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Conosci te stesso

Liberamente ispirato dai contenuti del suo libro “La vita che vive” (Neri Pozza 2022), Emanuele Dattilo offre qui una riflessione sul significato della conoscenza di sè nella filosofia rinascimentale. La conoscenza di sè appare come amore per l’altro in quanto capacità recettiva e forma di attenzione per ciò che è fuori di noi. Ritornare a questa filosofia permette di contrastare le forme dell’individualismo moderne, scevre di immaginazione e rapporto con l’alterità

Nietzsche diceva che il monito delfico «conosci te stesso» era una frase ironica. Si può conoscere davvero se stessi? Si può prescrivere una tale conoscenza? E soprattutto: è auspicabile conoscere se stessi? 

La conoscenza di sé presuppone, come l’ironia, una certa doppiezza: ci sono io che conosco e il me stesso che vorrei conoscere. Esattamente come in una frase ironica o autoironica: io non sono il me stesso di cui sto parlando e mi compiaccio anzi di mostrare che c’è un certo distacco tra me e ciò che dico. Ma la conoscenza di sé presuppone anche, quasi sempre, un certo disconoscimento di sé: se desidero conoscermi è perché io sono, a me stesso, la cosa più opaca, la cosa più misteriosa e oscura.  Forse è lo stesso imperativo a conoscere me stesso che mi separa da me, che mi sdoppia e mi confonde? 

In questa doppiezza costitutiva di ogni azione riflessiva si insinua la trappola: il rischio – cosiddetto narcisistico – è infatti quello che invece di me, io non riesca a cogliere che un’immagine, un simulacro e che io dunque non arrivi mai a toccare me, ma solo quell’immagine statica e rassicurante (in fondo troppo simile a un morto o a un fantasma). È il rischio che la conoscenza di sé non rappresenti un’unione, la riconciliazione delle parti separate, ma una scissione e un divorzio da me. Se ciò è vero, ciò significherebbe che finché ci sarà un me a cui guardo, un me oggetto della conoscenza, per quanto giusto o verosimile, ogni mia conoscenza di me stesso sarà falsa. 

E forse, intesa in questo senso, è sempre così; e forse, non è un male – almeno entro una certa misura – ma è la condizione stessa della nostra vita abituale. È il principio del bovarismo, che Lacan ha ripreso da Jules de Gaultier: «un pazzo che crede di essere un re, è un pazzo. Ma un re che crede di essere un re è ancora più pazzo». La conoscenza assoluta di sé è impossibile e, se fosse possibile, coinciderebbe con l’immobilità, con la morte. 

La soluzione potrebbe essere, allora, quella di pensare a “me” non come un contenuto, come un qualcosa che arrivo a conoscere, come un’immagine di me. O meglio, accettare la vanità di questa forma riflessivo-rappresentativa e inevitabile della conoscenza, che mi divide da me – e prendere un’altra strada. Quale? Cogliermi non di fronte, ma di spalle. 

L’idea sviluppata da alcuni filosofi rinascimentali, tra cui ad esempio Giordano Bruno e Tommaso Campanella, è quella di pensare la conoscenza di sé come una forma molto particolare di amore e di desiderio. Non si può conoscere senza amore (così diceva anche Elsa Morante in una sua poesia: «Solo chi ama conosce. Povero chi non ama»); allo stesso modo, non ci si può conoscere senza amarsi. Un tale amore di sé non ha niente a che fare, però, con il rischio narcisistico che abbiamo detto né con la cosiddetta “autostima”. Perché conoscere se stessi non significa ancora, per i filosofi rinascimentali, avere certe idee su di sé (anzi, le idee su di sé sono, molto spesso, solo inciampi alla conoscenza di sé). 

L’amore di sé – o philautia come viene chiamata da questi filosofi – ha a che fare soprattutto con il nostro amore verso ciò che è fuori di noi. È una forma di permeabilità, un modo di essere porosi, una capacità ricettiva, una forma di attenzione. È nel desiderio di qualcosa – può essere tutto: il gesto più insignificante e involontario di qualcuno, una certa melodia, un certo sapore – che io (ri)conosco me stesso, e dunque mai separandomi dalle cose che mi danno forza e intensità, che accrescono lo spazio intorno a me. In questo senso la conoscenza di me è l’azione meno riflessiva che esiste. Io non sono presupposto, ma nasco ogni volta. 

