OPINIONI

Chat calcetto e Revenge Porn

Fenomeni come il Revenge Porn, recentemente al centro di una campagna di denuncia sui social, si annidano nei contesti comunicativi più comuni della socialità maschile. Tradire la solidarietà tra maschi per rappresentare un’altra maschilità è il primo passo da compiere

In questi ultimi giorni, grazie alla campagna lanciata dal movimento Non Una di Meno, i temi del Revenge Porn e degli abusi agiti sul corpo delle donne sono stati nuovamente posti al centro del dibattito pubblico. Foto di donne, spesso ex fidanzate, esposte al pubblico ludibrio, condivisione di contatti personali di ragazze a cui “rendere la vita impossibile”, scambio di materiale pedopornografico, padri che chiedono candidamente consigli su come stuprare la propria figlia dodicenne senza farla piangere, altri ancora che si dichiarano pro-femminicidio.

Se questi sono i contenuti veicolati in decine di canali Telegram dalle migliaia di uomini che li popolano, ci sembra utile condividere una riflessione su come questi fenomeni non riguardino solo alcuni soggetti particolarmente violenti, ma costituiscano piuttosto un elemento strutturale e una prassi naturalizzata nelle relazioni che maschi intrattengono ogni giorno con altri maschi nelle chat, negli spogliatoi delle palestre e, in generale, negli spazi materiali e relazionali connotati dall’esclusività maschile.

 

A palesarsi immediatamente è la sostanziale impossibilità di tracciare un identikit dell’utente medio che afferisce a questi canali.

 

Genitori, nonni, adolescenti, imprenditori, disoccupati, ricchi, poveri: tutti potenziali partecipanti all’allegro gioco del maschio a cui tutto è concesso. Effettivamente, l’intersezione funziona anche in termini di privilegio, e il privilegio maschile attraversa tutti gli strati della società patriarcale. Forse è proprio tale consapevolezza a generare quella sensazione molto intima e disturbante che non contempla forme di estraneità rispetto ad una situazione in cui ci sentiamo coinvolti, pur non avendone mai preso attivamente parte.

In altre parole, il nostro status di uomini cresciuti dentro il paradigma della maschilità egemonica, non ci fa sentire assolti rispetto a queste dinamiche. Nello specifico, le considerazioni che proponiamo nascono esattamente dal desiderio di condividere le difficoltà vissute nel tentativo di mettere in discussione un modo di essere maschi che, fin da quando siamo nati, ci è stato rappresentato come naturale e immutabile.

Pertanto non ci soffermeremo sull’analisi della dimensione strutturale legata all’oggettivazione sessualizzata del corpo delle donne, questione già ampiamente discussa e aggredita dai movimenti femministi certamente con più attenzione e puntualità di come potremmo fare noi due. Proveremo piuttosto a condividere riflessioni situate che parlano di noi e della nostra esperienza, per cercare di aprire qualche crepa in un muro che sembra indistruttibile.

 

Quel che pare affermarsi nell’universo maschile è un bisogno di dominio e possesso, la ricerca e l’affermazione della propria onnipotenza di fronte a una platea pronta a confermarla. Ma questi concetti, che esprimono un’idea di forza e superiorità, sembrano tuttavia celare un profondo senso di insicurezza e svelano uno strutturale rifiuto verso la costruzione di relazioni basate sulla scelta e sull’autodeterminazione delle donne.

 

 

Una condizione che porta a distorcere la visione di una realtà che parla il linguaggio femminile e apre inevitabilmente la strada all’esercizio di una violenza ormai così introiettata da apparire “normale”. A questo proposito, stupisce la naturalezza con cui tantissimi uomini condividono contenuti che inneggiano alla violenza sulle ex compagne, così come la totale assenza di riflessione rispetto alle ricadute che potrebbero esserci sulla vita di chi subisce questi abusi o, al minimo, sulle conseguenze penali che potrebbero derivare dall’esercizio di determinate pratiche. Eppure questo rito collettivo, quotidianamente celebrato in moltissime chat ad uso esclusivo dei maschi, riproduce una cultura dello stupro che, a ben vedere, è molto radicata nella società in cui viviamo.

Sarebbe infatti riduttivo confinare la complessità e la strutturalità della questione ai soli canali Telegram.

 

Fenomeni come il Revenge Porn costituiscono, al più, una radicalizzazione di posture e azioni che rintracciamo anche nei contesti comunicativi più comuni e attraversati quotidianamente assieme a persone che, almeno di vista, conosciamo.

 

Ci sembra pertanto interessante concentrarci su quei luoghi virtuali partecipati da soli uomini, come ad esempio le famose chat “Calcetto”, di cui anche noi facciamo parte. Certamente queste non nascono con l’intento di scambiare foto e contatti di ex compagne o materiale pedopornografico ma, a partire dalle nostre esperienze personali, possiamo sicuramente affermare che sessismo, violenza e cultura dello stupro sono perfettamente rappresentati anche qui, seppur in forme ridimensionate e, talvolta, caricaturali.

