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Andy Warhol, precursore del selfie

Oggi basta un click per trasformare un proprio selfie in un’icona pop[..] ; i famosi 15 minuti di celebrità che tutti possono ottenere nella propria vita che preconizzava già cinquant’anni fa l’egocentrico artista. Le immagini diventano in un certo senso l’ossidazione di desideri fissati dalla luce e dalla chimica: organismi viventi.

A Roma è in corso, presso Palazzo Cipolla in via del Corso, la mostra su Andy Warhol, ultima di una lunga serie di esposizioni a breve o lunga permanenza avvenute negli ultimi anni, di colui che è noto come il padre della Pop Art. Pur volendo sottolineare l’unicità di questa mostra (Peter Brant, curatore e illustre collezionista di arte contemporanea, amico e profondo conoscitore di Warhol, raro esempio di continuità nel mondo del collezionismo, ha raccolto disegni e dipinti dell’artista per più di quarant’anni), non ci si può astenere dal chiedersi il perché della riuscita di questo personaggio-mito.

Perchè Warhol è così presente nel panorama artistico occidentale? Tutti lo conosciamo per aforismi o per la giostra di eccessi del suo entourage. Warhol ha segnato un’epoca, ha tracciato la linea di confine e la direzione del suo superamento. Amato oppure odiato, egli fa notizia e fa ancora tanto discutere, e in questo è coerentemente pop.

Spesso accade, però, di sovrapporre il personaggio alla sua opera. L’assimilazione collettiva dell’intervento di un artista, che passa attraverso i filtri della critica, i meccanismi di storicizzazione e l’ingresso trionfale nel mercato del dispositivo dell’arte può farci infatuare dell’aspetto biografico più che dell’opera stessa. Non che questi due elementi possano o debbano essere separati. Al contrario coesistono, si influenzano necessariamente e la loro osmosi genera un risultato senza dubbio complesso.

Il caso Warhol è emblematico in questo senso. Probabilmente non siamo solamente davanti a un artista, ma ci guardiamo nello specchio di un’epoca e di una collettività, i cui valori dominanti sono, per molti aspetti, rimasti imprigionati nel riflesso di loro stessi. Guardare un’opera di Warhol significava riconoscere l’America del secondo dopoguerra, del mito del progresso e del consumo esattamente per quello che era. L’insostenibile peso della realtà, della banalità se vogliamo, dell’immagine di consumo.

Sull’onda di questi temi nasce la Pop Art e con essa i nuovi traguardi della rappresentazione. Una rottura con l’estetica tradizionale e con numerosi standard artistici, in nome di una creatività multiforme, come rappresentò per alcuni aspetti, il Dadaismo, a partire dalla prima decade del ‘900, ma spogliato di quella carica anarchica, provocatoria e “apertamente” critica. Warhol si inserisce nel filone artistico del New Dada di Jasper Johns e Robert Raushenberg (che lo ha preceduto nell’utilizzo delle lattine di Coca-Cola in una opera d’arte) e dei primi interventi della Pop Art inseguendo la necessità di esprimere una fedeltà al reale che fosse quasi eccessiva ma allo stesso tempo liberatoria.

Nello stesso tempo sono evidenti alcune influenze di artisti come Marcel Duchamp (tra l’altro nella mostra sono presenti anche immagini di W. en travesti, che ricordano un pò un famoso alter-ego di Duchamp, Rrose Sélavy) e Man Ray (l’oggetto di uso e consumo quotidiano trasfigurato come forma d’arte), oppure Edward Hopper (per alcuni il “padre” spirituale della Pop Art) e tutto il suo potente immaginario legato all’american way of live del ‘900, senza dimenticarsi, dal punto di vista stilistico, l’influenza del mondo pubblicitario da cui Warhol proveniva.

In controtendenza rispetto all’astrazione lirica e autobiografica di Rothko (assai critico dei “giovani artisti pop”), Still e Tobey o al romanticismo sciamanico di Pollock e Kline, esponenti dell’ Action Painting, Warhol restituisce semplicemente quella realtà che è sotto gli occhi di tutti, la realtà soppiantata dall’immagine, senza il desiderio di determinarne gli aspetti positivi e negativi; l’arte in ogni sua forma, creata per rappresentare un immaginario, un epoca, fuoriuscendo dalla cornice del riflesso dell’immediato dopoguerra, con le sue ricadute individualiste e malinconiche e rivoluzionandone il linguaggio.

L’artista, polemizzando violentemente con l’immagine dell’artista-demiurgo, cara agli espressionisti astratti americani, è un comunicatore, e deve creare velocemente qualcosa che tutti possano comprendere. Egli fa irruzione nel mondo dell’arte proprio quando il nucleo di produzione artistica e delle novità espressive si sposta dall’Europa all’America. Dunque possiamo dire che Warhol rappresenti la realtà americana ma per estensione tutta quella dell’occidente capitalistico.

