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Capire l’Italia con la storia dell’immigrazione

Il libro di Michele Colucci “Storia dell’immigrazione straniera in Italia” (Carocci 2018) ricostruisce la storia recente dell’immigrazione in Italia, segnata da emergenze mediatiche e sfruttamento concreto del lavoro migrante. Il libro sarà presentato giovedì 14 febbraio a Strike spazio pubblico autogestito

Le migrazioni non iniziano col capitalismo o con l’imperialismo. Come hanno dimostrato diversi studi – dal classico Migranti, coloni, rifugiati (1996) di Saskia Sassen, al recente In cammino (2014) di Massimo Livi Bacci – costituiscono, anzi, una componente fondamentale della storia: gli esseri umani, alla ricerca di migliori condizioni di vita, si spostano da sempre.

Negli ultimi anni, le trasformazioni determinate dalla crisi del fordismo hanno mutato profondamente i movimenti migratori, aumentandone l’estensione e la complessità. A oggi, infatti, tali migrazioni seguono solo in parte una rotta Sud-Nord: secondo i dati più recenti, dal 1990 al 2017 gli immigrati stranieri censiti nei 27 paesi dell’Unione europea, più il Regno Unito, sono cresciuti di 25,2 milioni, ma di questi solo il 35% proviene da paesi del Sud del mondo. Parliamo di 8,8 milioni di persone in 27 anni, con una media di 327mila all’anno: insomma, anche dalle regioni più povere a emigrare è sempre una piccolissima percentuale della popolazione e se è sicuramente vero che «tutta l’Africa in Italia non ci sta», è altrettanto vero che non ci vuole stare.

Che le migrazioni siano un elemento caratterizzante della storia umana è un dato di cui è ben consapevole il ricercatore del Cnr Michele Colucci, già coautore nel 2009 di un volume  che ripercorre la storia delle migrazioni negli ultimi due secoli. Nelle ultime settimane Colucci ha dato alle stampe un’interessante Storia dell’immigrazione straniera in Italia (Carocci 2018), che ne tratteggia le tappe dalla seconda guerra mondiale a oggi. Sempre quest’anno, inoltre, ha curato un numero monografico della rivista «Meridiana»  interamente dedicato all’Immigrazione.

Storia dell’immigrazione straniera in Italia è un libro importante, in cui Colucci affronta uno degli argomenti più divisivi degli ultimi anni con l’intento esplicito di comprendere l’immigrazione attraverso la sua storia.

Partendo dalla considerazione secondo cui l’Italia non sia più un paese di «recente immigrazione», Colucci ricostruisce il governo dell’immigrazione straniera articolandolo intorno a sei nodi: lo strumento della sanatoria per la regolazione dei flussi; la scarsa attenzione per le politiche di integrazione, costantemente rinviate e delegate a soggetti terzi (l’associazionismo cattolico e il mondo sindacale); la connessione tra le politiche migratorie e quelle per il lavoro, caratterizzata dalla progressiva precarizzazione delle condizioni contrattuali; il legame crescente con le istituzioni europee; la costante visione di eccezionalità della presenza straniera, affrontata sempre in maniera emergenziale e non come dimensione strutturale in una società complessa; la difficoltà a governare i flussi di rifugiati e richiedenti asilo.

Nonostante una «popolazione straniera» sia presente in Italia sin dal dopoguerra, i veri e propri flussi di immigrazione iniziarono solo nei primi gli anni ‘70, quando ancora non esisteva alcuna legislazione che definisse il modo per immigrare in Italia legalmente. Tale mancanza rendeva la vita dei migranti soggetta a una diffusa precarietà, in un

«continuo borderline tra regolarità e irregolarità. […] Frontiere non impossibili da attraversare anche legalmente, ma poi un labirinto giuridico e amministrativo inestricabile, privo di organicità e zeppo di deroghe. Un sistema quindi intriso di discrezionalità e di contraddizioni destinato a favorire lo scivolamento verso l’irregolarità di persone entrate regolarmente e incapace di garantire diritti e tutele» (p. 68).

