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«Boğaziçi, una protesta sorprendente». Quale futuro per il dissenso in Turchia?

Zafer Yörük, accademico turco fra i firmatari del Manifesto per la Pace del 2016, analizza le proteste scoppiate all’Università del Bosforo in seguito alla nomina del nuovo rettore Melih Bulu per fare una panoramica sullo stato dell’opposizione al regime di Erdoğan

Sono oramai quasi 50 giorni di protesta. Da quando il leader dell’Akp ha deciso di nominare il nuovo rettore dell’università istanbuliota di Boğaziçi tramite decreto presidenziale, studenti e accademici hanno manifestato il proprio dissenso con cortei, gesti simbolici, appelli di livello internazionale. Melih Bulu, il nuovo rettore, sembra “accerchiato” nel suo ufficio, mentre la protesta si estende anche ad altri campus.

Erdoğan, però, non molla e la repressione poliziesca sembra intensificarsi: centinaia di denunce da parte delle forze dell’ordine nei confronti degli e delle studenti e decine di detenzioni preventive. Facciamo il punto con Zafer Yörük, professore e ricercatore turco, fra i firmatari del Manifesto per la Pace del 2016 che all’epoca aveva portato all’espulsione di numerose persone dall’ambiente accademico.

 

Ti aspettavi potesse crearsi una simile espressione di dissenso all’Università di Boğaziçi?

Sono assolutamente sorpreso e impressionato dalla determinazione dei manifestanti. Nonostante l’attenzione pubblica in questo momento sia completamente “catturata” dall’uccisione degli ostaggi e dei militanti curdi nel Kurdistan iracheno e nonostante il clima ora sia davvero rigido a Istanbul, gli accademici si ritrovano ogni giorno davanti al rettorato a protestare in maniera simbolica.

È vero: nel 2016, in seguito alla pubblicazione del Manifesto della Pace, tantissime persone politicamente attive sono state espulse dall’ambiente accademico. Ma questo non è avvenuto con eguale intensità in tutti gli istituti: a Boğaziçi, per esempio, molti hanno resistito e sono rimasti al proprio posto, così come da altre parti.

Allo stesso tempo, mi viene da dire che la protesta che si sta sviluppando era, in una certa misura, inevitabile. L’autoritarismo del regime di Erdoğan è sempre più pervasivo. La nomina tramite del rettore universitario totalmente “dall’alto”, tramite decreto presidenziale, rappresenta un atto talmente dittatoriale che non poteva che generare delle reazioni in ambito accademico.

 

Come mai, a tuo modo di vedere, Erdoğan sta cercando di imporre in maniera così insistente un proprio fiduciario anche all’Università?

Io credo che il desiderio di controllare ogni aspetto della vita politica e civile del popolo sia il desiderio di ogni presidente autocratico. È la stessa tensione che animava Trump, è ciò che muove Boris Johnson… La differenza sta nel fatto che le condizioni istituzionali in Turchia consentono a Erdoğan di concretizzare pienamente questo suo desiderio.

Semplicemente: prova a farlo perché può. Il suo progetto è diffondere in ogni centro di potere persone fedeli alla sua visione di islam politico e tenta dunque di appuntare il maggior numero di “fiduciari” (kayyum) anche nell’ambiente accademico. Non è un segreto: Erdoğan ha detto chiaramente di voler egemonizzare la sfera culturale e intellettuale del paese.

Si tratta di un’intenzione simile alla volontà ottomana di “conquistare” l’occidente. In questo senso, l’Università di Boğaziçi possiede un alto valore simbolico: si tratta infatti di un istituto la cui fondazione ha origini statunitensi e in qualche modo ha sempre formato un tipo di “élite” che guardava al di fuori dei confini nazionali.

 

Hai menzionato l’“islam politico”. Ti sembra che ci sia anche un aspetto religioso della vicenda?

Sapete certamente che di recente Aghia Sophia è tornata a essere una moschea. Si tratta di un gesto simbolico, ma potente. In qualche modo, è speculare alla volontà di Erdoğan di nominare un proprio fiduciario come rettore di Boğaziçi: due gesti che fanno parte del medesimo progetto di riportare sotto controllo islamico e nazionale delle istituzioni che sono invece tradizionalmente percepite come cristiane e “straniere”.

C’è dunque una strategia generale, che consiste nel porre uomini (nel senso proprio di persone di genere maschile) vicini al governo in carica e vicini all’ideologia islamica in posizioni di potere chiave. Si tratta molto spesso di professori di teologia, o comunque rappresentanti politici facenti parte della cerchia del partito di Erdoğan, Akp.

