MONDO

Abusi e silenzi nell’accademia postcoloniale. La necessità di una lettura femminista dei saperi

Materiali su saperi, #MeToo e “la lista indiana” in occasione del 25N

Anche se le discussioni più accese su social e nella vita reale sono avvenute in seguito all’esplosione del #MeToo e dell’affaire Weinstein, che in Italia si è tristemente tradotto nel rispolvero della logica del victim blaming (a volte travestito da riflessioni dal dubbio tono nostalgico-femminista), è stata “la lista indiana” ad aver suscitato un grande scalpore nei circoli accademici e, più in generale, nel mondo intellettuale internazionale. Circa un mese fa, una giovane studentessa di legge indiana, Raya Sarkar, ha pubblicato una lista di oltre 60 nomi di docenti che studentesse, ex-studentesse e colleghe hanno indicato come molestatori. Tra i nomi, se ne trovano alcuni di enorme fama, come quello di Dipesh Chakrabarty, studioso rinomato in tutto il mondo per i suoi contributi alla teoria post-coloniale e ai Subaltern Studies, che incarnano un progetto politico di solidarietà radicale con “coloro che non hanno una voce” ovvero con tutte le soggettività la cui voce è appunto schiacciata dall’interazione di molteplici architetture di oppressione, tra cui anche quelle derivanti dall’identità di genere e dalla divisione gendered del lavoro.

Pochi giorni prima dell’uscita della lista, Christine Fair aveva citato lo studioso in un articolo pubblicato su Huffington Post nel quale dettagliava le sue memorie di abusi e violenze subiti. In quell’articolo, intitolato #HimToo: A Reckoning. An open letter from a senior academic to some of the men in her life who abused, assaulted, or harassed her and the women who enabled them (#Anchelui: la resa dei conti. Lettera aperta da parte di una professoressa ad alcuni degli uomini che durante la sua vita hanno abusato di lei, l’hanno assalita o molestata e alle donne che li hanno aiutati), Fair racconta di come la sua permanenza all’università sia stata caratterizzata dal ricorrere di atti violenti compiuti su di lei o contro di lei da parte di uomini – professori, colleghi e studenti – che potevano esercitare un qualche potere, dato loro dalla gerarchia accademica o dal sapere di essere in un ambiente che non avrebbe sanzionato i loro atti nei suoi confronti. Tra di questi, Chakrabarty appunto, che Fair mette al centro delle sue memorie personali, descrivendone lo status di “impunibile” che gli ha permesso di agire e prendere decisioni in maniera arbitraria in materia di assunzioni, per esempio, senza incorrere in sanzione alcuna.

Circa un mese fa, una giovane studentessa di legge indiana, Raya Sarkar, ha pubblicato una lista di oltre 60 nomi di docenti che studentesse, ex-studentesse e colleghe hanno indicato come molestatori. Tra i nomi, se ne trovano alcuni di enorme fama

Per molte di noi, la presenza di Chakrabarty in quella lista è stata un risveglio brusco. Shraddha Chatterjee, nell’articolo che proponiamo di seguito, pone a questo riguardo una domanda che ci sembra centrale: perché il lavoro di tanti intellettuali il cui contributo è stato fondamentale per lo sviluppo del pensiero critico può diventare così controverso quando osservato a partire dalle relazioni che questi hanno intrattenuto nel corso della loro vita?

Il non detto che si nasconde dietro a questa domanda è ancora più importante, perché l’altro aspetto della questione è chi decide quale contributo è fondamentale per la nostra società ­– quali strutture di potere invisibili e cristallizzate decidono quale sapere sia fondamentale e quale trascurabile, e soprattutto chi ha il potere di decidere se sia più importante credere al trauma di una giovane donna o all’immunità di chi viene accusato. Sono queste le domande scomode e divisive che “la lista” ha contribuito a fare emergere. Il testo di Shraddha Chatterjee si sofferma precisamente su queste domande e lo fa a partire da una posizione scomoda, come quella di Raya Sarkar, giovane donna di discendenza Dalit che ha per anni ha osservato dal basso della gerarchia castale il patriarcato su cui si struttura il potere delle università indiane, costringendoci, grazie alla potenza della sua narrazione, a prendere atto degli smottamenti e dei conflitti che attraversano l’accademia e il pensiero critico. Il problema, infatti, non è solo o tanto Chakrabarty. Notizie simili arrivano da Oxford, vedi il caso di Tariq Ramandan, e anche volgendo lo sguardo al passato la situazione non migliora, al contrario, lo sviluppo del pensiero critico pare puntellato da episodi di violenza che hanno per protagonisti i perni intoccabili del pensiero moderno e contemporaneo. Come scrive Shraddha Chatterjee, « ‘Althusser ha ucciso sua moglie, ma…’, ‘Neruda ha stuprato la sua cameriera, ma…’, ‘Derrida non ha riconosciuto il figlio che ha avuto con una donna che non era sua moglie, ma…’, e così via». Eppure, «anche quando questi avevano a proprio carico accuse gravi, queste venivano spazzate via non appena pronunciavi il loro nome».

