ROMA

#Iorestoacasa. No, nel campo

Le voci di chi vive nelle baraccopoli istituzionali della Capitale al tempo del coronavirus. L’appello alla sindaca Virginia Raggi e al prefetto di Roma Gerarda Pantalone lanciato attraverso una indagine condotta dall’Associazione 21 Luglio: «garantire la distribuzione beni di prima necessità e condizioni igienico-sanitarie adeguate assicurando prima di tutto l’accesso all’acqua potabile»

«Era l’11 febbraio e poi ancora il 29, sempre di febbraio. Qualcuno ha buttato delle molotov sulla baracca con noi che dormivamo dentro. I documenti della scuola, i vestiti, tutto è andato carbonizzato, con i bambini che sono rimasti traumatizzati. Adesso che c’è questo virus i miei figli sono ancora più terrorizzati. Ma non andiamo da nessuna parte, nessuno ci viene a trovare, neanche la ASL, i Servizi Sociali, i Carabinieri, nessuno». «Mio marito faceva il mercatino dell’usato, traslochi, ora stiamo fermi. Nessuno lavora per adesso. Abbiamo anche paura di andare in mezzo alla folla». È la voce di M. una donna bosniaca di 35 anni che ha 4 figli e vive all’interno della baraccopoli che si trova in via Cesare Lombroso, nella zona di Monte Mario, a Roma Nord. Qui dentro – secondo la relazione sullo “Stato di attuazione degli interventi per la chiusura dei campi rom” dell’Ufficio speciale rom, sinti e caminanti di Roma Capitale del 24 settembre 2019 – vivono all’interno di una superficie di terreno che è pari a poco più di un ettaro, 181 persone di nazionalità bosniaca, tra cui 82 minori, “ospitati” all’interno di una cinquantina di unità abitative, alcune roulotte e diverse abitazioni realizzate con materiali di risulta. Tra di loro c’è V., un uomo anche lui di nazionalità bosniaca con 4 figli a carico. «Sto fermo, come faccio a lavorare? Il problema non è solo la malattia, ma il lavoro: al supermercato non è che mi regalano il cibo. Il governo dovrebbe dare dei buoni pasto. Prima andavo a fare 40 euro al giorno, col ferro, pulendo qualche cantina, ora non li faccio più».

Sono alcune tra le voci delle oltre 6.000 persone in emergenza abitativa collocate negli insediamenti mono etnici della Capitale. Tra queste, 2600 persone, la metà di esse sono minori, vivono all’interno dei 6 “villaggi attrezzati”, di via Cesare Lombroso, di via Luigi Candoni; di via dei Gordiani, di Castel Romano, infine, di via di Salone. È dentro di essi, nei “campi formali” che sono stati predisposti negli anni dai piani delle istituzioni capitoline che sono state raccolte quelle voci; attraverso una indagine condotta dai ricercatori dell’Associazione 21 Luglio i quali hanno inteso comprendere e illustrare, a nove giorni dall’emanazione del decreto del 9 marzo 2020 #Iorestoacasa (recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, applicabili sull’intero territorio nazionale), «il primo impatto delle misure in esso riportate in alcuni insediamenti formali della città di Roma abitati da famiglie identificate dalle autorità locali e che generalmente si autodefiniscono come appartenenti alle comunità rom». Hanno spiegato dalla 21 Luglio che: «in ottemperanza alle norme contenute nel decreto non hanno raggiunto gli insediamenti oggetto dell’indagine, ma che gli stessi si sono serviti di interviste telefoniche». Raccogliendo così voci di questi tipo: «Nel campo ci muoviamo liberamente, ma non abbiamo le mascherine. No, non usiamo accorgimenti. Tanto rimaniamo sempre al campo». Già, perché dalle diverse interviste, spiegano ancora i ricercatori: «non risulta che la baraccopoli abbia visto la presenza di operatori sanitari impegnati del distribuire dispositivi per la protezione individuale o nell’illustrare le norme di prevenzione del contagio». Si sa, per esempio, che nei pressi dell’insediamento di Via Gordiani, nel popoloso quartiere di Centocelle, non è presente alcun presidio informativo della Polizia Municipale e che, malgrado il sovraffollamento dell’area, non vengono utilizzati particolari accorgimenti all’interno dell’insediamento: «In famiglia abbiamo comprato dei guanti, ma li usiamo quando usciamo, non li utilizziamo all’interno del campo. Vorremmo avere delle mascherine ma non le abbiamo trovate». «Nessuno ha le mascherine, non si trovano». Qui, in particolare, le problematiche di salute più gravi sembrano riguardare gli anziani, che sono tanti. I ricercatori della 21 Luglio, infatti, hanno riportato nella loro indagine il caso di una donna di 65 anni che non poteva uscire dalla propria abitazione in quanto aveva avuto numerose malattie pregresse e un intervento al fegato, che viveva di sussistenza e di aiuti da parte di enti benefici; sostegno sociale, questo, che evidentemente nei giorni della grande epidemia le è venuto a mancare del tutto.