Le immagini che Warhol rappresenta non sono mai “sue”, “non inventa, ma riproduce, non interpreta ma ripete all’infinito” (Warhol,Rizzoli, 2004): le sue immagini “transitavano prima di lui nei circuiti industriali e continuano a transitare dopo di lui. Fra quel prima e quel dopo, l’artista si limita a trattenere e a rifare l’immagine prescelta. Come fanno nei rispettivi settori e con metodi diversi tutti gli artisti pop, Warhol rifà ciò che è già fatto, fedelmente in apparenza, ma occultando in questa apparenza una necessaria misura di frode. Egli riproduce le immagini che si trovano sotto gli occhi di tutti (una delle sue prime rappresentazioni è quella della zuppa Campbell, cibo in scatola di basso costo con cui egli era cresciuto) per sottrarle all’invisibilità e renderle, per una volta almeno, tanto “vedibili” da farcele scorgere e conoscere realmente. Perché è proprio l’oggetto che ci sta di continuo presente davanti allo sguardo che ci sfugge, che non arriviamo a vedere. E di conseguenza, ci sfugge la nostra vita presente, adoperato ora l’aggettivo “presente” in senso temporale e non più solo spaziale” (Alberto Boatto. Art Dossier n.35, pp.15-16). Dunque nel processo meccanico per cui la realtà è così veloce e ripetitiva che ci incamera senza che possiamo averne coscienza, Warhol interrompe la catena di montaggio fordista e sospende l’immagine costringendoci-invitandoci a guardarla.

Le scelte iconografiche di Warhol sono sempre frutto di intuizioni vincenti, costruendo una “vera e propria antologia del suo presente: divi del cinema, prodotti e bevande alimentari, fino ad autentici capolavori come il Cenacolo di Leonardo da Vinci, tutti i suoi soggetti sono stati democraticamente trattati con tecniche nuove, prodotte dai linguaggi della contemporaneità, e trasformati in opere dall’eco potente, riconoscibili a tutti e con un impatto figurativo nuovo, contribuendo in modo determinante a definire e a trasformare il moderno concetto di icona, lontana dall’accezione religiosa.

Andy Warhol, figlio di immigrati di origine ruteno-slovacca (il padre era minatore e morì prematuramente, la madre conosceva pochissimo la lingua inglese) rappresenta egli stesso una delle icone della cultura americana; un uomo che è stato più volte definito il padre dell’arte contemporanea, che ha cambiato per sempre la figura dell’artista e ha avvicinato il grande pubblico all’arte.

Il laboratorio artistico di Warhol, “The Factory” era situato a Manhattan in un edificio sulla 47esima strada (tra il 1962 e il 1968, poi si spostò in altre due locations). Nella conservatrice New York degli anni ’60, un’officina metropolitana di idee, un luogo di produzione culturale e di connessione tra artisti e personalità varie, dove l’arte si fondeva con la vita, dove si dipingeva, si componeva musica, si giravano film, si facevano feste di ogni tipo, sperimentando. Si potevano incontrare Lou Reed, Jim Morrison, Truman Capote e Mick Jagger, altri visitatori più occasionali includevano Salvador Dalí, Allen Ginsberg, David Bowie, Liza Minelli e molti altri.

Warhol collaborò nel 1966 con la rock band newyorkese di Reed, i Velvet Underground (che utilizzavano la Factory come studio per le prove) e produsse il loro album di debutto The Velvet Underground & Nico, “suggerendo” una delle sue muse, l’algida cantante e modella tedesca Nico e disegnando e ideando anche la celebre copertina che raffigurava una banana plastica, in quello che tuttora è considerato uno dei dischi più importanti, influenti ed acclamati della storia della musica, avendo gettato le basi per una moltitudine di generi venuti dopo (come punk, new wave, indie rock) e avendo introdotto tematiche innovative nei testi che lo compongono, mai affrontate prima in maniera così esplicita, come la vita metropolitana, la sperimentazione sessuale, le droghe di ogni tipo, insieme ad alcuni riferimenti letterari.

Lou Reed e John Cale registreranno poi nel 1990 un bellissimo (forse poco conosciuto, ma considerato uno dei loro migliori dischi) concept album interamente dedicato al loro mentore, morto nel 1987, Songs for Drella (da uno dei soprannomi di W. un blend tra Dracula e Cinderella), che ripercorre un po’ la vita dell’artista, stando ben lontani dai tranelli della “agiografia”: un opera magistrale che colpisce per l’intensità lirica e poetica che traspare.