I filosofi medievali e poi rinascimentali erano, molto spesso, anche studiosi di magia. Una parte della filosofia, infatti, si chiamava proprio “magia naturale” e aveva come oggetto proprio questo sé espanso e diffuso, che poi la filosofia moderna disconoscerà e vorrà rinchiudere nel carcere dell’io che pensa. 

«Tutto ciò che subisce il potere della magia, possiede una forma di sensibilità, e nella sostanza di questa sensibilità è possibile scorgere la sua determinata forma di conoscenza e di appetito: è in questo modo che il magnete, a seconda del genere degli oggetti, attrae o respinge». (Bruno, De vinculis in genere). 

Conoscenza e appetito, ecco le due parole chiave di questi filosofi: la conoscenza di sé è una forma di degustazione di sé, un self-enjoyment. Eppure questo assaporamento ha bisogno di qualcosa di esterno, prende sostanza grazie alle cose che incontriamo nel mondo. È questa forma di conoscenza impura, che ancora non separa il soggetto dall’oggetto (un antropologo del secolo scorso l’ha chiamata, parlando del pensiero primitivo: partecipazione mistica) a contraddistinguere la filosofia cosiddetta rinascimentale dalla filosofia cosiddetta moderna, che inizierà proprio con la separazione del soggetto dall’oggetto. È la nascita, più che del pensiero moderno, del pensiero adulto – che però, forse, perde anche qualcosa di prezioso. 

Questa idea, che vi sia una sostanziale identità tra conoscenza di sé e conoscenza del mondo, ovvero che il sé e il cosmo siano l’uno lo specchio dell’altro, è evidente in molti campi diversi, non solo filosofici. L’astrologia, ad esempio, che ha avuto nel pensiero e nell’arte rinascimentali un’importanza così fondamentale, si fondava proprio su questo: il me stesso, il me che voglio conoscere, si trova tracciato geometricamente nel cielo, mentre il me che agisce è qui, ciò che chiamo abitualmente “io”, non è altro che una scheggia di cielo. Tutte le arti divinatorie antiche si fondavano proprio su questo presupposto: ciò che leggo fuori, nel volo degli uccelli o nelle stelle, mi mostra come sono; e viceversa, il mio carattere è il sigillo impresso da ciò che sta fuori. 

Se questa conoscenza di sé ha a che fare con il desiderio che ho per le cose, ciò significa che non ha nulla a che fare con ciò io che penso di essere o con ciò che io penso che gli altri pensino che io sia. Ecco un punto fondamentale: conoscere se stessi non significa pensare o credere qualcosa, avere una rappresentazione di sé. E dunque non significa definirmi, darmi una definizione, ma forse al contrario: si inizia a conoscere se stessi proprio rifiutando ogni definizione, disconoscendo ogni immagine di sé, riconoscendola come falsa. 

Se davvero la mia conoscenza di me stesso è una forma di amore, ciò significa anche che sarà – come ogni amore – intermittente, imperfetto, e che per continuare a vivere felicemente, tale conoscenza non dovrà sposarsi e convivere troppo con ciò che ama. Così la conoscenza di sé più riuscita, forse, non si risolverà nel progressivo rischiaramento dell’opacità originaria, ma al contrario, in una felice intimità con il proprio mistero, con la propria inconoscibilità, con le proprie intermittenze ed esitazioni. 

Sandro Penna scriveva in una poesia: «L’amore di sé non è forse un sogno vissuto a occhi aperti per le strade?». A questa forma di conoscenza innamorata di sé, o di philautia conoscitiva, Spinoza ha dato il nome di conatus, una specie di tensione o di corrente che ci attraversa, anche se non sempre ne siamo consapevoli, e che spesso non riusciamo bene a mettere a fuoco. È noi e non siamo noi, è qualcosa con cui raramente riusciamo a identificarci del tutto. Nel momento in cui ne facciamo esperienza, secondo Spinoza, siamo eterni, poiché assaporiamo un tipo molto particolare di felicità, che ci sottrae al tempo, alla durata, in una sorta di momentanea immortalità. Anche Walter Benjamin, secoli dopo, diceva che la felicità consiste proprio «nell’accorgersi di sé senza spavento». 

