ITALIA

«Bisogna espropriare le fabbriche». Scioperi e nuovi decreti, ma Bergamo e Brescia non si fermano

Ci sono alcune domande che bisogna porsi per provare a comprendere la disastrosa situazione della Lombardia: perché il contagio si è diffuso così rapidamente? Perché il tasso di mortalità è così alto? Cosa non sta funzionando?

A poco più di ventiquattro ore dall’accordo fra Governo e sindacati di giovedì 26 per ridurre il numero delle aziende che possono restare aperte, in provincia di Brescia erano già 2400 le richieste per ottenere una deroga (dati forniti dalla prefettura di Brescia). «Ci stanno arrivando migliaia e migliaia di segnalazioni da tutto il territorio nazionale di aziende che chiedono di poter continuare a lavorare», commenta il ricercatore della Fondazione Sabattini e sindacalista della Fiom Matteo Gaddi. Mercoledì 25 c’è stato lo sciopero generale proclamato dall’Unione Sindacale di Base e anche Fiom-Cgil ha indetto otto ore di stop della produzione per i metalmeccanici di Lazio e Lombardia. «È solo grazie alle lotte degli operai che riusciti ad arginare un po’ i danni, ma Confindustria sta tentando comunque di far rientrare dalla finestra ciò che abbiamo cacciato dalla porta.

Non si contano le aziende e le fabbriche che stanno chiedendo di poter proseguire con le attività, in deroga all’ultimo accordo sul decreto: di fatto, l’introduzione di questo meccanismo apre potenzialmente il campo alla totalità dell’industria italiana». Giusto una settimana fa, fra indecisioni, smentite e “attendismo mediatico”, il governo Conte varava il primo decreto per limitare la quantità di aziende aperte su tutto il territorio e limitare dunque il numero di operai costretti quotidianamente a spostarsi per andare a lavorare. Tuttavia, la prima lista pubblicata pare non corrispondesse agli accordi presi con le parti sociali, ma contenesse anzi molte categorie d’impresa che – stando alle accuse dei sindacati, che hanno poi chiesto un secondo incontro martedì 24 per stilare un nuovo elenco – non erano state inizialmente inserite. «È anche la logica del decreto a essere deleteria», prosegue Matteo Gaddi che ha tra l’altro curato assieme a Nadia Garbellini uno studio sul tema.

«In pratica, si è scelto di dichiarare essenziali alcuni settori (identificandoli semplicemente attraverso il codice Ateco) e di definire poi le attività legate a questi settori e che consentono di garantire rifornimenti e strumentazione. Niente di più sbagliato: si sarebbe invece dovuti partire dalla definizione dei servizi fondamentali (agroalimentare, sanità, energia, telecomunicazioni, pubblica amministrazione) e da lì ricostruire tutta la filiera. Come al solito, l’unico argine alle logiche del profitto è costituito dalle lotte dei lavoratori. Non si tratta solo di numeri, ma anche di qualità del lavoro: l’attività del manifatturiero è quella che maggiormente espone al rischio del contagio. Mettere in sicurezza vuol dire abbassare i ritmi e i livelli di produzione, uscire dal meccanismo della cancellazione dei tempi morti e dell’efficienza a tutti i costi.

Vuol dire, in realtà, una cosa ben precisa: il governo avrebbe dovuto imporre la chiusura delle fabbriche, espropriarle e dirigere statalmente la produzione per metterla a servizio delle attività essenziali». Invece, pur di seguire le logiche di mercato, è capitato per esempio che l’azienda Copan di Brescia abbia venduto 500mila tamponi agli Stati Uniti. Il tutto mentre le fabbriche, come anticipavamo in apertura, in virtù della lettera “d” del primo comma dell’Art.1 del Dpcm stanno chiedendo in massa di poter proseguire la produzione, nonostante non siano state inserite nella lista dei codici Ateco: secondo il Gazzettino del nordest sono oltre undicimila le domande di deroga arrivate sino a oggi nel solo Veneto.

Bergamo, 27/03/2020 (2020© Roberto Giussani – red zone chronicles)

Correlazione o causalità?