In questo senso, è interessante notare come il secolarismo kemalista rappresenti da sempre il principale polo d’opposizione al potere di carattere islamico incarnato dall’attuale governo. Tuttavia, anche il secolarismo kemalista – che ha deciso le sorti del paese per decenni – si fa sempre più debole: si ritrova ossessionato da discorsi e argomenti di natura formale, riguardanti magari il vestiario o altre questioni simboliche, che non hanno più alcuna presa sulla popolazione.

 

 

 

Da quale punto di vista è allora possibile articolare un discorso di opposizione a Erdoğan?

Come detto, il secolarismo turco è troppo ossessionato da problemi superficiali: mi è capitato anche in altri contesti dell’area mediorientale che accademici di ideologia laica si lamentassero, per esempio, che nel proprio paese non si desse sufficiente importanza a ricorrenze che celebrano l’identità nazionale o cose del genere. Ma a chi importa? Si tratta di falsi problemi, questioni di facciata.

Allo stesso modo la sinistra e i socialdemocratici turchi, che sono di ispirazione kemalista, cercano di opporsi all’avanzata dell’islam politico semplicemente celebrando il vecchio periodo repubblicano, guardano con nostalgia a una sorta di “ancien régime” perduto. Si tratta di una prospettiva che non può in alcuna maniera contribuire all’estensione dei diritti politici e al progredire della società in un senso più democratico.

Al contrario, occorre guardare oltre questa falsa alternativa fra kemalismo e islam politico. È qui che si inserisce il movimento curdo: penso che l’opposizione rappresentata dai curdi sia l’unica credibile in questo momento e non solo per una questione di discorsi o idee, ma perché riesce a unire tutte quelle soggettività – dalle donne alla comunità Lgbt alla classe operaia – che veramente potranno beneficiare di una reale democratizzazione del paese. Non è un caso che la base dell’Hdp è sia curda che turca.

 

Quanto sta accadendo a Boğaziçi è stato da alcuni paragonato alle proteste di Gezi del 2013. Che ne pensi?

Si tratta di un paragone interessante più per le differenze che per le analogie. In un certo senso, la protesta che scoppiò a Gezi Park non aveva uno scopo preciso. Alcuni analisti la hanno vista come una naturale prosecuzione delle primavere arabe, mentre altri la hanno interpretata come parte del movimento di Occupy che si stava facendo largo in tanti paesi del Mediterraneo, come Spagna o Grecia.

Il punto, però, è che accadeva in un clima politico e sociale molto diverso da quello di oggi. Allora c’erano certamente dei primi segnali di autoritarismo da parte di Erdoğan, ma imparagonabili all’accentramento del potere attuale; la crisi economica non era forte come adesso, anzi si era in una fase espansionistica; pur con tutti i problemi in termini di diritti, si era avviato un processo di pace con la guerriglia curda…

Ora, invece, la Turchia è a tutti gli effetti un regime dittatoriale con un solo “uomo forte” alla guida e l’emergenza pandemica si somma alla crisi economica, in una spirale di impoverimento che coinvolge sia gli strati meno abbienti della popolazione che la classe media. In tutto ciò, il governo non ha elargito che piccolissimi sussidi: a un certo punto, ha addirittura chiesto alle persone di donare soldi per gli aiuti statali. Sembrava uno scherzo!

 

Ti sembra quindi improbabile che scoppino manifestazioni di dissenso molto partecipate ed estese?

Ci sono tante condizioni che rendono possibile l’esplosione di un conflitto sociale, proprio come è successo con Gezi o in altri momenti della storia turca. Allo stesso tempo, però, ci troviamo a confrontarci con un governo molto forte e autoritario, che può contare su un apparato repressivo fedele: militari e polizia sono infatti perfettamente integrati nelle file dell’Akp, così come il partito di Erdoğan può contare su milizie armate impiegate all’estero e su militanti civili.

Non solo: l’amnistia messa in campo durante la pandemia, che nominalmente serviva a scongiurare la diffusione di contagi in carcere, ha consentito di liberare capi mafiosi che sembrano essere vicini al governo e storicamente legati anche al partito di estrema destra Mhp. Si tratta di personaggi che stanno influenzando sempre più la vita politica: il leader del partito d’opposizione Chp Kemal Kılıçdaroğlu ha ricevuto delle minacce di stampo criminale.

In uno scenario simile, io proverei a osservare che cosa accadrà durante la marcia delle donne per l’8 marzo. Si tratta di un grande momento di mobilitazione in Turchia, così come in tante altre parti del mondo. Le proteste delle donne daranno un ulteriore segnale per il futuro del dissenso nel nostro paese.

 

Tutte le foto di Oguz Kaan Cagatay Kilinc