ROMA

Luoghi comuni. Critica dell’ideologia del bando pubblico

I bandi non garantiscono trasparenza ed efficienza nella gestione del patrimonio pubblico. Ecco perché.

Se le crisi possono costituire una rottura col passato, aprire possibilità nuove e ipotesi di rilancio, Roma è senza dubbio di fronte a una grande occasione. Nella nostra città, ad esempio, il terremoto prodotto dall’inchiesta Mafia Capitale ha rimesso in discussione gli equilibri su cui si è retta l’economia e la politica cittadina in questi ultimi decenni; ne ha disvelato a livello pubblico e giudiziario l’incancrenirsi di fenomeni diffusi e trasversali di corruzione, clientelismo, mala gestione della cosa pubblica, degrado etico e materiale: ma l’occasione aperta da una crisi non è mai un terreno neutro e univoco. Essa è invece uno spazio di contesa tra interessi contrapposti, non riducibili alla dicotomia innovazione/conservazione, e neppure semplicemente a quella onestà/corruzione o legalità/illegalità – categorie altrettanto non neutre né univoche. Come capita in questi casi, infatti, c’è chi, gattopardescamente, spinge affinché non cambi nulla nella sostanza, facendo in modo che in apparenza cambi tutto. A tal fine la tabula rasa deve esser fatta soprattutto di ciò che poco o niente c’entra con il male da curare, se non ne rappresenta addirittura l’antidoto.

Alla luce di quanto osserviamo, infatti, ci sembra più rispondente a realtà leggere lo scontro in atto a Roma come uno scontro tra l’interesse dei molti, l’interesse comune, e quello di chi punta al consolidamento di posizioni di potere e di profitto e alla trasformazione radicale del fine stesso del governo della città.

Proprio dell’interesse comune si occupa «Decide Roma», un percorso collettivo, democratico ed autorganizzato, che sta costruendo in questa città un modo nuovo di fare politica. La nostra idea è quella di ripensare la partecipazione dei cittadini, partendo dal presupposto che è il potere stesso di prendere le decisioni che va rimesso in mano alle persone, riconoscendo l’autonomia di quelle formazioni sociali che in ogni territorio esprimono quotidianamente nuove istituzioni e nuove regole. «Decide Roma» è la sfida dei cittadini a chi si candida a governare la città, non soltanto affinché sia data risposta alle istanze e alle rivendicazioni che arrivano dal basso, ma affinché il potere di governo sia condiviso per davvero con i cittadini. Abbiamo scelto di avviare questa sperimentazione proprio durante la campagna elettorale, per immettere qualche elemento di merito che ci sembrava assente, consapevoli che la sfida vera partirà tra qualche settimana, quando le sirene elettorali avranno lasciato il posto all’onere della quotidiana gestione amministrativa.

Per quanto riguarda il patrimonio pubblico, ad esempio, ciò che è stato prospettato – nella cornice impropria e mortificante di Affittopoli (ché a Roma la politica sembra capace di rianimarsi solo in reazione alle maxi-inchieste giudiziarie) – è la cancellazione dell’enorme ricchezza sociale della città, e delle garanzie di esistenza stessa di questa ricchezza che nel tempo erano riuscite a darsi.

Ci riferiamo al sostanziale esautoramento della delibera 26/1995, all’approvazione (da parte della giunta Marino-Nieri) e all’ottusa applicazione (da parte del commissario Tronca) delle delibere 219/2014 e 140/2015. In base a queste due delibere, il patrimonio comunale, anche quello dato in concessione per attività di utilità sociale, deve essere riacquisito e messo a bando.

L’operazione viene propagandata come una svolta radicale nella gestione del patrimonio capitolino perché risponde a due criteri fondamentali: da una parte la redditività, in risposta all’enorme (e ingiusto) debito pubblico che impone la valorizzazione economica e finanziaria dei beni immobili del Comune di Roma; dall’altra parte la trasparenza, in risposta appunto alla corruzione e al clientelismo diffuso, senza tuttavia tenere in considerazione che Mafia Capitale ha potuto svilupparsi proprio sul sistema del bando a evidenza pubblica, definito dai magistrati stessi come “criminogeno”.

Alla vigilia della fine di una delle campagne elettorali più afasiche della storia capitolina, è dunque utile sfatare una serie di luoghi comuni che caratterizzano questa vera e propria ideologia del bando pubblico, assunta in maniera tutto sommato identica dai diversi candidati sindaco, piuttosto unanimi sul punto.

L’utilizzo dello strumento del bando a evidenza pubblica viene esteso tout court dal settore dei servizi e dei lavori pubblici a quello della gestione del patrimonio comunale ad uso sociale e, quindi, al campo delle attività mutualistiche, autogestite, solidaristiche, culturali. Il fondamento giuridico che giustificherebbe e vincolerebbe tale scelta viene individuato – dalla giunta Marino prima e dai Commissari poi – in alcune (non mai specificate) direttive europee. Qui individuiamo il primo luogo comune da sfatare: non ce lo chiede l’Europa! Le direttive a cui si fa riferimento (123/2006, meglio nota come direttiva Bolkenstein, e 23 e 25 del 2015) non riguardano in nessun modo associazionismo e processi di autogestione senza scopo di lucro, né il patrimonio pubblico adibito ad uso sociale, ma definiscono gli indirizzi per le normative nazionali in materia di appalti e concessioni a imprese e attività produttive per la gestione di risorse e servizi pubblici, al fine di garantire maggiore competitività sul mercato europeo.