«Dicono che quando un proiettile ti colpisce non senti mai il colpo, perché il proiettile arriva prima e poi il suono arriva dopo. Questo virus funziona così»: sono le parole che il divulgatore scientifico David Quammen, autore del libro dal titolo profetico Spillover (2012), ha pronunciato di recente durante un’intervista rilasciata al manifesto. Osservando la brutalità con cui l’emergenza relativa al Coronavirus sta esplodendo in Lombardia, e in particolare nei territori del bergamasco e del bresciano, si ha proprio l’impressione di un proiettile “sparato” ormai da tempo le cui conseguenze, devastanti, continuano a propagarsi lungo tutto il corpo colpito. Analizzare i dati che arrivano da regioni, province e comuni significa dunque provare a ricostruire a posteriori il suono che avrebbe dovuto fare quel proiettile.

A questo proposito, buona parte del dibattito verte sul ruolo che le peculiarità economiche delle varie aree avrebbero potuto giocare nella rapidità di diffusione del contagio. In un altro articolo avevamo provato a raccontare quanto Bergamo, e nello specifico l’epicentro della Val Seriana, fosse una delle province italiane con il più alto tasso di piccole-medie imprese e la cui filiera produttiva imponesse, forse più che in altre zone, una quantità elevata di spostamenti quotidiani. L’attivista Mauro Vanetti, già autore del libro La sinistra di destra, attraverso numerose rielaborazioni di dati simili a quella poco sopra sta mettendo in luce una serie di correlazioni fra le caratteristiche produttivo-industriali delle zone più colpite dal virus e il numero di decessi e contagiati. Sostanzialmente, la mappa dei vari epicentri della diffusione di Covid-19 in Italia è sovrapponibile a quella della densità sul territorio di fabbriche di medie dimensioni.   

Se questo non è prova di alcuna correlazione causale in senso stretto fra i due fenomeni, è però il segno di una contraddizione sempre più lampante: le indicazioni diffuse costantemente dal governo a mezzo stampa, radio e tramite i consueti bollettini ripetono che l’isolamento sociale è una delle poche misure (quando non l’unica) che possiamo mettere attualmente in campo per contrastare il contagio, mentre il tessuto economico delle aree che in questo momento rappresentano i massimi epicentri nazionali (al 28 marzo la provincia di Bergamo rappresenta un totale di 8349 contagiati, mentre quella di Brescia è a 7678 e quella di Milano a 7783) spinge verso una mobilità elevata di persone e merci. Stime della Cgil di qualche giorno fa parlavano di almeno 300mila dipendenti quotidianamente a “circolare” fra la provincia di Bergamo e quella di Milano con relativo intasamento dei mezzi pubblici.

D’altronde, è proprio per limitare il fenomeno che è stato varato il decreto del 22 marzo, con le successive integrazioni del giovedì successivo, ma migliaia e migliaia di aziende – andando in direzione totalmente opposta alla ratio del decreto stesso, pur rientrando formalmente nei suoi parametri legali – stanno invece facendo richiesta di deroga per proseguire l’attività. «Il lavoro manifatturiero è quello che ti espone maggiormente al contagio», spiega sempre Matteo Gaddi. «Le persone passano molto tempo in un luogo chiuso e a contatto fra loro. Applicare con precisione le misure di sicurezza contenute nei vari decreti e nei vari protocolli causerebbe più che in altri settori un calo drastico dei livelli di produzione. Non stupisce dunque che si stia cercando di mantenere le aziende aperte il più possibile, così come non stupisce che in Italia i centri del contagio corrispondano quasi sempre alle zone più industrializzate». I numeri sembrano parlare chiaro: ai primi posti nel nostro paese ci sono Milano (299mila imprese e 2 milioni di addetti, dati della Camera di Commercio di Milano, Monza e Brianza e Lodi), Brescia (con 107mila imprese e 402mila addetti) e Bergamo (con 85mila imprese e 376mila addetti). Il fatto che si tratti principalmente di aziende medie e piccole non fa che acuire il problema: il potere contrattuale dei lavoratori e la loro capacità di organizzazione è minore, così come è minore la possibilità da parte della fabbrica di “reggere” economicamente una chiusura prolungata.

