ITALIA
Ddl Delrio, o come liberare le piazze dalla solidarietà e spalancarle alla destra reazionaria
La norma proposta dal parlamentare del Partito democratico rispecchia la definizione, abbracciata dal sionismo estremista, che considera ogni critica a Israele come antisemitismo. L’obiettivo è di bloccare il ritorno dell’onda di solidarietà che si è mobilitata questo autunno
Nella vicenda del ddl Delrio, qualcosa sembra essere andato molto storto, considerato il fatto che quello che veniva passato come un doveroso e insindacabile contributo alla lotta all’antisemitismo sta sollevando proteste accese anche in buona parte dell’area progressista di cui l’operazione voleva captare il sostegno. L’avanzata sul ddl Delrio rientrava nell’operazione generale “tutti a casa”, che era scattata subito dopo la “pax trumpiana” da una parte di liberali e progressisti. Si trattava di rispondere alla grande ondata di partecipazione intorno alla Flotilla, che rischiava di produrre una forte politicizzazione dell’intero campo politico, dividendolo senza mediazioni tra sostenitori delle destre globali, della destrutturazione del diritto internazionale e dell’imporsi della logica della pura forza e, in generale, del “contraccolpo” autoritario da un lato, e dall’altro una grande mobilitazione contro la deriva genocidaria delle democrazie occidentali.
Le piazze di solidarietà alla Palestina e alla Flotilla hanno fatto emergere in modo molto netto la possibilità di una politicizzazione ampia, che, mantenendo al centro la denuncia del genocidio, dell’occupazione e dell’apartheid in Israele, sta costruendo intorno alla solidarietà con la Palestina l’espressione di una domanda profonda di giustizia globale, in cui confluisce l’esperienza dei grandi movimenti globali di questi anni, cresciuti nel segno delle lotte femministe ed ecologiste, nonché delle mobilitazioni antirazziste, antisovraniste, di difesa e radicalizzazione della democrazia che mettono al centro la questione della resistenza alle destre mondiali, alla decostruzione nazionalista di ogni regola sovranazionale, alla mobilitazione continua verso lo “scontro di civiltà” all’interno e all’esterno degli Stati nazionali.
Per la “Palestina globale”, per la giustizia internazionale, per le lotte antiautoritarie, per la trasformazione ecologica e femminista, contro le dimensioni intersezionali, di classe, di razza e di genere dell’oppressione e dello sfruttamento; oppure, dall’altro lato, per l’Occidente fortezza in guerra permanente contro il resto del mondo, per il contraccolpo reazionario volto a ristabilire le gerarchie sociali minacciate, per i nuovi nazionalismi e la difesa dei confini contro le migrazioni.
Quelle giornate avevano mostrato plasticamente che il conflitto decisivo si collocava lungo questa grande ridefinizione sovranazionale del classico “socialismo o barbarie”, nel segno della partecipazione diretta e della consapevolezza precisa, ormai definitivamente maturata, della fine delle mediazioni tradizionali.
L’apertura di una simile faglia di politicizzazione è però l’incubo dei “liberali”, dei “moderati”, o di come vogliamo chiamare tutti quelli che, nel momento in cui la resistenza alle destre mondiali mette in gioco anche la lotta al privilegio e l’antiautoritarismo coinvolge anche la lotta alle gerarchie sociali che strutturano le democrazie “liberali”, smettono puntualmente di giocare. Per tutti questi, una politicizzazione radicale della giustizia globale e della questione democratica come quella di cui in quelle strade si è vista la possibilità è la peggiore sciagura possibile, poiché hanno bisogno, al contrario, di un clima di assopimento generale dei rapporti politici e sociali, in cui continuare a far passare la loro sciagurata e catastrofica linea di normalizzazione e integrazione delle estreme destre e del loro discorso nazionalista nella conservazione degli equilibri del presente.
