucasici, in Asia, sul border Usa-Messico. Nella stessa Africa fra Maghreb e aree sub-sahariane. E che magari un giorno gli europei saranno in blocco declassificati come non-Han da un nuovo soft power imperiale. Il meccanismo della selezione in tutti i passaggi delle migrazioni va demolito ed è il compito all’ordine del giorno, anche se finora ci si è concentrati sulle fasi più drammatiche del salvataggio e dell’ammissione in porto della minoranza che arriva per mare. Ci siamo a buon diritto emozionati per le imprese della “Mare Jonio” e della “Sea Watch”, prendendo atto dell’enorme contributo che hanno dato per far saltare il precedente governo, ma forse è ora di alzare l’asticella affrontare il problema strutturale, su scala nazionale ed europea, della libertà di movimento di tutti i migranti (italiani compresi, che al momento ce l’hanno nel continente, meno in UK e in Usa) e naturalmente dei percorsi di integrazione e accesso alla cittadinanza degli “extracomunitari”, comunque finora si siano “infiltrati” nella Fortezza Europa.