MONDO

Gaza, noi e la “questione palestinese”

Da qualche parte bisogna ripartire. Oggi bisogna difendere Gaza dall’escalation militare[…] , inceppare la macchina da guerra armata, ma anche quella mediatica ed economica. Oggi dobbiamo tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi.

1. Il titolo, in taglio basso, della prima pagina del Messaggero di oggi non lascia dubbi: “Allarme razzi a Tel Aviv”. A rinforzare il titolo, una foto di una soldatessa israeliana che mette in mostra i resti di un razzo intercettato, quegli ordigni che fino ad oggi hanno provocato zero vittime e zero feriti. Nell’occhiello in alto, minuscolo, la conta dei morti palestinesi: oltre 100, mentre i feriti non si contano più. All’interno, il racconto del massacro emerge con più forza ma accanto, come in un macabro gioco di specchi, viene pubblicata un’ “inchiesta” sulla diffusione di immagini di guerra strazianti, di repertorio o riferite ad altri scenari di guerra, utilizzate per una “campagna mistificatoria” contro la bontà delle operazioni di Israele, i suoi raid chirurgici e pre-allertati. Secondo il giornale, i morti arabi sarebbero dovuti, nella maggior parte dei casi, alla crudeltà di Hamas che utilizza donne e bambini come “scudi umani”.

Siamo allo zenit della cattiva coscienza europea e occidentale, fatta di neo-colonialismo e razzismo di ritorno, collusione di interessi e quintali di ignavia politica ed etica. Le ultime notizie che giungono dai residui dell’opposizione interna al governo di Netanyahu consegnano una firma beffarda sulla tragedia: il quotidiano progressista Ha’aretz, grazie a una fonte interna ai servizi segreti, riporta il resoconto di una riunione dei vertici dello Shin Bet, tenuta lo scorso 5 giugno, in cui si ipotizzava uno scenario abbastanza dettagliato del sequestro di tre giovani coloni, come test di prova per l’esercito alla luce di una recente proposta di una legge che avrebbe consentito al governo la possibilità di scambiare gli ostaggi con terroristi condannati per omicidio.

Quale corto circuito culturale e politico, nel nostro paese, ha prodotto un muro di gomma cosi impenetrabile a difesa del governo di Israele, quando molti di questi mattoni sono stati impastati da certa sotto cultura cattolica, reazionaria, borghese profondamente antisemita? Quando si è compiuta l’inversione di marcia, nei confronti dei movimenti e della sinistra radicale, che ha deciso di bollare come antisemita ogni espressione di opposizione all’apartheid e all’estremismo sionista?

2. Non serve immergere la testa nelle paludi complottiste per cogliere i nessi mostruosi tra cause, effetti e interessi in campo. In un senso di impunità che ricorda alcuni precedenti storici – viene in mente il Sud Africa dell’apartheid, le guerre imperialiste Usa, le dittature militari sud americane, i massacri polpottiani – il governo di Israele si prepara a invadere via terra la Striscia di Gaza, una sorta di mega campo di concentramento a cielo aperto, con la più alta densità demografica del mondo e un livello di vita che definire infernale è alquanto realistico.

Quasi 50 anni di “routine del male” hanno prodotto una anestetizzazione di massa alla guerra, alla sopraffazione, al massacro di bambini, donne e uomini di ogni età, quasi sempre civili. Israele si presenta già come stato binazionale, con pesanti discriminazioni interne che colpiscono il 20% di popolazione araba-israeliana, a cui è interdetta una sostanziale mobilità sociale e l’accesso ad alcuni funzioni politiche e amministrative. Le immagini di alcuni abitanti di Siderot, al confine con Gaza, che organizzano visioni colettive dei bombardamenti sulla Striscia come se stessero davanti a uno spettacolo estivo di fuochi d’artificio, dà l’idea del livello di degrado della percezione pubblica della guerra ai palestinesi, di come l’odio e il razzismo hanno permeato le coscienze di una storia nata, comunque la si veda, con l’ambizione puntuale (per gli ebrei) ma universale (per tutti gli oppressi) di mettere fine a secoli di discriminazioni.

Che fine hanno fatto le manifestazione oceaniche di Peace Now e della sinistra israeliana della prima Intifada? Che cosa ha prodotto l’esemplarità e il coraggio dei “refusenik”, i militari obiettori che pagano con il carcere la loro disobbedienza? Dove si è perso il fragile ma importante movimento “Occupy” che nel 2012 aveva aperto un varco contro le politiche neo-liberali e di austerità di Tel Aviv? Dove sono le parole degli intellettuali israeliani contro l’occupazione? Dove sono finiti gli studenti, i giovani e i movimenti laici, queer e per i diritti civili?

