DIRITTI

Giustizia o tortura?

Le problematiche del regime di carcere duro (41-bis) che emergono dal rapporto della Commissione diritti umani del Senato . E il caso limite di Vincenzo Stranieri, in isolamento da 24 anni.

È stato pubblicato qualche giorno fa dalla Commissione parlamentare straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi il rapporto sul sistema detentivo speciale. L’indagine conoscitiva sul 41 bis, il regime di carcere duro a cui vengono sottoposti, dal principio degli anni’90, i sospettati di associazione terroristica e mafiosa.

La relazione conclusiva è giunta dopo tre anni di lavoro, durante i quali la Commissione ha visitato quasi tutti gli istituti penitenziari nei quali si trovano sezioni con detenuti sottoposti al regime speciale. il rapporto sul regime detentivo speciale 41-bis è stato redatto nel quadro dell’indagine conoscitiva sui livelli e i meccanismi di tutela dei diritti umani vigenti in Italia e nella realtà internazionale. Approvato dalla Commissione con 12 voti favorevoli e 4 contrari (Movimento cinque stelle e Lega, entrambe, formazioni politiche che hanno fatto del populismo penale uno dei loro cavalli di battaglia) contiene raccomandazioni che potrebbero sembrare scontate a chiunque abbia nozioni minime in tema di diritti umani. A chiunque abbia un parente, un amico sottoposto a quel regime, soprattutto al detenuto stesso, quegli stessi pareri redatti dai parlamentari sembreranno, invece, importanti conquiste. In particolare, la Commissione ha raccomandato di “facilitare lo svolgimento dei colloqui dei parenti dei detenuti e consentire la possibilità di cumulare le ore di colloquio non usufruite”. Non solo. Che sia consentito “di avere visite senza il vetro divisorio, ovviamente secondo le necessarie condizioni di sicurezza”. E di poter verificare, inoltre, se ci sia “la possibilità di dedicare alle visite con i minori di 12 anni un intervallo di tempo al di fuori dei 60 minuti totali riservati al colloquio con i familiari”.

Queste sono solo alcune delle richieste – di rispetto della dignità del recluso – avanzate dai parlamentari, che, nel corso delle visite in quasi tutte le carceri italiane, hanno ascoltato numerosi detenuti. A partire dai loro racconti, è possibile tracciare una vera e propria cartografia delle condizioni quotidiane di detenzione. Sono le restrizioni materiali, alcune di esse completamente senza senso, le regole più contestate. Per farsi un’ idea delle privazioni in cui sono costretti i detenuti al 41 bis: “è possibile l’uso del fornelletto a gas solo di giorno”. Vi è comunque il divieto assoluto di cucinare i cibi, che possono essere soltanto riscaldati. E poi, si legge nella relazione: “molti hanno segnalato una serie di problemi legati alla corrispondenza”. Nel senso che a volte le lettere ricevute dai detenuti vengono consegnate a distanza di giorni dal loro arrivo effettivo in carcere. Oppure non vengono spedite tempestivamente.