Tale utilizzo delle sopracitate direttive rappresenta, quindi, una scelta politica di cui si dovrebbe avere il coraggio di assumersi le responsabilità pubblicamente: quella, cioè, di traslare le attività associative, autogestite e di partecipazione, di cui Roma è ricchissima, dal campo semantico del sociale a quello del mercato. Il rischio di questo slittamento è la neutralizzazione, il ribaltamento e il disconoscimetno dei principi su cui si fondano i processi partecipativi autenticamente agiti dal basso – la condivisione, la cooperazione sociale, l’autonomia decisionale. Senza contare, tra l’altro, che anche in quegli ambiti in cui lo strumento del bando pubblico è obbligatorio (appalti e concessioni per attività economiche produttive), proprio lì quello strumento sta dimostrando tutti i suoi limiti: qualità scadente dei servizi agli utenti, precarizzazione dei lavoratori coinvolti, aumento dei costi effettivi di gestione e quindi oneri spropositati per le casse pubbliche (finalizzati alla remunerazione degli investimenti privati), alimentazione delle filiere clientelari. Limiti drammatici, che non a caso in moltissimi campi (dall’accoglienza all’assistenza alla persona, dalla manutenzione del verde pubblico alla sanità privata) stanno producendo la rivendicazione sempre più forte e diffusa della re-internalizzazione dei servizi. Per prima cosa, è da contestare il criterio della redditività: svendere il patrimonio pubblico non arricchisce le casse pubbliche, metterlo sul mercato non rappresenta un guadagno per i cittadini. In base ad un’interpretazione garantista ed effettivamente sociale del principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 Cost.), il fitto tessuto di esperienze e realtà diffuse sul territorio romano sono un motore di servizi, welfare e attività aperti a tutti e imprescindibili per il benessere e la tenuta di un tessuto sociale, attaccato dalla crisi e dalle politiche di austerity: non rappresentano un costo, dunque, ma una risorsa. È la logica stessa della redditività economicistica ad essere inapplicabile alle esperienze di mutualismo e di autogestione: domandare a queste esperienze rendicontazioni stringenti, solidità dei bilanci, affidabilità bancaria, regolarità tributaria, programmazione finanziaria significa imporre loro un mutamento genetico che ne svuoterebbe la carica sociale e ne minerebbe l’autonomia politica.

Per quanto riguarda il criterio della trasparenza, l’adozione del bando introduce meccanismi di competizione tra progettualità e percorsi che oggi cooperano virtuosamente, impoverendone il potenziale e la capacità trasformativa e democratica. Il bando, infatti, essendo finalizzato alla selezione, si definisce automaticamente come un dispositivo di esclusione e controllo dell’autonomia e della libera attività associativa dei cittadini (art. 2 Cost). Va, altrettanto, smascherato il luogo comune della presunta oggettività del bando. Operando una selezione a monte, attraverso la scrittura stessa della call, e calando dall’alto verso il basso indirizzi e scelte non fondate sulle istanze che emergono dai territori e da percorsi specifici di attivazione, lo strumento del bando sposta l’accento dalla costruzione dei processi di partecipazione agli obiettivi da raggiungere. Chi in questi anni ha garantito l’uso comune e partecipato del patrimonio pubblico può senza dubbio affermare, a partire da un dato empirico, che è nella processualità che si definiscono gli obiettivi e non viceversa. Anche in questo caso, così come nei sistemi formativi ed educativi, i criteri di valutazione e di merito, riconducendo forzatamente e arbitrariamente a standard e misura ciò che non è misurabile, rischiano di distruggere e disarticolare l’enorme portato dell’informalità dei percorsi partecipativi e di minarne l’autonomia.

Se si volesse adottare un vero criterio di trasparenza e oggettività, si darebbe seguito a ciò che è già all’evidenza pubblica: la pluralità di laboratori di autogoverno, partecipazione e attivazione dal basso oggi minacciati da un’aberrazione chiamata bando pubblico. La dimensione storica e la distribuzione geografica di questi laboratori, presenti da decenni in tutta la città – soprattutto nelle periferie, abbandonate dall’amministrazione –, sono la migliore testimonianza di legittimità che ne fa vere e proprie istituzioni sociali, motori di rinnovamento e di trasformazione urbana nel segno dell’interesse collettivo.

La risposta della città solidale e mutualistica alla delibera 219/2014 e al bando pubblico per la gestione del patrimonio pubblico è contenuta nella scrittura della Carta di Roma Comune: un processo pubblico di definizione dei principi della partecipazione e dell’autogoverno che propone alla città il riconoscimento dell’uso comune del patrimonio e della categoria dei beni comuni urbani, così come accade già in più di novanta città italiane, il cui esempio più avanzato è Napoli.

Dopo il commissariamento, la città può cambiare rotta. Sta a tutti noi la costruzione della città solidale. Sta a chi si candida al governo della città saper rifuggire da rassicuranti quanto dannosi luoghi comuni e agire con coraggio il cambiamento che la città solidale costruisce ogni giorno.