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Giornate rivoluzionarie in Ecuador: dallo sciopero nazionale alla grande marcia indigena

Cronaca e analisi della rivolta indigena e popolare contro le misure neoliberali del governo di Lenin Moreno e del Fondo Monetario Internazionale: durissima la repressione, ad oggi sono sette i morti e centinaia i feriti e gli arrestati, ma la lotta continua e si estende in tutto il paese.

Spari e cori. Questo mi sveglia mercoledì 9 ottobre, nella mia casa di Quito. Gli spari sono quelli della forza armata in difesa del governo di Lenín Moreno, ormai chiaramente ripudiato da migliaia di ecuadoriani, che sta causando morti e feriti (a oggi sono sette i morti e più di 650 i feriti). I cori sono quelli delle comunità indigene che da tutto il paese sono arrivate fino alla capitale marciando e cantando «El pueblo, unido, jamásserávencido».

 

Spari e cori sono il risultato di insoddisfazione e indignazione popolare contro un neoliberismo economico che si sta cercando di imporre con una serie di misure di austerità, note in Ecuador come “paquetazo”.

 

Queste fanno parte di un accordo con il Fondo monetario internazionale (FMI) per ottenere prestiti per 4.209 milioni di dollari in cambio della riduzione del deficit fiscale: la formula è quella di tagliare la spesa pubblica e aumentare le entrate (diminuendo per esempio i salari del 20% per i contratti temporanei del settore pubblico e riducendo le ferie da 30 a 15 giorni per i dipendenti pubblici oltre a un contributo di 1 giorno di stipendio ogni mese). Secondo Mark Weisbrot, condirettore del Center for Economic and Policy Research Center, la proposta del FMI obbliga l’Ecuador a eliminare una serie di politiche che negli ultimi anni «hanno avuto molto successo» nello stimolare la crescita economica e ridurre disuguaglianza e povertà. La strategia del FMI è in pratica equivalente a mantenere alta la disoccupazione e ridurre i salari in modo che l’economia diventi più competitiva a livello internazionale. «Questo piano di aggiustamento non funziona, come non ha funzionato in Argentina e questa austerità, che colpisce soprattutto i lavoratori e le lavoratrici indigene e i più poveri, probabilmente renderà lo standard di vita più precario», continua Weisbrot.

 

Galleria fotografica di Luis Herrera – Coop Docs Cooperativa Audiovisual

 

Ma la misura che ha causato maggior controversia è stata l’eliminazione del sussidio per i carburanti. Attraverso il decreto 883 il presidente Moreno ha disposto l’eliminazione del sussidio ai carburanti, una sovvenzione statale vigenti dagli anni ‘70, la cui abolizione ha un impatto negativo sull’intera popolazione ecuadoriana, anche se la classi medio-basse e le comunità contadine e indigene potrebbero essere le più colpite (specie tramite la minaccia di incremento del prezzo del trasporto e dei generi alimentari). Proprio per questo, sebbene l’agitazione sia stata indetta inizialmente dai sindacati dei trasportatori e dai tassisti, ben presto si è convertita in un movimento che sta coinvolgendo un amplio spettro di settori sociali, guidati in primis dalle forze indigene.

Durante i primi giorni dopo l’annuncio del “paquetazo” varie comunità indigene si sono organizzate a livello locale (soprattutto nelle provincie di Pichincha, Imbabura, Cotopaxi, Carchi e Cañar) sbarrando vie di comunicazione fra il nord e il sud del paese e vietando l’ingresso nei propri territori alle forze militari, pena l’applicazione della giustizia indigena.  Nelle province amazzoniche di Sucumbíos e Pastaza, invece, rappresentanti delle nazionalità Kichwa, Shuar e Siekopai, si sono organizzati in protesta occupando installazioni petrolifere, fonte principale di contaminazione e disagio sociale nelle zone “di sacrificio” destinate all’estrazione dell’oro nero.

 

Tuttavia, già da lunedì, alle proteste a livello locale, si sono sommate grandi marce verso la capitale, marcie di quelli che vengono definiti qui come «gli eroi non con il mantello, ma con il poncho». Eroi ed eroine di uno stato plurinazionale, che si stanno dirigendo verso Quito, allora sede del governo.