Solo nel dicembre 1986 fu approvata la legge Foschi che, oltre a regolare per la prima volta i ricongiungimenti familiari e gli ingressi per motivi di lavoro, prevedeva una sanatoria: uno strumento diventato da allora il principale regolatore della politica migratoria italiana, utilizzato anche dai successivi provvedimenti sull’immigrazione (la legge Martelli del 1990, la legge Turco-Napolitano del 1998, la legge Bossi-Fini del 2002, che regolarizzò oltre 600mila persone).

 

 

Colucci evidenzia chiaramente come la legislazione italiana sull’immigrazione sia stata influenzata dagli accordi di Schengen del 1985. L’obiettivo dei 5 paesi firmatari, infatti, era quella di aprire la libera circolazione tra di loro irrigidendo e facendo convergere le rispettive politiche migratorie: la creazione di uno spazio senza frontiere implicava un maggiore controllo sull’immigrazione proveniente da paesi terzi. Nasceva così la Fortezza Europa, con i suoi alti muri discriminatori verso l’esterno (e verso i cittadini stranieri) e la sua libertà di circolazione all’interno.

Poiché l’Italia nel 1985 non aveva ancora una legislazione sull’immigrazione, poté firmare gli accordi di Schengen solo nel 1990, dopo la legge Foschi e la legge Martelli. Nello stesso anno, il 51% degli italiani si dichiarava contrario all’immigrazione: è la stessa percentuale di oggi, secondo un’indagine dell’Eurobarometrodell’aprile 2018.

Negli anni successi il governo dell’immigrazione in Italia procedette tra emergenzialità, sanatorie e una generale stretta repressiva e restrittiva, che ridusse gradualmente le opportunità legali di ingresso. Mentre il numero di immigrati cresceva esponenzialmente (più 1.300.000 nel 2001, 4 milioni e mezzo nel 2010), la strumentalizzazione di omicidi e violenze di genere al fine di creare allarme sociale (nel 2007 l’omicidio di Giovanna Reggiani, nel 2009 lo stupro della Caffarella) condusse a una sovrapposizione tra i provvedimenti governativi sull’immigrazione e quelli sulla pubblica sicurezza.

La crisi economica iniziata nel 2008 e la «crisi dei rifugiati» apertasi nel 2010 con le «primavere arabe» segnarono una cesura nella storia dell’immigrazione straniera in Italia, a cui i governi risposero ancora una volta con provvedimenti emergenziali. Tra il 2011 e il 2015, ben mezzo milione di persone sbarcano sulle coste italiane e quasi tutte richiedono la «protezione internazionale». Con il blocco delle sanatorie e dei «flussi» per lavoro, l’unica strada legale per entrare in Italia sembra essere infatti essere quella della richiesta di asilo.

A partire dal 2015, tuttavia, i flussi di immigrazione straniera in Italia si sono stabilizzati e sono cominciati a calare: la retorica della «minaccia» dell’immigrazione, sulla «marea» di immigrati pronti a sbarcare in Italia non è altro che una menzogna inconsistente.

Nonostante questi dati oggettivi, con i governi a guida Pd, e in particolare con il ministro dell’Interno Minniti, l’immigrazione è stata sempre più considerata una minaccia alla sicurezza e all’ordine. Sicurezza è libertà titola – in modo orwelliano – il libro di Minniti (uscito contemporaneamente a quello di Colucci), proponendo un modello di società gerarchico e stratificato basato sull’esclusione dei marginali, dei poveri e dei migranti.

Tra i punti di forza della ricostruzione di Colucci c’è certamente l’attenzione per la costante e duratura presenza degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, nonostante la crescita delle misure restrittive sull’immigrazione.