Ci domandiamo cosa spinga una persona a inoltrare foto della propria vicina di casa mentre pulisce il balcone in pigiama, con sotto un bel “guardate che troia”. Ci domandiamo anche cosa spinga gli altri uomini a sostenere e rilanciare il discorso, spiegando cosa vorrebbero fare a questa ragazza che sta semplicemente spazzando il terrazzo di casa sua. Evidentemente si sentono liberi di dire qualsiasi cosa, da sempre abituati a dare per scontato un certo grado di solidarietà maschile nel rendere legittimo l’uso della violenza nei confronti delle donne e nel rendere accettabile la rappresentazione proprietaria del loro corpo.

 

 

Questo flusso perpetuo di contenuti sessisti, che ritraggono figure femminili ridotte ad una dimensione di inferiorità e perennemente disponibili a soddisfare le più recondite perversioni del maschio, permette di intravedere una particolare visione della sessualità femminile e delle relazioni di genere. Donne belle e disinibite, curate di tutto punto e perfettamente depilate, magari rappresentate come un po’ ingenue e quindi facilmente circuibili, diventano l’oggetto del desiderio.

Al contrario, ragazze con corpi differenti, a loro volta dentro un contesto sessualizzato, diventano bersagli contro cui scatenare il proprio rancore. La conseguenza più immediata si traduce in un sentimento di ammirazione, se non di invidia, per le figure maschili che di donne considerate belle possono averne quante ne vogliono, in virtù della loro fama o ricchezza. Inevitabilmente e coerentemente con questo leitmotiv, risulta abituale leggere commenti volti a rimarcare ossessivamente la propria virilità e la propria eterosessualità, o altri in cui si ostenta disprezzo nei confronti dell’omosessualità maschile (quella femminile invece è sexy, anche perché non rappresenta una minaccia per la dispersione del potere maschile).

 

Concludendo, ci sembra dunque che l’analisi di fenomeni come il Revenge Porn o altre forme di abuso basate sull’immagine e sull’assenza di consenso che esasperano alcune dinamiche latenti, permetta di comprendere in modo più nitido e chiaro il piano discorsivo attraverso cui gli uomini descrivono le donne nella nostra società e la natura dei sentimenti che lo sottendono.

 

Da questo punto di vista, la campagna “NON È PORNOGRAFIA MA VIOLENZA, #NOREVENGEPORN” promossa da NUDM e la dichiarazione di guerra annunciata dagli hacktivisti di Anonymus Italia attraverso l’operazione OpRevengeGram, se da un lato hanno stimolato i pensieri che abbiamo provato a condividere in questo testo, dall’altro ci lasciano addosso un senso di imbarazzo dovuto alle difficoltà che incontriamo nel tentativo di rompere la linearità con cui questi processi si sviluppano quotidianamente.

 

Tradire la solidarietà tra maschi, cominciare ad accendere conflitti nelle chat in cui la violenza maschile abita, prendere parola pubblicamente per rappresentare un’altra maschilità, costituiscono a nostro avviso degli ottimi propositi, che dovremo finalmente sforzarci di tradurre in azioni concrete, soggettive e collettive.

 

Le difficoltà che proviamo nel mettere in campo queste pratiche si collocano profondamente all’interno delle riflessioni proposte: prendere parola per denunciare le derive sessiste e violente di determinati flussi comunicativi significa immediatamente e inevitabilmente proporsi come bersaglio del branco.

Un uomo che pone ad altri uomini degli interrogativi rispetto alla concezione maschile delle relazioni di genere e della sessualità femminile rompe la naturale solidarietà omertosa che definisce il rapporto, con il risultato scontato di non essere più un soggetto in cui riconoscere l’unica immagine disponibile del maschio. Tuttavia, facendo un ulteriore passo in avanti, il prendersi la responsabilità di aprire dei conflitti tra uomini potrebbe far emergere il fatto che in molti rifiutiamo di essere associati alla riproduzione della maschilità egemone, offrendo quindi a noi e a tutti la possibilità di definirci (ed essere definiti) in modo radicalmente diverso.

In questo senso, pensiamo sia arrivato il momento di dimostrare con le nostre scelte e prese di posizione che i movimenti femministi non parlano solo alle vite delle donne, ma propongono un modo radicalmente differente di immaginare la vita in comune. Nel momento in cui la pandemia ci costringe a reinventare il futuro, non possiamo più sottrarci dalla necessità di inventare e praticare una maschilità differente. Assumendo con buona pace e un pizzico di orgoglio che sicuramente ci daranno dei “froci”, oltre che delle “zecche”, avremo almeno contribuito a creare un solco tra il maschile violento ed egemone e la possibile affermazione di una maschilità femminista.

 

Foto di copertina Marco Verch via Flickr