Bergamo, 27/03/2020 (2020©Roberto Giussani – red zone chronicles)

Troppi contagi nella sanità

Che il lavoro non venga adeguatamente tutelato pare essere vero anche per il personale sanitario. «È come se all’improvviso fosse scoppiata una bomba», dice Ilaria, chirurga specializzata in un piccolo ospedale poco fuori Bergamo mentre la prima settimana di epidemia. «Abbiamo avuto qualche sentore venerdì, nel vedere lo spostamento di alcuni letti, poi sabato ci hanno fornito delle brevi e vaghe comunicazioni relative a dei “cambiamenti”, infine lunedì quando ho fatto ritorno al lavoro ho trovato il disastro più completo: praticamente tutta la struttura era stata riconvertita, il pronto soccorso completamente intasato… i primi giorni il personale era allo sbaraglio». In modo simile, se non peggiore, sembra andare nelle strutture private: «Non ci hanno minimamente tutelato», afferma perentorio un dipendente della Don Gnocchi di Rovato (provincia di Brescia) che preferisce restare anonimo. «All’inizio, l’unica misura di sicurezza che potevamo adottare era lavarsi le mani.

Poi, quando ci hanno finalmente fornito le mascherine chirurgiche, ci dicevano di utilizzarle fino a sette giorni. Insomma, o perché la struttura ne era davvero sprovvista o perché hanno voluto essere parsimoniosi, ma eravamo senza dispositivi di protezione individuale. Ce li siamo dovuti comprare di tasca nostra!». A Milano, il 27 marzo sono stati aperti diciotto fascicoli d’indagine proprio contro la Fondazione Don Gnocchi, che è accusata di aver occultato casi di positività al virus all’interno della struttura e appunto di non aver protetto adeguatamente i propri dipendenti.

Il problema è che, al di là delle responsabilità e delle mancanze nei singoli contesti, è tutto il settore sanitario (lombardo, ma nello specifico bergamasco) a essere messo sotto accusa. In una lettera pubblicata sulla rivista specializzata “Nejm Catalyst” e firmata da 13 medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo si legge: «Stiamo imparando che proprio gli ospedali possono essere i principali corridoi di contagio, dal momento che si riempiono velocemente di pazienti infetti che vanno a contagiare con facilità altri pazienti non infetti. […] Il disastro potrebbe essere evitato solo attraverso il dislocamento dei servizi sanitari» (traduzione nostra). I numeri parlano chiaro: alla data del 27 marzo, su tutto il territorio nazionale, i medici contagiati erano un totale di 2629 con 50 decessi (14 nel solo territorio bergamasco), mentre si parla di circa 4mila per gli infermieri. La situazione non migliora per quanto riguarda i medici di base: stando sempre a Bergamo, un comunicato stampa del 26 marzo della sezione locale della Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale parla di 144 contagiati e di 4 decessi, con la conseguenza che circa 200mila cittadini si ritrovano dunque al momento sprovvisti di un tale servizio.

«C’è stata una totale mancanza di coordinazione sul territorio», ipotizza il segretario della Fimmg di Bergamo Mirko Tassinari, anche lui fra i contagiati. «Fin dal primo giorno dell’emergenza abbiamo chiesto di rendere disponibili i tamponi, ma siamo stati ignorati per almeno un mese. Era chiaro già da gennaio che saremmo potuti diventare veicoli di diffusione del virus così come lo sono diventati gli ospedali. Si sarebbe dovuto creare fin da subito un sistema di unità operative, dotate di protezione individuale e dunque in grado di visitare materialmente il paziente coordinate dal medico da remoto. Le Unità speciali di continuità assistenziali (Usca) iniziano ora a essere attive, ma è veramente tardi. Nel frattempo, si stanno utilizzando anche le strutture alberghiere per alleggerire gli ospedali».

Dislocamento e rimodulazione logistica dell’assistenza sanitaria: sembrano dunque essere queste le direzioni in cui potrebbe svilupparsi la risposta al SARS-Cov-2. Un metodo che sembra venire applicato con successo in aree diverse da quelle bergamasche e bresciane ma ugualmente a rischio: nel piacentino (2122 contagi, a 10-15 chilometri dal primo focolaio italiano di Codogno) è stata messa a punto un’organizzazione logistica che consente di visitare i pazienti a casa alleggerendo appunto le strutture ospedaliere, tanto da far parlare di “modello Piacenza”.

