MONDO

Cosa succede in Brasile?

Un paio di settimane fa le immagini del prelevamento forzato dell’ex presidente Lula Da Silva hanno fatto il giro del mondo , decretando, qua in Europa, un alternarsi di sfiducia verso il governo brasiliano, e di prese di posizione in sua difesa, contro il «complotto» neo-liberale, o la minaccia di un colpo di stato.

L’inchiesta, che vede a questo punto coinvolto lo stesso Lula, riguarda un flusso di tangenti legate alla Petrobras, l’azienda nazionale del petrolio in Brasile, prima azienda del paese, oggi praticamente fallita. Sul banco degli imputati troviamo un numero enorme di politici e dirigenti delle imprese pubbliche, soprattutto legati ai due principali partiti della maggioranza, PT e PMDB, ma anche politici di primo piano dell’opposizione. L’inchiesta è condotta da Sergio Moro, un giovane giudice che si presenta come indipendente dal sistema dei partiti, e che sta cercando di gestirla in termini spettacolari, mediatici, all’americana, rivendicando tra i suoi riferimenti anche l’inchiesta di Mani pulite. A partire dalla scandalo Petrobras, lo scorso anno, si è costituito un movimento di piazza contro il governo, ma più in generale contro la «casta» al potere, quindi contro tutti i partiti.

La situazione ha subito un’accelerazione notevole a seguito del fermo di Lula, e le manifestazioni convocate la settimana scorsa hanno visto scendere in piazza milioni di persone in tutto il paese, con la richiesta di impeachment per Dilma Roussef. Queste proteste continuano a non concedere nessuna paternità ai partiti dell’opposizione – il leader del principale partito di centro-destra, Aécio Neves del PSDB, è stato cacciato dalla piazza, mentre l’unico leader che le proteste sembrano riconoscere è lo stesso giudice Moro.

Allo stesso tempo le parole d’ordine e le immagini legate alla protesta sono attraversate da una preoccupante virata nazionalista. Cerchiamo di essere più precisi: a quanto pare la protesta generale resta ancora caratterizzata da un’attitudine contro la “casta”, dal né di destra né di sinistra e così via, seppure le forme di auto-riconoscimento passano per la bandiera brasiliana. Ma, nelle ultime settimane, dentro lo spazio della protesta stanno trovando agibilità alcuni gruppi che inneggiano alla dittatura militare, che portano avanti parole d’ordine razziste, ostili ai poveri e anti-comuniste, in quanto la bandiera rossa è identificata con la corruzione dei partiti al governo.

Guarda il video di alcuni giovani cacciati dal corteo perché indossavano una maglietta rossa

Si tratta come dicevamo di gruppi minoritari, che però stanno occupando la scena politica anche a partire dalla denuncia dei militanti del PT. Ancora più inquietanti appaiono alcuni episodi nei quali, come vediamo in video, la polizia solidarizza con i manifestanti anti-governativi.

È proprio a partire da questa denuncia, e dall’agitazione della minaccia di un golpe che sarebbe nell’aria, che la sinistra lulista è riuscita a ricompattarsi e ad organizzare delle contro-manifestazioni a sostegno del governo. Si tratta di cortei molto grandi, anche se di dimensioni inferiori a quelli contro il governo – se là parliamo di milioni, qui parliamo di centinaia di migliaia.

Quello che Lula sta riuscendo a fare, è ricompattare tutta l’identità della sinistra, quindi anche buona parte dell’attivismo e dei piccoli partiti gauchisti che si muovono alla sinistra del PT, tutto in nome della «difesa dello stato di diritto», e della lotta all’anticomunismo dilagante. Si tratta di una specie di scatto di orgoglio di un mondo della sinistra altrimenti consumato dai 13 anni di governo, il cui esito, neo-sviluppista e statalista, è di segno molto differente rispetto a quello che era stato il suo inizio, democratico e aperto alle istanze che venivano dal basso.

Occorre essere chiari ancora una volta sulla responsabilità di quello che sta avvenendo. La dura repressione del movimento di Giugno del 2013, un movimento giovanile che reclamava diritti sociali e democrazia radicale, ha aperto la strada ad una contestazione di altro segno, in un momento nel quale il governo non solo si è dimostrato corrotto, ma sta trascinando il paese in una grave recessione (-8% in due anni), avendo puntato tutto su uno sviluppo fatto di grandi eventi, politiche energetiche faraoniche (contro gli indios), e politiche della “pacificazione” nelle città (contro i poveri – la guerra nelle favelas).

C’è da augurarsi che quella che sembra l’inevitabile fine di un ciclo, non veda prevalere le passioni legate al risentimento, spesso all’opera dentro i cortei delle ultime due settimane, e che i brasiliani abbiano la capacità di aprire una fase di rinnovamento.