EUROPA

Europa rimandata a giugno

Ancora una volta il Consiglio Europea ha preso decisioni poco chiare e rinviato le questioni più spinose di qualche mese, sperando nel ridimensionamento dell’emergenza. Manca una risposta europea a questa emergenza e una spinta dal basso per un progetto europeo più equo

Si rincorrono le spiegazioni sulle decisioni dell’ultimo Consiglio Europeo, quello che avrebbe dovuto risolvere tutto, che abbiamo aspettato per tre settimane, che avrebbe dovuto dare soldi pioggia, anticipato da dichiarazioni di Merkel che presagivano delle novità. Quindi che cosa è cambiato rispetto alle decisioni prese nell’Eurogruppo di inizio aprile? Chi vive nella bolla europea, seguendo le dichiarazioni del vice-presidente della Commissione Europea Dombrovskis dirà che «questa è la più grande risposta europea di sempre», purtroppo ci sembra calzante rispondere con il solito leit motiv all’italiana «si cambia tutto per non cambiare niente».

 

Quali sono i fondi stanziati

 

I fondi stanziati per ora sono 540 miliardi per lavoratori, imprese e stati che saranno disponibili dal 1 giugno 2020.

Cento milioni sono dedicati al fondo SURE (Support to mitigate unemployment risks in emergency), il fondo di supporto per la disoccupazione, già annunciato a inizio aprile. Questo fondo fornirà prestiti a condizioni favorevoli per coprire i costi direttamente connessi alla creazione o all’estensione dei programmi nazionali per il supporto ai disoccupati e ai lavoratori. Questo è un fondo temporaneo per supportare l’aumento della spesa pubblica per l’attivazione di sussidi ai lavoratori che hanno diminuito o perso il lavoro. Quando uno stato membro attiverà questo tipo di programmi potrà fare richiesta alla Commissione Europea per l’attivazione del SURE. A quel punto, la Commissione definirà le condizioni del prestito, che dovrà essere approvata dal Consiglio Europeo, e solo in seguito verrà attivato il prestito nei confronti dello stato membro.

La Banca Europea per gli Investimenti (BEI) ha creato un fondo di garanzia paneuropeo di 25 miliardi, che potrebbe sostenere finanziamenti fino a 200 miliardi per le imprese europee. Anche qui parliamo di un programma di prestiti dedicato alle imprese, anche se con tassi e condizioni favorevoli. Le imprese però devono essere in grado di formulare domande e progetti per aprire queste linee di credito, solitamente sono queste capacità le hanno le grandi aziende del centro-nord Europa, già europeizzate e supportate da uffici pubblici in grado di offrire consulenza su come accedere a questi fondi. Ad esempio, il Consiglio della BEI ,tra i suoi primi finanziamenti per ricerche sul coronavirus, ha appena approvato un investimento azionario di 75 milioni di euro per la società tedesca Curevac a supporto delle sue ricerche. In questo modo non si mitigano le differenze all’interno del mercato europeo, ma anzi si acuiscono, agevolando chi ha già ricevuto fondi in passato e ha sviluppato una rete istituzionale di supporto per la richiesta di questi fondi europei. E questo è valido tanto per i fondi alle imprese, quanto per gli enti locali, le università e gli istituti di ricerca.

Il restante sono 240 milioni a disposizione degli stati membri tramite il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Così come proposto dall’Eurogruppo, il MES istituirà un fondo per la crisi pandemica, basato sulla sua linea di credito di condizioni rafforzate (ECCL) disponibile per i paesi dell’area dell’euro. Non è chiaro, invece, cosa potranno fare i paesi fuori dell’area euro, che non sono mai menzionati nel dibattito pubblico. Ogni stato membro del MES potrà accedere ad un prestito pari al 2% del prodotto interno lordo, per l’Italia intorno ai 36 miliardi. Al momento questa linea di credito è aperta per: «per sostenere il finanziamento interno dell’assistenza sanitaria diretta e indiretta». Le condizioni e i tempi di restituzioni di questi prestiti saranno decise dagli organi di governo del MES e saranno standardizzate per tutti gli stati membri in anticipo. In ogni caso, tutti i programmi di aiuto dovranno essere approvato con voto unanime dal consiglio dei governatori.