Lo stesso aiuto sociale, di qualsiasi tipo, che manca oggi all’interno del “villaggio” di Luigi Candoni che si trova nella zona della Magliana. Il più grande insediamento formale italiano, il più grande campo istituzionale che conta all’interno di un ettaro e mezzo di superficie di terreno 838 persone, di cui 409 minori. Tra questi ultimi, nell’ anno in corso, 196 risultavano iscritti alla scuola dell’obbligo: 16 bambini alla scuola dell’infanzia, 103 alla scuola primaria e 77 alla scuola secondaria di primo grado, mentre nessun minore risultava iscritto alla scuola media secondaria. Vivono insieme alle loro famiglie in un villaggio dove all’interno delle unità abitative si rileva: «la mancanza di manutenzione dell’impianto elettrico, la presenza di materiale di scarto non raccolto. L’acqua corrente è ufficialmente potabile, eppure i residenti esprimono dubbi al riguardo e non la utilizzano», hanno spiegato ancora dalla 21 Luglio, raccogliendo voci di questo tipo: «Qui le condizioni fanno schifo da sempre, come puoi essere pulito in un campo?». E ancora: «Non c’è più lavoro, senza lavoro niente soldi e niente vita» […] Il Comune di Roma deve fare qualcosa per noi, che facciamo se qualcuno di noi è contagiato?». Così dicono i residenti dei campi formali che lanciano in queste ore un appello riguardo al timore di un eventuale contagio, paura dovuta principalmente alla consapevolezza del sovraffollamento delle baraccopoli e del vivere in unità abitative asfittiche.

Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio, dice che: «Mai come in questi giorni difficili Roma deve mostrare il suo volto di città solidale, attenta agli ultimi e garante dell’art.32 della Costituzione Italiana che estende a tutti i cittadini le azioni di tutela e prevenzione della salute pubblica». E lancia un appello on line rivolto alla sindaca Virginia Raggi e al prefetto di Roma Gerarda Pantalone per chiedere, tra le altre cose, di: «garantire nelle baraccopoli romane la distribuzione di beni di prima necessità e condizioni igienico-sanitarie adeguate assicurando in primis l’accesso all’acqua potabile e, all’interno degli insediamenti, la presenza di operatori sanitari e di mediatori culturali che possano promuovere una campagna informativa e distribuire agli abitanti dispositivi di protezione individuali».

Stasolla ricorda, inoltre, che alle 6.000 persone che oggi vivono nelle baraccopoli romane, si devono aggiungere i 7.700 senza fissa dimora, Quei senza casa che non possono proteggersi dal Covid-19. Le persone come A., 28enne italiano che vive nella baraccopoli di Via di Salone e, rispondendo alle domande dei ricercatori della 21 Luglio, ha detto: «Io resto a casa? No. Tu resti a casa. Io resto nel campo. Sta qui tutta la differenza!».