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OPINIONI

Perché il Covid-19 non è una guerra

La metafora della guerra rende invisibili le soggettività considerate più fragili: donne e bambini sono stati esclusi per secoli dal “campo di battaglia”. Eppure il femminismo ha rotto con questa visione vittimistica e ha scoperto un’altra storia, da tenere sempre più a mente in tempo di pandemia

Dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19 in Italia, settimana dopo settimana si è diffusa nei giornali, nel linguaggio istituzionale e anche nell’uso comune la metafora della guerra per parlare della gestione di questa emergenza. È evidente come le sempre più stringenti misure restrittive, la decretazione d’urgenza, il controllo delle forze dell’ordine, l’autocontrollo sociale, le strade vuote, e la rottura della nostra quotidianità abbiano giocato un ruolo centrale nella diffusione della metafora bellica. Le sue problematicità sono già state discusse in diversi articoli critici. Sul nostro giornale Giorgio Coen Cagli ha spiegato come si è evoluto l’uso di questa metafora nel corso dei mesi, dal «i nostri nonni hanno dovuto superare una guerra mentre noi stiamo sul divano» al continuo richiamo all’unità nazionale, diventata centrale nei discorsi di molti primi ministri da Macron a Johnson, e da ultimo ripresa anche da Draghi sul “Financial Times”. Un richiamo che naturalizza le cause della guerra, mentre storicizza un fenomeno naturale come un’epidemia.

Ma se «il contagio è naturale nella sua genesi», la gestione dell’emergenza è una questione politica, cioè le sue ricadute sulla popolazione si differenziano in base alle scelte governative.

La metafora bellica contrappone due diverse posizioni, da un lato gli eroi, i medici e gli infermieri che combattono nelle trincee dell’ospedale, dall’altro gli untori nemici della società, che nella prima settimana è stato il paziente zero, mentre oggi sono coloro che corrono, o che vanno a fare la spesa più del dovuto, come spiega bene Matteo Pascoletti su Valigia Blu. Il linguaggio di guerra tenta di annullare le contraddizioni interne preesistenti nella nostra società, che questa gestione emergenziale non appiana ma acuisce. Ad esempio, le lavoratrici e i lavoratori che hanno indetto lo sciopero la settimana passata sono stati richiamati alla responsabilità dallo stesso Premier Conte nella sua diretta serale il giorno prima della mobilitazione, nonostante nei luoghi di lavoro ancora aperti il diritto alla salute non sempre viene garantito.

Ancora di più invisibilizza tutti coloro che erano già esclusi dalle nostre società prima dell’emergenza e che non possono rientrare nei richiami all’unità nazionale.

Migranti e rifugiati che non hanno trovato alcuna forma di accoglienza nel nostro paese; tutti coloro che non hanno una casa, gli occupanti di casa o i rom che vivono nei campi. Come scrive Daniele Cassandro su “Internazionale”, spesso le malattie vengono descritte come una guerra e i malati dipinti come le perdite civili perse in battaglia, o al contrario i guerrieri che ce l’hanno fatta. Le Amazzoni Furiose, gruppo di donne malate di cancro al seno, sulla scia della Breast Cancer Action nordamericana, lavorano da anni per decostruire questa narrazione della guerriera. Una narrativa che copre ogni informazione su dove e come si investe nella ricerca contro il cancro, non parla delle difficoltà di curarsi e spesso copre le cause ambientali collegate con lo sviluppo di questa malattia, come l’inquinamento. Una metafora, insomma, che non rispecchia la vita di una donna malata di cancro e che non racconta nulla del percorso di prevenzione, di cura, e post cura, lontana dalla vulnerabilità che esperiamo nei momenti di malattia.

Ma più di ogni altra cosa, nella divisione binaria in cui ci costringe la metafora della guerra, rimangono fuori dal campo di battaglia le vittime, cioè tutti coloro che non sono in grado di combattere.

Nei secoli, sono stati esclusi dal combattimento i bambini per questioni di età e le donne considerate per natura meno forti e meno inclini all’arte della guerra. Nella visione occidentale tradizionale e dominante la guerra, e la sua divisione binaria in due campi contrapposti, è l’essenza stessa del conflitto politico, un conflitto quindi che, se concettualizzato in questo modo, elimina le donne dall’agire politico. Quindi, il significante guerra nel linguaggio politico – guerra economica, guerra politica, guerra sanitaria – punta all’annullamento delle differenze di classe, razza e genere, ponendoci nelle situazione delle vittime docili e incapaci di agire politicamente.

Certo di fronte a questo utilizzo martellante del linguaggio bellico, mentre siamo chiusi in casa, inermi e isolati, sembra difficile trovare un’alternativa, così come le donne per secoli non sono state altro che vittime e fuori dal campo di battaglia. Ma, in anni di ricerca, le studiose femministe sono riuscite a scoprire un’altra storia, che rompe questa visione vittimistica delle donne in tempi di pace e di guerra. Alessandra Chiricosta nel suo libro Un altro genere di forza inizia la sua ricerca ripartendo proprio dal mito fondante di Troia, quando di fronte gli eserciti schierati degli Achei e dei Troiani, arrivano le amazzoni di Pentesilea che a cavallo tagliano trasversalmente il campo di battaglia, lasciando amici e nemici con le armi in mano, ma incapaci di usarle. Questo oggi significa svuotare di senso la metafora della guerra: far emergere le contraddizioni, visibilizzare i conflitti, aprire lo spazio per nuove prospettive nella vita post-quarantena.