Sempre con riferimento alle comunicazioni verso l’esterno, alcuni parlamentari componenti della Commissione diritti umani del Senato hanno evidenziato l’eccessivo controllo e la censura, sulle lettere ricevute e su quelle spedite. Lamentato continue violazioni della privacy, date dalla presenza di telecamere in cella, e anche nei bagni. Emblematiche di un regime di detenzione che sfiora in molti casi la tortura sono alcune storie, così come emergono dal rapporto: “ n detenuto di 28 anni, da 6 anni in 41-bis, dice, sì, di ricevere periodicamente le visite della moglie e del figlio di 10 anni, ma se il colloquio salta, non è possibile recuperarlo, così deve attendere un altro mese per poterli rivedere”. Oppure: “un detenuto chiede di indagare sulle aree riservate”. In queste ultime, per intenderci, si trovano i boss storici mai pentiti, come Nitto Santapaola e Totò Riina. Qui vi sono le celle al piano terra della sezione 41 bis, in palazzine separate dal resto del carcere. Nelle aree riservate il bagno è nella stanza, spesso “si tratta di un servizio igienico alla turca”. L’ora d’aria la trascorrono in stanzette di cemento armato larghe tre-quattro metri e alte tre. Gabbie, chiuse in cima da una pesante rete di ferro a maglie strettissime. In questi luoghi non sono ospitati solo i signori di Camorra e Cosa Nostra. Anche le cosiddette “dame di compagnia” abitano le aree riservate, cioè, detenuti senza un particolare spessore criminale designati dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per adempiere alla funzione di fare compagnia ai “capi”. Tutto ciò per consentire all’Italia di far fronte alle sentenze della Corte di Giustizia europea intervenute “in difesa” dei detenuti al 41 bis. Poiché è stato “riconosciuto” a questi ultimi il diritto all’aria in comune e alla socialità.

A leggere i racconti di vita internata si apprendono dettagli che fanno a pugni con la dignità e i diritti fondamentali delle persone riconosciuti dal nostro ordinamento costituzionale; e con la stessa funzione primaria rivestita dall’istituto penitenziario, di reinserimento alla vita sociale. È il caso di quel detenuto laureatosi in giurisprudenza (e che ora si appresta a farlo anche in scienze politiche) che “ha discusso la tesi nella sala colloqui dietro al vetro divisorio, con i sette professori della commissione dall’altra parte”. È la storia di chi si chiede perché: “in cella col fornelletto è permesso fare il caffè, ma non si può cuocere un uovo”; oppure del detenuto a cui il tempo che viene concesso per scrivere al pc gli viene sottratto dall’ora d’aria. Di chi “vorrebbe ascoltare Radio Radicale e non solo i canali Rai”. Ma è anche la storia di chi racconta: “ho contato che in un’ora faccio su e giù per la cella per 780 volte”.

Eppure, “nonostante tutto, morti non siamo”, le parole di una delle donne detenute in regime di 41-bis che i membri della Commissione diritti umani del Senato hanno incontrato nel corso dei sopralluoghi effettuati in diversi istituti di pena, racchiudono bene il senso di ciò che si prova a vivere al 41-bis. Sono – ancora qui – gli istanti di vita raccontati nella loro quotidianità a porre numerosi interrogativi sul mancato rispetto dei diritti soggettivi minimamente intesi. Perché di questo si tratta. Al di là dei gravi reati commessi dai detenuti al 41-bis, non da tutti per giunta, c’è da chiedersi perché, ad esempio, “alle pareti non è possibile tenere fotografie o altre immagini”. Oppure, “perché è possibile tenere in cella soltanto un numero esiguo di riviste e libri, per di più sottoposti a censura, e non per ragioni di sicurezza”. Le altre segnalazioni giunte ai parlamentari della Commissione riguardano il vestiario. È possibile che ci sia un limite preciso e stringente al numero di capi di biancheria che possono essere tenuti in cella? E che in alcuni istituti i sandali non possano essere indossati prima del 21 giugno, anche se le temperature sono alte già prima di quella data? Tutto ciò giova alla lotta contro la mafia? Oppure – per dirla con il Michel Foucault di Sorvegliare e Punire – si tratta esclusivamente della costruzione di dispositivi tesi ad alimentare “una fabbrica di desolazione ben inserita nei meccanismi di controllo attuati dal potere”. È il caso empirico che dimostra la tesi. In questo caso lo sono i racconti di vita carceraria.