Il Recovery Fund è ora in mano alla Commissione Europea, che nei prossimi mesi dovrà definire una prima architettura. La bozza che è circolata al momento mette insieme diversi programmi già esistenti e li rinomina per formare un fondo unico. Si prevede, però, un Recovery Instrument, che dovrebbe essere finanziato con emissione di debito comune, una parte di questo strumento dovrebbe essere dedicata per prestiti agli stati membri a condizioni favorevoli. In ogni caso, l’istituzione di questo fondo dovrà essere legata alla contrattazione del nuovo bilancio comunitario 2021-2027 e non prevede, al momento, fondi diretti per gli stati né una vera e propria mutualizzazione del debito, così come richiesta da Italia e Spagna.

 

 

Infografica del Consiglio Europeo

 

Un’ Europa in competizione e in debito

 

I fondi stanziati sono, quindi, tutti prestiti, e anche se le loro condizioni saranno favorevoli non si esce fuori da quella che Bersani chiama la “trappola del debito”. Ancora di più i fondi che passano tramite la BEI rientrano tutti nel meccanismo neoliberale di competizione tra attori privati e pubblici, in cui le stesse istituzioni pubbliche sono in competizioni tra loro per riuscire a ottenere i fondi, così come accade per la ricerca universitaria.

Inoltre, nonostante si ripeta che i fondi del MES siano “senza condizionalità” è importante ricordare che la linea di credito ECCL, sulla quale questo nuovo fondo per la pandemia verrà aperto, è la stessa utilizzata per i programmi di Grecia, Irlanda, Portogallo, e Cipro. Una linea di credito: «subordinata all’adozione di misure correttive volte a evitare problemi futuri per quanto concerne l’accesso al finanziamento sul mercato». Quindi tutti gli stati membri che vi accederanno: «saranno impegnati coerentemente con i quadri di coordinamento e sorveglianza economica e fiscale dell’UE». Inoltre, del MES è importante ricordare che è non inserito nel quadro dei trattati europei e segue un organizzazione interna di stile aziendale, cioè con un consiglio dei governatori e un amministratore delegato, e il modello più o meno democratico delle organizzazioni internazionali.

È, forse, la storia stessa di come è stato istituito il MES che ci può dare delle prospettive sulla gestione di questa crisi. Di fronte alla crisi del debito del 2008, in Europa, si è proceduto prima come se fosse un problema nazionale greco, cercando anche di aprire una procedura di infrazione nei confronti di questo paese, in seguito si è firmato un prestito bilaterale, si sono poi istituiti due fondi europei temporanei e straordinari. Solo nel dicembre del 2010 si è deciso di cambiare i trattati e istituire il MES, il tutto sotto la pressione costante dei mercati finanziari e del declassamento del debito di tutti i paesi della periferia europea. Oggi quello strumento concepito sotto il ricatto dei mercati internazionali mostra tutti i suoi limiti, ma lo stesso processo di avanzamento per piccoli e storti passi si sta ripetendo nella progettazione del Recovery Fund.

Le linee divisorie dello spazio europeo riemergono ancora una volta chiarissime. I paesi industriali ed esportatori del centro-nord riescono a guidare i negoziati, mentre le periferie mediterranee continuano a essere messe ai margini, e i paesi non euro vengono eliminati dalla discussione. Questa mediazione tramite competizione tra istituzioni locali, nazionali ed europee è parte stessa della governance neoliberale europea, dove i governi sono parte del gioco e non opposti alle istituzioni europee. Il problema non è semplicemente la scala della decisione (il livello locale, nazionale o europeo), ma che cosa si decide e come invertire la rotta di questa Europa.

Uscire dalla trappola del debito, da una catena infinita di prestiti, rimettere al centro la riconversione ambientale, ripartire dalla centralità della riproduzione sociale per aprire un dibattito pubblico su cosa riaprire e come, rifinanziare le istituzioni del welfare – scuola, sanità, università, ricerca. Per tutto questo c’è bisogno di spinte dal basso, di movimenti europei e globali che spingano per trasformazioni radicali sia sugli stati.