OPINIONI

Are you ready?

Non sottovalutiamo la portata dell’arroganza draghiana: il Nostro mira non tanto a questo governo di pochi mesi quanto al suo ruolo futuro, in un governo post-elettorale, e conta sul sostegno a lungo termine di Biden e del contesto europeo, il famoso “legame transatlantico”

Partiamo dalla coda del discorso di Draghi. «All’Italia non serve una fiducia di facciata, che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi. Serve un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto, come quello che ci ha permesso finora di cambiare in meglio il Paese. I partiti e voi parlamentari — siete pronti a ricostruire questo patto? Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che poi si è affievolito? Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto. Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani».

Conclusione che riprende l’elogio della «mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del Governo, che è senza precedenti e impossibile da ignorare […¡ mobilitazione che ha coinvolto il terzo settore, la scuola e l’università, il mondo dell’economia, delle professioni e dell’imprenditoria, lo sport [soprattutto] il personale sanitario, gli eroi della pandemia, verso cui la nostra gratitudine collettiva è immensa».

Siete pronti? Siete pronti? Are you ready?, come grida qualsiasi cantante rock per scaldare il pubblico all’inizio della serata. Ma nello slang del settore sado-maso a pagamento Are you ready? è la formula di rito che il master o la mistress rivolge alla vittima consenziente prima di passare alle maniere forti.

Ed è esattamente così che Draghi ha trattato la sua vacillante e isterica maggioranza parlamentare come il pubblico di uno spettacolo ma al limite anche come scappati di casa da punire. L’appello diretto agli italiani, per quanto ridicolo nell’aggrapparsi a piazze semi-vuote e a brandelli indecenti e pilotati della società civile, è indicativo di un populismo dall’alto che vorrebbe tenere a bada e frantumare per scissione il populismo dissennato di destra e di centro.

In pratica una richiesta di pieni poteri presentata in doppio petto e non a torso nudo con ballerine e inno nazionale mixato come al Papeete due anni fa. A rovescio d’allora con resistenze a destra e il supino accodamento del Pd di Letta – are you ready? Sì, frustami duro…

È il seguito logico dell’atteggiamento sdegnato con cui Draghi, contrastato da Mattarella che gli ha tacitamente rimproverato l’analfabetismo costituzionale, aveva preteso di dimettersi senza dibattito una volta ottenuta la fiducia delle Camere, ma con sgarbati distinguo e malcelati ricatti. Ma come si permettono i villici di prostrarsi mugugnando al signore e padrone? Dopo che gli ho portato il Pnrr e ho garantito una canina fedeltà atlantica inviando quattro ferrivecchi all’eroica Ucraina, slava Ukraini?

Nella parte programmatica del suo discorso Draghi ha ribadito tutti i punti chiave dei suoi risultati (modesti) e delle sue intenzioni di governo, senza fare troppi sconti a destra sulla concorrenza (balneari e tassisti) e tranquillamente annettendosi i contributi del mai nominato governo Conte bis (Salvini domato, il lockdown pionieristico e l’avvio della campagna vaccinale) e lamentando che «purtroppo, con il passare dei mesi, alla domanda di coesione che arrivava dai cittadini le forze politiche hanno opposto un crescente desiderio di distinguo e divisione». Ovvero che i partiti si sono comportati da partiti, portatori di interessi in conflitto e in dissenso con il garante del Bene Supremo, quella “senza formula politica”.

Macchinazioni e dissensi non tutti limpidi, per esempio «In politica estera, abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostegno del Governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del Presidente Putin», mentre «le richieste di ulteriore indebitamento si sono fatte più forti proprio quando maggiore era il bisogno di attenzione alla sostenibilità del debito». Alla fine, offesa incancellabile, «il voto di giovedì scorso ha certificato la fine del patto di fiducia che ha tenuto insieme questa maggioranza». Non che il Governo sia andato sotto con i voti, ma «non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, che ha un significato evidente», è ripetibile e tiene sotto pressione l’esecutivo con una specie di ricatto permanente.

Di qui l’esigenza di conferire di fatto pieni poteri a un eventuale nuovo o rinnovato governo, come segno di un patto di unità nazionale ricostruito da capo, senza i provocatori e gli scissionisti – monito rivolto ai Cinque Stelle ma anche alla Lega.

Ha ovviamente ignorato i nove punti di Conte, riducendo la tanto vantata agenda sociale a qualche intervento marginale sulle bollette e alla ricezione del salario minimo nella forma davvero minimale suggerita dall’Europa e senza pestare i piedi ai sindacati e ai loro contratti categoriali. Non ha fatto peraltro concessioni a destra sulla pace fiscale, gli scostamenti di bilancio e la Bolkenstein condannando per sovrappiù il collateralismo leghista alle proteste esagitate di talune categorie. Il RdC rimane, ma va spogliato degli «effetti negativi sul mercato del lavoro» – ma che scherziamo che non si trovano schiavi estivi per la raccolta della frutta o in cucina?

Non sottovalutiamo la portata dell’arroganza draghiana: il Nostro mira non tanto a questo governo di pochi mesi quanto al suo ruolo futuro, in un governo post-elettorale, e conta non sulle fantomatiche piazze spontanee con i cartelli pre-confezionati ma sul sostegno a lungo termine di Biden e del contesto europeo, il famoso “legame transatlantico”.

Dopo la presa di posizione della destra, che esige nel vertice unitario di Villa Grande un cambio di governo con redistribuzione dei ministeri ed eliminazione delle bestie nere di Salvini (mica solo i contiani), Draghi, dopo aver preso a calci Conte spingendo verso la frattura dei suoi gruppi parlamentari,  ha respinto l’accusa meloniana di volere pieni poteri, rifiutato la crisi di governo e il rimpasto chiesti da Lega e FI (mozione Calderoli) e infine chiesto la fiducia secca sulla risoluzione  Casini: «che il governo Draghi prosegua e porti a termine il suo operato. Il Senato, «udite le comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri, le approva». 

Il rischio di non ottenere la fiducia o di ottenerla da uno schieramento ancora più ristretto è più che evidente, ma lo è altrettanto il fatto che la caduta del Governo, a questo punto, provocherebbe una spaccatura all’interno della Lega e ancor più di Forza Italia. Spaccature che si aggiungerebbero a quelle già conseguite all’interno del M5S e che porteranno certamente al suo drastico ridimensionamento se non addirittura alla scomparsa. In quel panorama frammentato – dove M5S e centro-destra ufficiale sarebbero indicati per molti mesi come i responsabili di ogni guaio nazionale – sono possibili tutti i giochi elettorali e post-elettorali e si apre una prateria per l’uomo della Provvidenza, l’Uomo che parla agli Italiani garantendo l’afflusso dei miliardi del Pnrr e lo scudo Bce anti-spread.

Alla fine, nella fibrillazione del ceto politico e mediatico e nell’indifferenza dei cittadini, spartiti fra pacificati vacanzieri e miseri soggetti al solleone africano, le destre e il M5S, non partecipando al voto, fanno cadere la mozione Casini. Ne segue la salita di Draghi al Colle, le dimissioni e il probabile scioglimento delle Camere. Ora vedremo se Draghi porterà avanti il rimaneggiamento del quadro politico avviato con questa crisi e valuteremo anche i contraccolpi di tutta l’operazione sul Pd, fedele quanto inutile scudiero del Governo uscente, che bizzarramente aveva innestato la crisi con l’assurdo inserimento nel decreto Aiuti del termovalorizzatore di Gualtieri e altre macchinazioni anti-contiane. Neppure Di Maio ha fatto spesso colazione con pane e volpe, di questi tempi.