Se – come nella prospettiva indicata da Abdelmalek Sayad e ripresa in una recentissima pubblicazione di Gennaro Avallone (Liberare le migrazioni, 2018) – le migrazioni funzionano come “specchio” per la società di immigrazione, il trattamento riservato agli immigrati mostra quale forma di regolamentazione del lavoro potrebbe imporsi nel caso di un ulteriore indebolimento della forza lavoro rispetto alle imprese. Colucci lo mette ben in luce evidenziando come dopo il varo dello Statuto dei lavoratori (1970) gli immigrati abbiano cominciato a trovare in Italia una collocazione lavorativa «dove era possibile assumerli con retribuzione basse e condizioni di lavoro penalizzanti, proprio nei settori dove le nuove conquiste erano penetrate in modo meno omogeneo e meno dirompente: il lavoro domestico, la pesca, l’agricoltura» (p. 39). E aggiunge, a proposito delle condizioni di lavoro degli immigrati negli anni ’90 (diffusione nei comparti ad alta nocività, sacche di irregolarità contrattuali) che si tratta «di caratteristiche che vengono enfatizzate dalla presenza del lavoro migrante ma che riguardanoin generale l’intera articolazione del mercato del lavoro nazionale» (p. 110).

 

 

Questo elemento si connette, a mio avviso, al carattere particolare dell’economia italiana in cui, come notato da numerosi studiosi dei fenomeni migratori (ad esempio, Alessandro Dal Lago), il sommerso – che rappresenta il 20% del Pil – richiede una forza lavoro mobile, sottopagata e che non avanzi rivendicazioni. L’economia italiana, dunque, si regge sul lavoro di migranti, di preferenza su quello dei più fragili, cioè i clandestini: ciò consente di abbassare il costo del lavoro in settori lavorativi che altrimenti crollerebbero, come l’agricoltura (dove i migranti sono esposti a condizioni di quasi schiavitù), oppure di coprire i lavori più pericolosi, mal pagati e disprezzati. Non è dunque l’immigrazione che peggiora le condizioni di lavoro: sono le leggi che creano la clandestinità e la ricerca padronale di profitto a farlo.

Colucci, inoltre, pur concentrandosi sul governo dell’immigrazione, si tiene ben lontano dal rischio di sottostimare la presenza di immigrati nelle lotte sul lavoro, quando invece – come evidenziato da Sandro Mezzadra  – gli ultimi vent’anni hanno registrato il loro protagonismo in tutto il mondo. La migrazione non è un’esperienza esclusivamente subita e Colucci ricostruisce, infatti, numerosi momenti di lotta dei migranti: tra essi, lo sciopero dei braccianti successivo all’omicidio di Jerry Masslo a Villa Literno (1989), le manifestazioni dopo lo sgombero dell’occupazione dell’ex pastificio Pantanella a Roma, i 45 giorni di protesta a Brescia nel 2000 per la regolarizzazione, le proteste dopo la strage di Castel Volturno (settembre 2008), la rivolta di Rosarno nel 2010, lo sciopero di Nardò (2011), ecc. Colucci sottolinea infine che oggi «coloro che si mobilitano si presentano spesso non come immigrati ma come lavoratori di determinati comparti, come soggetti privati di alcuni diritti, come cittadini che rivendicano non solo un riconoscimento nello spazio pubblico ma precisi obiettivi legati alle rispettive condizioni sociali» (p. 193): ciò è evidente, negli ultimi anni, soprattutto nelle lotte per la casa, nell’agricoltura e nella logistica, dove gli immigrati costituiscono il 20% della forza lavoro. Proprio durante uno sciopero nella logistica, durante un picchetto, nel settembre 2016 è stato travolto da un Tir e ucciso un migrante egiziano, Abdel Salam.

Mi sembra, dunque, che con questa opera – sintetica quanto efficace – Colucci raggiunga pienamente l’obiettivo già espresso in un suo contributo del 2012  per la rivista “Zapruder”: quello per cui «qualunque tentativo di costruire un rapporto tra processi migratori lontani tra loro nel tempo e nello spazio si arricchisc[e] di un solido ancoraggio alla loro dimensione materiale se tematizzato a partire dalla funzione che tali processi hanno nei mercati del lavoro e dalla loro dimensione politica».

 

Il libro di Michele Colucci Storia dell’immigrazione straniera in Italia sarà presentato giovedì 14 febbraio 2019 alle 19 a Strike spazio pubblico autogestito. Interverranno: 

Michele Colucci, autore del libro 
Ejaz Ahmad, giornalista e mediatore 
Antonio Sanguinetti, attivista e ricercatore 
 
Reading di alcuni estratti dal libro, a cura di Aura Mia Rossi