 

 

Infatti il presidente Lenin Moreno ha annunciato questo stesso giorno il trasferimento del quartier generale del governo da Quito a Guayaquil, tradizionalmente bastione conservatore dell’oligarchia ecuadoriana, ed è ricorso allo stato d’emergenza che gli permette di adottare misure repressive molto più pesanti. Infatti, oltre a spostare la sede del governo, questo martedì il governo ha anche parzialmente limitato il traffico e la mobilità in alcune aree del paese, che le comunità indigene hanno rifiutato e qualificato come “coprifuoco”. Moreno ha concesso ai militari poteri speciali per reprimere le proteste e le organizzazioni indigene riferiscono anche dell’apertura di una prigione speciale da parte delle forze di polizia e denunciano il blocco mediatico che sta regnando nel paese e che non permette di avere informazioni sullo stato di compagni e compagne detenute, scomparse o ferite.

 

Ma non si parla solo di feriti. Si parla anche di morti: la Confederazione di nazionalità indigene dell’Ecuador (CONAIE) ha riferito che a seguito della repressione del governo contro i manifestanti, alcuni dei loro compagni avrebbero perso la vita.

 

 

In quel gruppo ci sarebbe il leader indigeno Inocencio Tucumbi, calpestato da poliziotti a cavallo durante una manifestazione pacifica, e due compagni indigeni di Pujilí. Un altro ragazzo, Marcos Oto, di 26 anni, è stato ucciso dalla innecessaria violenza delle forze dell’ordine che lo hanno scaraventato giù da un ponte insieme a due amici, attualmente in prognosi riservata. Altre due persone (si pensa anche un bebè) sono morte per asfissia durante un attacco con lacrimogeni all’interno dell’Università Cattolica, nonostante il territorio universitario fosse stato dichiarato zona franca e fosse stato destinato all’assistenza umanitaria di donne, bambini e anziani. La brutalità della polizia si è manifestata anche in questi spazi “umanitari”: infatti poche ore dopo l’annuncio delle zone franche, si è iniziato un bombardamento con lacrimogeni che ha avuto conseguenze importanti anche se al momento non stimabili.

Lo stato di emergenza è stato dichiarato con la scusa di vandali e criminali infiltrati nelle fila della protesta, creando così una caccia alle streghe che sta giustificando la mobilitazione dell’esercito, il dispiegamento di carri armati e armi da fuoco di qualsiasi tipo.

 

Tra paura e preoccupazione, le persone, ovviamente, continuano la loro protesta pacifica. Ieri, prima dell’arrivo imminente delle comunità indigene di diverse comunità e province, c’erano migliaia di persone che marciavano verso San Blas, nel centro storico, luogo emblematico di protesta in città.

 

In questi giorni abbiamo visto immagini terrificanti: come quella di uno stormo di motociclette che investe persone; come quello dei giovani gettati su un ponte; quella di una compagna che è stata uccisa nel parco fulcro della rivolta, el Arbolito, in un brutale assalto contro le donne indigene; quella delle bombe lacrimogene lanciate dalla polizia nella Casa della Cultura, fulcro delle cultura della capitale e gigantesca installazione che ha dato riparo nei primi giorni a molti dei 20 mila indigeni arrivati da tutto il paese.

Ci è toccato vedere immagini che richiamano uno squilibrio istituzionale profondo come quella del presidente affiancato da militari impettiti nelle loro divise di guerra o quella del ministro che ha definito queste riforme economiche neoliberali come la panacea nazionale per combattere il cambiamento climatico.

 

Galleria fotografica “L’altra faccia della rivolta” di Coop Docs Cooperativa Audiovisual.

 

Tuttavia, abbiamo anche visto immagini di enorme forza e ispirazione comunitaria, come quella delle città che marciano e attraversano il paese per opporsi all’imposizione di un modello estrattivo, predatorio, razzista e sessista.

 

E delle donne che cucinano e condividono il cibo in strada con i manifestanti e la forze dell’ordine, anche loro, i nemici, alimentati della donne del popolo; delle brigate mediche che stanno prestando assistenza in qualsiasi luogo ce ne sia bisogno, nonostante la polizia non stia risparmiando neppure loro, accecati da una furia ormai ingiustificata; delle case culturali che stanno ospitando chiunque ne abbia bisogno; della forza militare che ha attaccato esponenti delle polizia nazionale, ormai loro stessi indignati da tanta violenza; delle donne indigene, anziane e scalze, camminando per giorni, con bebè al seguito, che con forza e dignità continuano a lottare in questo paese da quasi 530 anni.

Tutte le foto sono di Coop Docs Audiovisual – Ecuador.