Così, i “liberal-progressisti timidi” hanno provato a correre ai ripari, cercando di rimettere su un discorso «sul progresso moderato nei limiti della legge», avrebbe detto quel genio di Jaroslav Hašek, fatto di condanna degli “eccessi” delle destre israeliane, ma di continuità delle relazioni con lo Stato canaglia, di ribadito silenzio su occupazione e apartheid e, quel che conta, della riaffermazione decisa della possibilità di essere “democratici” e “distinti” dalle destre globali, soffocando al tempo stesso però qualsiasi posizione radicale sulla crisi delle democrazie occidentali. In questo quadro, quindi, si è avuto l’attacco ai movimenti studenteschi con l’allineamento sostanziale alla destra sulla critica di boicottaggi e contestazioni, con l’uso ad hoc del “caso Fiano”, il passaggio dalle cittadinanze onorarie ad Albanese alla sua descrizione come estremista infrequentabile e, in generale, la presentazione del movimento di solidarietà con la Palestina come motore di antisemitismo e fondamentalismo, nonostante l’apparenza umanitaria e civile.
L’operazione Delrio sarebbe stata il coronamento del “tutti a casa”: la lotta alle università, ai movimenti, a tutto il discorso critico post e decoloniale su Israele e sulle politiche occidentali sarebbe stata certificata come antisemitismo, per via dell’“antisionismo”. È questo, infatti, il senso dell’equiparazione fra antisemitismo e antisionismo: trasformare in antisemitismo la critica a Israele in quanto Stato coloniale e, al tempo stesso, coinvolgere nell’antisemitismo l’intero movimento di critica decoloniale e postcoloniale. Israele-Occidente sono un blocco compatto, di cui è vietato ricordare la matrice coloniale. Così però tutto diventa chiaro: l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo non è altro che un passo necessario della costruzione dell’Occidente nello “scontro di civiltà”. Ma è un passo che ha svelato il gioco: ha fatto vedere con chiarezza che la critica al movimento globale di solidarietà con la Palestina implica il sostanziale allineamento con le destre globali; non c’è ormai una terza collocazione sostenibile.
L’attacco a quel movimento come antisemita comporta l’occultamento dell’antisemitismo delle destre estreme occidentali di governo e alleate di Israele. Antisemita, ora, è chi lotta contro il razzismo e l’islamofobia; nazionalisti, razzisti e islamofobi stanno difendendo l’Occidente in guerra, e il loro antisemitismo storico è completamente cancellato dal regime di guerra.
Criminalizzare come antisemita il movimento per la Palestina e la giustizia globale e invitare al “tutti a casa” rispetto alla politicizzazione radicale in corso significa allinearsi perfettamente alla strategia delle nuove destre, ripulirle della loro storia, normalizzarle definitivamente e lasciare il campo al neoautoritarismo. Il “cortocircuito Delrio” riporta allora la questione ai suoi termini di base: o partecipare al movimento globale di radicalizzazione democratica sorto intorno alla Palestina globale e spingerlo sempre più ad allargarsi alla contestazione del regime di guerra globale – insomma verso una nuova “generazione Vietnam”, se siete boomer, o verso una generazione “pirati dal Cappello di paglia”, se siete GenZ, ditelo come vi pare – oppure schierarsi, in modo più o meno subalterno, con le forze del contraccolpo reazionario. Il Partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge non è cosa per i tempi della crisi permanente delle mediazioni, diventata essa stessa modalità di governo. E chi prova ancora a spacciarsi per “moderato” e a raffigurare come fondamentalista o antisemita la produzione di anticorpi contro la crisi genocidaria comincia a essere subito identificato come un reazionario camuffato, anche da quelli che vorrebbe “riportare a casa”. Da questa polarizzazione, probabilmente, non si ritorna: dobbiamo lavorare, e molto, per farle dare i migliori frutti di approfondimento e radicalizzazione democratica e spazzare via il contraccolpo.
La copertina è di Patrizia Coluccia Francesco Pierantoni (Wikimedia)
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