Accade al carcere di L’Aquila. Le sedi del 41 bis devono essere da Secondigliano in su – si disse così all’epoca della sua istituzione, nel 1992, subito dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio. La struttura più a sud, infatti, si trova a L’Aquila. Presso il carcere della città abruzzese – oltre alle 6 sezioni maschili del 41 bis – esiste anche l’unica sezione femminile, in cui sono recluse 9 donne. “Nel corso della visita è stato sollevato il problema della presenza continua di agenti durante le visite mediche, tranne nel caso di visite psichiatriche” si legge nel rapporto della Commissione. È stata una detenuta a raccontare di essersi rifiutata di farsi visitare. E, in seguito, di aver presentato richiesta al magistrato di sorveglianza “di poter essere visitata senza il piantonamento”. La sua richiesta viene accolta ma – nella memoria resa alla Commissione ricorda che: “le visite delle detenute continuano a svolgersi davanti ad agenti”. Sempre dal braccio femminile di massima sicurezza di L’Aquila provengono altre storie di “pena come sanzione disciplinare, ben inserita nei meccanismi di potere-sapere che manipolano gli individui”, per dirla ancora con Foucault. C’è la storia della reclusa che ha raccontato di non poter ricamare perché ha fatto richiesta di usare ago e filo, ma non è stata accolta. C’è una donna a cui è stato negato il detersivo, che non è consentito in cella. E c’è la detenuta che non può usare fermagli per i capelli. Tutto ciò accade nel carcere di massima sicurezza L’Aquila, dove c’è chi ha chiesto di poter dipingere e non è stato accontentato.

C’è chi è al 41-bis da quando nel 1992 è stato istituito il regime speciale e ha girato numerose sedi tra cui Pianosa, penitenziario poi chiuso, “L’Alcatraz italiana”. È il caso di Vincenzo Stranieri, ritenuto ancora oggi, come emerge dalle carte dei numerosi processi intentatigli dai giudici dell’antimafia pugliese, il numero due della Sacra Corona Unita (organizzazione di cui sarebbe stato uno dei fondatori). Nonostante non esca dalla sua cella di tre metri quadrati dal 1984 e sia costretto all’isolamento, ovvero al 41 bis, da ventiquattro anni. Dal luglio 1992.

Dentro una vita” insomma, parafrasando il titolo di un libro che già otto anni fa raccontava la storia di sofferenza dell’internato, già boss di Manduria, in provincia di Taranto. Uno scritto denuncia pubblicato nel 2008, l’esito di un rapporto epistolare avuto dal boss con un cronista esperto – Nazareno Di Noi – collaboratore pugliese del Corriere della Sera. “Dentro una vita è il racconto di privazioni, violenze, abusi, torture psicologiche e fisiche inflitte in base alla regola del 41 bis” si legge nella prefazione al libro scritta dall’allora deputato radicale Sergio D’Elia, fondatore dell’associazione Nessuno Tocchi Caino che fu il primo a far conoscere il dramma carcerario di Vincenzo Stranieri, detto “Stellina” (per via di una stella a cinque punte tatuata sulla fronte). L’ex boss della Scu non sta scontando pene per ergastoli o omicidi, eppure nessuno è in grado di dire quando tornerà libero.

Quel che si sa è che sono passati esattamente sei anni, invece, da quel 17 aprile 2010, giorno in cui il detenuto Stranieri fu trasferito una prima volta dal penitenziario di L’Aquila all’ospedale giudiziario di Livorno. “Perché profondamente debilitato e non si nutriva più”. Lo va a trovare nell’Opg (ospedale psichiatrico giudiziario) toscano la figlia Anna, che quel giorno per la prima volta dopo 18 anni potrà abbracciare il padre, vederlo e parlagli senza un vetro divisorio. Ma “Stellina”, che nel frattempo ha perso 45 chili, non la riconosce. Rifiuta il contatto, interrompendo il colloquio. Nel frattempo la figlia perde le tracce del padre, scoprendo quasi un mese dopo che l’hanno rinchiuso nuovamente a L’Aquila, dimesso dall’ospedale dopo aver subito diversi trattamenti sanitari obbligatori (Tso).