3. Venerdi 11, tardo pomeriggio. Il presidio romano, circa 500 persone, decide di muoversi verso via Cavour. In testa lo striscione “Roma antfascista con la resistenza palestinese”. Prima di partire, partono alcuni insulti diretti a fotografi e giornalisti rei di rappresentare la guerra a Gaza solo dalla parte del governo israeliano, anche se effettivamente, in questa occasione, molti dei reporter presenti sono da sempre vicini o addirittura “interni” ai movimenti romani. Negli stessi istanti, tre giovani palestinesi, si inginocchiano davanti allo striscione, catturando l’attenzione di video camere e cellulari. Iniziano a pregare, ripetendo il rituale della devozione, piegandosi e rialzandosi più volte come prevede il rito islamico. Davanti il divieto della polizia, il corteo fa dietro front, e nel giro di un’ora scarsa, percorre le poche centinaia di metri fino al Colosseo, dove si scioglie senza rumore. Pochi frame di una generosità militante che, nello smarrimento di pratiche e di obiettivi spendibili, si traduce in uno strano mix di impotenza politica e rappresentazione identitaria (e religiosa), distante anni luce dalla storia straordinaria, laica e radicale, della resistenza palestinese.

Una volta, fino agli anni Ottanta, le icone della resistenza erano legate a un immaginario di sinistra o rivoluzionario, rappresentate ad esempio dalla presenza in prima fila – nei gruppi armati, nella direzione politica, nelle immagini di propaganda – di figure femminili, laiche ed emancipate. Nella stessa Olp, le componenti di Al Fatah (Yaser Arafat) e del Fronte popolare (George Habash), si contendevano la guida giovanile e proletaria, ma anche colta, della lotta nazionale.

Il crollo del Muro di Berlino, la lunga onda restauratrice neo-liberale, le operazioni da apprendista stregone di Israele – che a metà anni Ottanta promuove direttamente e indirettamente la nascita di Hamas e dell’estremismo religioso per indebolire la leadership di Arafat – ridefiniscono lo scenario politico e sociale palestinese, che ad oggi vive una doppia debolezza non più eludibile: da una parte, la fragilità politica, programmatica e “morale” dell’Autorità nazionale palestinese, che esprime una flebile sovranità sulla Cisgiordania; dall’altra, il partito-stato di Hamas, che nella Striscia di Gaza coltiva una grande capacità di consenso anche attraverso la sedimentazione di un sistema organico di “welfare” (per quello che può significare questo concetto in una zona di guerra e di estrema povertà).

Come favorire, sostenere, alimentare la riapertura di un altro, terzo, nuovo, “spazio politico” di resistenza, nei territori occupati ma anche tra gli arabi di Israele e nei paesi vicini? Che ruolo possono avere i movimenti di opposizione sociale alla crisi globale, la cooperazione internazionale, i progetti autorganizzati di diplomazia e solidarietà dal basso?

La liturgia della testimonianza ha tramortito anche le forme militanti della solidarietà internazionale. Dodici anni fa (sembra un secolo), l’assedio al quartier generale di Arafat, a Ramallah, fu rotto da una straordinaria azione di solidarietà trans-nazionale, figlio legittimo del gigantesco movimento contro la “guerra globale e permanente”, che li trovò una delle sue poche traduzioni di pratiche e di programma. Davanti la crisi e la ridefinizione delle forme storiche della sovranità, della rappresentanza e delle relazioni istituzionali globali, bisognava sperimentare forme di diplomazia diretta dal basso, in un rapporto “comune” e non più di solidarietà esterna.

Quel piano, allora, era settato sulla dimensione della guerra guerreggiata, inaugurata nei Balcani negli anni Novanta e proseguita da Bush negli anni zero in Afghanista e in Iraq.

Ora si tratta, probabilmente, di ripensare la lotta per l’autodeterminazione palestinese dentro una nuova prospettiva “comune”, legata alla crisi economica globale, alla nuova “accumulazione originaria”, ai meccanismi di sfruttamento delle risorse e dei beni comuni naturali e artificiali, che in Palestina si traducono con il saccheggio di terra, acqua, risorse e forza lavoro schiavizzata. Una declinazione neo-coloniale delle politiche neo-liberali che, senza un’opposizione di nuovo conio, interna e globale, rischia di arrivare al punto di non ritorno, quello della pulizia etnica.

Da qualche parte bisogna ripartire. Oggi bisogna difendere Gaza dall’escalation militare, inceppare la macchina da guerra armata, ma anche quella mediatica ed economica. Oggi dobbiamo tornare a dire, forte e chiaro, che siamo tutti palestinesi.