Continuiamo a chiamarla conoscenza, anche se non ha affatto la forma di una conoscenza, per come siamo soliti intenderla. Non è progressiva, ma istantanea. È un salto, come se ci capovolgessero il tappeto sotto ai piedi. Perché non possiamo conoscere noi stessi allo stesso modo in cui conosciamo ciò che leggiamo sul giornale, o allo stesso modo in cui conosciamo il resto delle cose del mondo. Non è un corso universitario, con esami e crediti che si accumulano. La conoscenza di sé è allora – dice Campanella – una sapientia, e in questa parola vuole intendere qualcosa di simile al sapore, all’assaporamento. È istantanea e immediata, sempre legata a un sentimento di accettazione o di rifiuto, a un certo sapore. 

La filosofia moderna, si dice, nasce con Descartes. In realtà, con Descartes nasce soprattutto il soggetto moderno, ovvero il soggetto della conoscenza, presupposto della nostra sedimentata idea di conoscenza di sé. Il problema, è che spesso pensiamo il sé a partire da questo modello moderno, che è quasi il nostro senso comune e che però appare, adesso, quasi preistorico. Descartes, oltre a essere uno scienziato e un matematico, era – spesso ce lo dimentichiamo – intriso di teologia, e in particolare di teologia agostiniana. La concezione cartesiana del sé, il cogito ergo sum, è assolutamente agostiniana, implica quello stesso rivolgimento a sé, quello sprofondamento e caduta dentro di sé, che sospende ogni rapporto con il mondo esterno. Il sé è qualcosa che sta dentro e, per concepirlo, per pensarlo, devo anzitutto mettere tra parentesi tutto il mondo intorno a me, che non è altro che apparenza, il cui statuto di realtà è molto dubbio. L’ego cogito, l’io che conosce, nasce da una messa in parentesi del cosmo. 

Il delirio razionalistico cartesiano arriva a sospettare che tutto intorno a noi sia un sogno, che ciò che ci sembra reale sia integralmente uno stratagemma ideato da un «genio maligno». Si potrebbe dire che tutto il discorso cartesiano nasca dal bisogno di avere la certezza assoluta di essere sveglio, la sicurezza di non stare dormendo. Il soggetto moderno è anzitutto qualcuno che vuole essere certo di essere sveglio. Ma che cosa possiamo definire con assoluta certezza? Per Descartes solo una cosa: l’io, quella cosa che ogni volta sottintendiamo nelle nostre affermazioni.  

«Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di Verità, ma un certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore che, per potente e astuto ch’egli sia, non mi potrà mai imporre nulla». 

Questo genio maligno, è chiaro, non è altro che l’immaginazione. È potere dell’immaginazione trarci in inganno, illuderci, trasformare il reale in irreale. Tanto più maligno quanto più i suoi contenuti ci appaiono la realtà. Per Descartes il ruolo fondamentale appartiene allora a questo saldo, ostile nemico del genio maligno: il soggetto che dubita, che sospetta, che non si lascia ingannare dalle proprie immaginazioni o dai propri sogni. È lui che conosce, pensa, agisce. Da allora a dire io, in noi, è lui. 

I filosofi rinascimentali avevano invece un rapporto meno ostile verso il sonno e una relazione più conciliata con le immaginazioni e con i sogni. Anzi, proprio l’immaginazione permette di concepire un altro tipo di soggetto conoscente, e dunque un altro modello di conoscenza di sé. Esattamente come, nei sogni, noi siamo noi e, insieme, tutto il resto – il terreno che calpestiamo, le persone che incontriamo, gli oggetti che prendiamo in mano – così nella realtà, secondo i filosofi rinascimentali, noi abbiamo un ruolo preciso, siamo il personaggio che dice “io”, ma siamo anche tutto ciò che incontriamo, e in particolare ciò che ci tocca, che ci attrae o che ci repelle. È questa nuova doppiezza, che non è più quella tra me che conosco e me che sono conosciuto, come inizio o fine di un processo, ma tra me che dico “io” e il me che non dice “io”, ma è oscuramente presente in ogni cosa a cui mi rivolgo, in ciò che desidero come in ciò che mi spaventa. 

Ma quanti “io” ci sono? Se ci fossero dentro di noi una massa, una folla di io, ognuno con una propria esigenza, un proprio destino, un proprio vissuto biografico, e a noi però fosse dato di essere, di volta in volta, soltanto uno di questi “io”, facessimo ogni volta da portavoce a uno e soltanto uno di loro; e scoprissimo poi che proprio l’io, proprio questa parola che ci appare la cosa più semplice, più immediata e più propria, in realtà è la cosa più arcaica, più impersonale, è la somma di molti “io” diversi, accumulati, preistorici e futuri?