editoriale

Dopo il 4 marzo

La crociata dell’establishment contro un generico pericolo populista ha avuto un grande successo sulle riviste accademiche, sui quotidiani di massa, nei partiti seri e perfino in molti circoli di sinistra estrema: peccato che nella realtà elettorale abbia fatto flop.

Forse sarebbe stato meglio avere un po’ di sano seppur magro populismo di sinistra, tipo Mélenchon o Podemos, ancor meglio una socialdemocrazia radicale infettata di populismo come Corbyn o die Linke. Invece abbiamo un galoppante populismo di destra alla Salvini e un voto ibrido di protesta a un M5s in piena virata democristiana. Questa è la zuppa che passa il convento. Forse dovremmo rivedere gli argomenti antagonisti, che ne dite?

Il M5s ha trionfato sopra ogni aspettativa, il Pd è crollato, per riuscito suicidio. Il centro-destra come coalizione è in testa, lontano però dalla maggioranza dei seggi (secondo i dati disponibili al momento) e soprattutto con un sorpasso di Salvini su Berlusconi che rende impossibile un allargamento dell’egemonia: oltre tutto la compravendita dei “responsabili” (che pure ci sarebbero) è resa difficile dal fatto che Berlusconi non vuole dissipare i soldi di Mediaset per portare al governo il suo rivale.

Di fatto è una situazione ingovernabile di stallo e non sembra una legislatura di lungo respiro.

Una maggioranza aritmetica possibile (la più temuta) per uscirne sarebbe quella fra M5s e Lega. Nutro qualche perplessità in proposito. Innanzi tutto non conviene né a Salvini (che ora è il numero 1 a destra e in quella coalizione dovrebbe fare il numero 2 di Di Maio, perdendosi Forza Italia, e per di più spiegarlo al proprio elettorato nordista) né a Di Maio, che finora ha dispiegato la sua vocazione governativa flirtando con Mattarella e candidati ministri vagamente di sinistra e dovrebbe sia spiegare al proprio elettorato meridionale l’alleanza con Salvini sia prendersi in casa un partito vincente e desideroso di posti di comando. Molto più semplice accattarsi un appoggio esterno di Pd e Leu bastonati e rassegnati a votare la fiducia senza chiedere niente e quasi nascondendosi.

Inoltre c’è un pesante problema di legittimazione rispetto ai poteri forti finanziari ed europei. A un governo a cinque stelle serve un garante nei confronti di Merkel, Draghi e Fmi – pena lo scatenamento (già in atto) dello spread, il crollo delle Borse e minacce immediate di trojka. Questo garante lo trova soltanto in un Pd frastornato, de-renzizzato e che giustificherebbe il cambio di rotta pro-stellati in nome dell’interesse nazionale e dei sacrifici. Il solito rifugio delle canaglie.

Del resto a un appoggio esterno incondizionato del Pd a un governo di minoranza Di Maio mica ci sputiamo sopra. Sempre meglio di Salvini ministro degli Interni per qualche mese (più a lungo l’accrocco non reggerebbe, immagino). E il sovranismo a cinque stelle è farlocco, per fortuna, del tutto “occasionalista”, mentre per la Lega lepenista è un fattore cruciale. Il partito catch-all del “democristo” Di Maio ha il vantaggio di non essere vincolato alla coerenza e di pescare in ogni settore, globalismo, fondi  esteri e ambasciate comprese.

Il crollo del Pd era previsto, forse non con queste percentuali e questa emorragia parlamentare. Adesso i colonnelli prenderanno atto e cercheranno di salvarsi la pelle sacrificando chi fino a ieri avevano osannato. Negli archivolti delle chiese romaniche raffiguranti il ciclo dei mesi, dicembre è dedicato all’uccisione del porco. Il Pd sta tardando di tre mesi. Quando si deciderà non è detto che resti unito e stavolta la scomposizione potrebbe essere più significativa dell’esodo dell’anno scorso – in termini di personale politico, se non di idee.

Il miserevole risultato di LeU conferma tutti i dubbi sull’operazione e prelude a una plausibile decomposizione nei suoi elementi costitutivi. Auguriamoci che non ci sia un altro Brancaccio e altre coppie Falcone-Montanari. Potere al Popolo in tre mesi ha ottenuto un discreto score, magari da festeggiare più sobriamente. Potrebbe consolidarsi e crescere ancora, configurando un decente populismo di sinistra. Potrebbe perfino aspirare, in corso d’opera, a una leadership non demagogica, in omogeneità alle forze evocate all’inizio, ai Corbyn, ai Mélenchon, alla Colau.

Tutto il discorso che precede si limita a una rilevazione fattuale e tattica. Tuttavia per elaborare una strategia di più lungo periodo e di effettiva incidenza sociale bisogna pur sopravvivere nel breve periodo, senza sbagli, atteggiamenti reattivi e crisi di sfiducia.