Anna Stranieri incontra nuovamente il padre il 22 Maggio nel reparto psichiatrico dell’Ospedale di L’Aquila. Questa volta Vincenzo la riconosce, ma per lei quell’uomo non è più lo stesso. Chiede aiuto ai parlamentari del gruppo radicale che depositano interrogazioni e denunce, rimaste lettera morta. Scrive all’allora ministro della giustizia Angelino Alfano: “ non chiediamo l’impunità, né la scarcerazione, ma che sia curato” – si legge così nella lettera inviata da Anna Stranieri all’allora ministro del Governo Berlusconi, ora titolare degli Interni in quello guidato da Matteo Renzi, rimasta anch’essa senza risposta.

Sei anni dopo Anna dice la stessa cosa aprendo la porta dell’abitazione modesta in cui abita alla periferia di Manduria. Così racconta: “mio padre è isolato dal mondo da quando aveva ventisei anni. Ora ne ha quasi sessanta. La sua psiche è devastata. Ha subito diversi ricoveri negli ospedali psichiatrici, molti trattamenti sanitari obbligatori”. Fino al 31 dicembre 2015, Vincenzo Stranieri fa la spola tra il carcere di Terni dove attualmente è rinchiuso e l’Opg di Livorno. Ora i Tso sono così frequenti che li fa direttamente in carcere.

“È naturale che dopo trent’anni seppellito vivo un uomo possa impazzire” racconta Anna: “mi chiedo che senso abbia, invece, sottoporre una persona alla tortura”. È a L’Aquila – lascia intendere – che tutto cominciò. In effetti, le conferme alle parole di Anna – sull’eccessiva durezza del penitenziario aquilano – si trovano nelle pagine del libro di Nazareno Dinoi. Si racconta di una denuncia presentata nel 2009 dalla famiglia di Stranieri alla procura della città abruzzese, tramite l’avvocato Lorenzo Bullo. Anch’essa non avrà seguito. Eppure, dalla lettura dell’esposto emerge una “condizione di prostrazione fisica e psichica che manifesta uno stato di malessere causato da diverse vessazioni, minacce e torture attuate nei suoi confronti dal personale della polizia penitenziaria”. Dunque, gli agenti di custodia si legge ancora nella denuncia “avrebbero annientato psicologicamente e moralmente l’uomo con parole di questo tipo: reagisci, così ti portiamo in isolamento, ti lasciamo nella cella giù, al buio, nudo, dai reagisci così ti rompiamo il culo”. Gli agenti a cui la famiglia Stranieri si riferiscono sono quelli del GOM, il gruppo operativo mobile, un corpo speciale di poliziotti penitenziari che – così recita il Decreto che lo istituisce: “possono effettuare interventi per motivi di sicurezza e riservatezza, in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia e con particolari modalità operative”. Il GOM è già diventato tristemente famoso durante le giornate del G8 di Genova, nel 2001 quando si era segnalato per i violenti pestaggi nel carcere di Bolzaneto. Ora, gli agenti del GOM sono quasi mille in Italia e sono dislocati in tutte le sezioni di 41 bis.

Nonostante le gravi evidenze sanitarie e psichiche, qualche giorno dopo la denuncia presentata dalla famiglia, il 3 dicembre 2009 – con decreto del Ministero di Grazia e Giustizia – a Stranieri è stata notificata l’ennesima proroga del regime di carcere duro, motivata con una scarna formula che negli anni si è ripetuta identica: “non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza”. Quella volta, però, c’era una motivazione in più. Riportata in un’informativa della direzione distrettuale antimafia pugliese, in cui si legge “da segnalare, infine, il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare”. Il giornalista di cui si parla è il già citato Nazareno Di Noi, autore del libro su Stranieri, il cui unico scopo era, invece, di entrare Dentro una vita vissuta in carcere e di raccontarla. Liberandola dalle catene dei pregiudizi che porta con sé la politica della pena. Dal limbo infernale in cui si confonde ancora la giustizia con la tortura.