La Factory era anche il luogo in cui W. iniziò a sperimentare la tecnica della fotoserigrafia, ovvero un procedimento in cui il punto di partenza è una fotografia, trasferita su telaio di legno e tela, spesso seta, matrice per infinite stampe, attraverso il quale si fa passare l’inchiostro.

«Non è la vita una serie di immagini che cambiano sempre eppure sempre si ripetono?»(A. Warhol)

Questo procedimento garantiva all’artista la riproduzione di un disegno tante volte quante desiderava, sempre uguale a se stesso, sia su diverse tele, sia sulla medesima. Come ben sintetizza Bonami, il concetto della ripetizione è legato molto alla realtà in cui viveva l’artista nato e cresciuto a Pittsburgh, dunque alla società industriale, ma anche alla nostra società, al nostro modo di “produrre”, ma evidenziando che l’esclusività (dell’oggetto) non era il focus, bensì l’importante era, ieri come oggi l’accessibilità materiale e la fruibilità dello stesso.

W. amava circondarsi di personalità bollate spesso come borderline, talvolta prese proprio dalla strada, che partecipavano ai suoi processi creativi, venendone il più delle volte risucchiate. Edie Sedgwick, la Femme Fatale (a cui è ispirata l’omonima canzone) della Factory, che proveniva da una delle famiglie wasp più in vista degli USA, ne è solo l’esempio più famoso.

« … E’ sempre più chiaro che l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi. L’arte è per tutti, e questo è il fine a cui voglio lavorare.» (Keith Haring)

Molti i giovani artisti di cui Warhol individuò le potenzialità da Jean-Michel Basquiat, a Keith Haring (esponenti della street-art nella New York anni ’80) a Julian Schnabel. Basquiat (l’enfant terrible del mondo dell’arte, primo artista afroamericano celebrato nel mercato internazionale) è stato uno dei primi a contribuire a rendere il graffito una forma d’arte, diventando leader di un nuovo genere di pittura neo espressionista: il suo universo è una miscela di mitologie sacre, cultura voodoo, fumetti, pubblicità. Attraverso una gestualità pittorica, piena di vitalità, definisce una controcultura urbana, anarchica, che descrive la vita in strada, lo sfruttamento nel mondo del lavoro, attaccando profondamente la struttura della società americana razzista e con retaggi ancora di matrice coloniale.

(Jean-Michel Basquiat – Untitled – History of the black people)

 

Oggi un epigono e per molti critici “erede” di Warhol è il potente Jeff Koons (nel novembre 2013 la sua Balloon Dog è stata venduta per 55 milioni dollari, diventando l’opera più costosa di un artista vivente battuta all’asta) che ha trasformato il kitch in arte, mettendo a nudo proprio questo lato del nostro attaccamento all’oggetto.

L’artista definito “Post Human”, in linea con la tendenza novecentesca a fondere arte e vita, in un connubio in cui scultura biologica e materica dissolvono il confine tra realtà e artificio, è diventato l’emblema del conservatorismo neoliberista che permea la sua arte “sazia”, completamente avulsa da qualunque elemento conflittuale.

W. ha “giocato” provocatoriamente ma anche cinicamente con i personaggi del momento, della sua epoca: Marilyn (ad esempio il famoso fotogramma della diva venne fuori subito dopo la sua morte, nel 1962, da un ritratto pubblicitario del film Niagara), Jackie Kennedy (ritratta al funerale di JFK), Liz Taylor (il cui ritratto comparve in occasione di una sua grave malattia), Elvis e moltissimi altri, rendendoli delle icone definitive famose ancora oggi, ma contribuendo ad infoltire tutta una serie di prodotti di qualunque genere, oggetti (magliette,orecchini,borse…) di puro merchandising.

Un suo merito è quello di aver spaziato in molti campi artistici creando sinergie varie tra arte pittorica, fotografica, musica, cinema. Ma chissà quanto tempo avrebbe risparmiato, Andy Warhol se avesse avuto nelle sue mani Instagram. Oggi basta un click per trasformare un proprio selfie in un’icona pop; i famosi 15 minuti di celebrità che tutti possono ottenere nella propria vita che preconizzava già cinquant’anni fa l’egocentrico artista. Le immagini diventano in un certo senso l’ossidazione di desideri fissati dalla luce e dalla chimica: organismi viventi.

Nello stesso tempo, è proprio la volontà di caricare, di sovraesporre (anche ironicamente), di saturare di senso le icone, i miti, i cliché fino a farli esplodere, ciò che ci consente di liberarci di essi e di distruggere quel senso “comune” che essi spesso intendono comunicare.