Citiamo le parole dell’oncologo Luigi Cavanna dall’articolo di Giovanni Cedrone su Sanità Informazione: «La nostra strategia è stata quella di cominciare un trattamento specifico antivirale. Voglio chiarire che la terapia antivirale decodificata non esiste a tutt’oggi, ma ci sono farmaci dimostrati efficaci come l’idrossiclorochina e antivirali che si usano per l’Aids. Abbiamo accumulato molte esperienze: se questi farmaci vengono somministrati precocemente, malati che partono da una febbre a 39-40 con una ossidazione al limite non sono stati ricoverati e sono migliorati a casa. Questa è la chiave di volta. Il problema non è andare a fare il tampone a casa, spesso non c’è tempo: l’importante è iniziare precocemente le cure».

Bergamo, 19/03/2020 (2020©Roberto Giussani – red zone chronicles)

 Un nuovo rapporto con la morte

La concentrazione di pazienti e personale sanitario è un problema che investe anche le case di riposo e le Rsa sul territorio. «Siamo passati da avere quattro o cinque morti all’anno a 25 decessi in un mese e mezzo», dice un operatore sanitario di una casa di riposo del bergamasco che preferisce restare anonimo. «Al momento possiamo contare sui dispositivi di protezione individuale che cambiamo regolarmente. Ma, all’inizio dell’epidemia, la situazione era tragica: abbiamo effettuato un ordine di mascherine e dispositivi che è rimasto a lungo bloccato alla dogana! Una situazione surreale: è difficile dire di chi fosse la colpa in quella situazione, ma è chiaro ormai che ci sono responsabilità gravi da parte di chi sta molto in alto. Nel frattempo, però, almeno metà degli operatori si è ammalata e noi sosteniamo dei turni da dodici ore. Cerchiamo di mantenere un livello minimo delle cure per tutti, ma è chiaro che non possiamo più garantire lo stesso servizio e la stessa assistenza di prima.

È complicato anche dal punto di vista emotivo: molti pazienti sono affetti da Alzheimer, non ci riconoscono più in quanto operatori». Una situazione certificata anche da chi lavora in stretta prossimità con le strutture sanitarie, che si tratti di Rsa o ospedali: «I morti reali sono almeno dieci volte i numeri ufficiali», dice convinta la direttrice di un’agenzia di pompe funebri. «Le lentezza nel rispondere all’emergenza è stata clamorosa. Serviva un’unità di crisi a direttrice unica, fin da subito. Invece, abbiamo assistito a una frammentazione della decisione politica che ha portato a infiniti rallentamenti: persino nel nostro contesto, gli ostacoli relativi al trasporto e allo smaltimento delle salme stavano diventando insormontabili. Lavoriamo diciotto ore al giorno, siamo allo stremo delle forze e rischiamo praticamente in ogni momento di ammalarci o di diventare veicoli di contagio. Ma il problema è anche che non riusciamo più a rispondere tempestivamente alle persone che ci chiamano, non possiamo svolgere il nostro lavoro con le stesse finalità di prima. Ci limitiamo a spostare le salme e a insacchettarle. È snaturante, sia per noi che per i familiari del defunto: non c’è nessuna elaborazione del lutto, il nostro rapporto con la morte sta cambiando completamente. Alcuni ci dicono “non fa niente”, ma sono traumi che pagheremo in futuro».

I dati della Protezione Civile non forniscono i decessi per provincia e per molti, che sempre più spesso muoiono nelle proprie case, non viene effettuato alcun tampone. Altri calcoli, che segnalerebbero un numero di “vittime” del Covid-19 di gran lunga più alto di quello ufficiale, sono stati svolti recentemente dal direttore del quotidiano “Eco di Bergamo” confrontando i necrologi pubblicati l’anno scorso con le pagine dedicate in questi giorni di epidemia. Nel frattempo, la rabbia e il desiderio di trovare risposta stanno crescendo nella popolazione: il 26 marzo sono apparse delle scritte sulla facciata del comune di Nembro (uno degli epicentri del contagio) a mettere sotto accusa la classe politica. «Ora ci chiamano tutti eroi», conclude l’operatore sanitario della casa di riposo, «ma la realtà è che sono almeno quindici anni che lavoriamo senza avere un contratto regolare e sicuro. Chissà se si ricorderanno di questo particolare quando l’emergenza sarà finita…».

Foto di copertina Bergamo, 27/03/2020 (2020©Roberto Giussani – red zone chronicles)