OPINIONI

Dopo il 5 novembre

Il grande corteo romano ha testimoniato una volontà moltitudinaria di pace che registra il riassetto degli attori politici e indica la convergenza con altre battaglie di opposizione sociale

100mila manifestanti hanno percorso le strade di Roma – e da tempo non se ne vedevano altrettanti. Per il cessate il fuoco e l’apertura di trattative serie in Ucraina, con molte sfumature diverse e una sostanziosa composizione sindacale, corrispondente al ruolo della Cgil nell’organizzazione e nella conclusione del corteo. Putiniani e Pd c’erano, ma poco visibili. Come auspicavo, tranne lo spezzone in cui ho marciato, manifestanti ne conoscevo pochi – venivano del resto da ogni piccola città italiana – e neppure delle 600 sigle che avevano aderito saprei dire con precisione chi fossero, di non tutte almeno.

Mostravano omnes et singulatim amore per la pace e per la propria vita e questo scalda il cuore ed è politicamente giusto: non “corretto” ma proprio “giusto”.

A Milano alcune centinaia di affezionati della guerra e seguaci del “terzo pollo” hanno ascoltato un comizio elettorale in pro di Letizia Moratti. Pace e bene anche a loro, basta che vaghino senza meta da un’altra parte (cit.).

Il corteo, anche nella variopinta confusione, ricalca ed esprime i sondaggi che dànno l’opinione pubblica critica verso la guerra e indicano che solo un italiano su quattro sostiene la continuazione dell’invio delle armi all’Ucraina. Si è visto materialmente che la quota degli amici di Putin non raggiunge le due cifre, forse pure meno fra quanti sono scesi in piazza. Per gli assatanati della Nato fa testimonianza il macilento rave dell’Arco della Pace milanese.

Ma i numeri contano fino a un certo punto, il significato politico prevale. La scarsezza di bandiere identitaria (sindacali a parte) non è soltanto un atto di buona volontà dei partecipanti, ma segnale la dissoluzione delle fedeltà partitiche a sinistra – qualcosa di cui prendere atto, prima ancora di una valutazione positiva o negativa. Ormai le cose stanno così.

In quella eterogenea moltitudine pacifista spiccavano una forte ispirazione cattolica e una robusta struttura portante sindacale. C’è stata un’Opa di Landini più che di Conte sul movimento ed entrambe hanno tagliato in due il Pd, marginalizzato a Roma e malissimo accompagnato a Milano. Moratti finirà per raccogliere i frutti in Lombardia, per associazione o desistenza della sinistra e i contraccolpi potrebbero essere pesanti anche sulle regionali del Lazio. Come possa uscirne sana l’unità del Pd non ci scommetterei un euro.

Allo spappolamento della sinistra parlamentare classica non corrisponde per fortuna una più forte tenuta delle destre, incerte nell’azione di governo (tranne che per l’improvvido esibizionismo contro i più fragili) e vincolate agli schemi neoliberisti di Europa e Nato, mentre la sinistra non-classica (il M5S di Conte) sembra reggere sul piano del consenso, meno sulle capacità di mobilitazione di massa e delle iniziative di opposizione.

In tutto questo la sinistra radicale, le cui componenti più coinvolte con il Pd sembrano guadagnare autonomia, ha fatto la scelta giusta aderendo sia alla manifestazione romana che ad altre iniziative similari – da quelle precedenti di NUDM e dei FFF a quella concomitante di Napoli con la Gkn. Il realismo impone di stare in un processo molto embrionale di nuova opposizione, che avrebbe già molti meriti se riuscisse a eliminare i più corposi ostacoli che hanno strozzato la sinistra negli ultimi decenni. La sinistra radicale, extraparlamentare o presente nelle istituzioni, nelle sue componenti maggioritarie e comunque in quelle post-1978 si è costituita in forma reattiva all’egemonia del Pci e dei suoi eredi (e di una Cgil abbastanza a essi integrata).

Oggi, in tendenza, il Pd va dissolvendosi e la Cgil recupera un ruolo autonomo, anche se ancora debole, di opposizione sociale vicaria, mentre con Conte il vecchio e confuso populismo del M5S acquista alcuni tratti di populismo di sinistra, con qualche affinità con Podemos o France insoumise. Con questo contesto dobbiamo fare i conti e sperimentare azioni non reattive. Per chi ha vissuto altri tempi non è divertente, ma questo passa il convento e su questo occorre ragionare.

La rottura con il vecchio schema si sta realizzando, di uno nuovo ancora non c’è traccia e, per di più, al governo non ci sta semplicemente la destra – come sarebbe ovvio visto lo sfarinamento dei riformisti neolib – ma un’estrema destra sovranista. E non solo Italia ma in buona parte dell’Europa e forse nei prossimi anni negli Usa.

In altri termini: stiamo in una situazione di guerra con vari gradi di intensità. La riconversione dell’opposizione si svolge sotto tiro e nel pieno di un collasso ecologico micidiale per quanto diversamente avvertito. Lo schema di gioco va cambiato, per quanto le contraddizioni e le rivendicazioni assomiglino parecchio a quello precedenti, va cambiato perché la disposizione dei fattori e degli attori è del tutto dislocata e dunque va ricombinata. Che i poveri abbiano sempre fame o freddo o siccità non toglie che i vecchi meccanismi di organizzazione e intervento non siano più applicabili – e purtroppo l’iniziativa del cambiamento è stato a lungo presa dalla borghesia imperiale. Il gioco di rimessa o la retorica degli anni gloriosi servono a poco, non insistiamo a sbatterci le corna contro.

La guerra è la contraddizione fondamentale che sintetizza o si trascina dietro tutte le altre, cominciare a manifestare contro la guerra è un passo decisivo e più è condiviso meglio è.

Senza chiudere gli occhi sui limiti di un corteo, più silenzioso e allarmato che gioioso e combattivo, con una composizione che sconta ancora la diffidenza delle nuove generazioni che sfilano per altri obiettivi (ma sfilano e sono obiettivi condivisi).

La convergenza è per ora una genuina e plausibile promessa, non una pratica consolidata. E la prima cosa su cui convergere è la resistenza alla guerra e ai suoi effetti anche laddove non si combatta in prima fila. Il terrore della stampa mainstream (padronale e guerrafondaia, adottando una maggiore autarchia linguistica) per la marcia del 5/11 e per la crisi dell’atlantismo di sinistra indica con precisione il punto di partenza e convergenza dell’opposizione, dove si è rotto il consenso bellico e dove vanno a parare tutte le altre giustissime battaglie – su bollette, RdC e salario minimo, contro le leggi repressive della liberta di associazione e raduno, contro la retorica e la pratica infame dei confini sulla pelle dei migranti.

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