Non stupirà, dunque, che appena pubblicata, la “lista indiana” sia stata fortemente criticata e esposta a pratiche di delegittimazione non soltanto per mano dei poteri forti o delle autorità accademiche. A mettere in discussione la credibilità delle denunce sono state anche colleghe donne impegnate nello sviluppo di studi femministi e post-coloniali.

La critica era rivolta alla scelta di usare come forma di denuncia i social media, senza seguire un iter amministrativo-legale “tradizionale”. A questa concezione tipicamente liberale del diritto, astratta nella sua perfezione, Raya e le colleghe indiane hanno contrapposto la materialità delle asimmetrie di potere, articolando non solo una azione politica e di denuncia, ma anche una riflessione su come il garantismo legalista possa essere una arma di silenziamento e di oppressione per chi trova difficile l’accesso alle procedure tradizionali. Il problema, secondo loro, sono le ragioni del successo delle tattiche di silenziamento e de-legittimazione che vengono opposte alle denunce di abuso: «Potrebbe essere che le vittime non hanno detto nulla per anni perché gli uomini che hanno abusato di loro hanno un capitale sociale enorme, e sarebbero in grado di decretare il loro destino professionale e non solo? Sono uomini e studiosi citati ovunque, da chiunque, dalle cui lettere di raccomandazione dipende la possibilità di prendere un lavoro o perderlo. Ancora oggi, queste donne hanno paura a parlare o ad approcciare un ufficio per fare una denuncia formale a causa del clima largamente apologetico verso gli abusi sessuali in accademia, e a causa della delegittimazione che ogni denuncia incontra, e che ha lo scopo di proteggere la reputazione di colleghi e amici all’interno dell’università».

Nel proporre una riflessione femminista che mette insieme gerarchie di genere e di casta, inoltre, Raya ha osservato come «le persone appartenenti alle caste più prestigiose che hanno creato e sviluppato le teorie post-coloniale e femminista stiano oggi fallendo, coscientemente o meno, nel riconoscere il proprio capitale sociale, il proprio privilegio di casta e di genere contribuendo così a perpetrare il sistema di privilegi che denunciano nel loro lavoro intellettuale e di ricerca. Il femminismo Dalit (di casta considerata inferiore) non esiste? Perché? Perché questa volta siete voi a opprimere, e non lo sono i bianchi? Perché il femminismo black esiste, ma non quello Dalit? Scommetto che quando Audre Lorde, Bell Hooks o Angela Davis scrivevano i loro libri, c’erano schiere di femministe bianche che urlavano che il femminismo black non esiste». Oltre a portare avanti una critica strutturale alla produzione di sapere accademico e del pensiero critico, queste studentesse continuano il lavoro di generazioni di femministe e di decenni di riflessione femminista, e chiedono che coloro che si fanno portavoce di istanze di cambiamento e solidarietà vivano secondo gli standard morali che il loro lavoro intellettuale promuove, denunciando quindi una appropriazione predatoria di storie e tradizioni politiche con lo scopo di estrarne valore immateriale (una scholarship innovativa, credibilità scientifica) da scambiare sul mercato accademico per accumulare potere materiale (posizioni di potere decisionale, far parte di commissioni per il reclutamento e spartizione di risorse economiche).

È per tutte queste ragioni che questo dibattito ci è parso importante.

Non ci interessa arrivare a una conclusione, ci interessa che questo dibattito esista come espressione stessa della nascita di una voce femminista e radicale che ha il coraggio di guardare alle strutture di potere che esistono e sembrano essersi cristallizzate anche nel pensiero critico. Se è vero, come scrive Shraddha Chatterjee, che le parole hanno un peso diverso a seconda di chi le pronuncia, e se è vero che dietro a ogni parola esistono le diseguaglianze strutturali della società, allora le parole delle giovani donne e studentesse collocate, spesso, per origini, al punto più basso della tradizione castale ci paiono le prime voci a cui dare solidarietà, esattamente come scegliamo di essere consapevoli delle condizioni di ricattabilità in cui vivono le nostre colleghe che lavorano in università con contratti precari e instabili, e che sono quindi esponenzialmente più esposte ad abusi di vario tipo (anche di natura sessuale), e a tutte quelle persone gender non conforming che non si riconoscono in una divisione binaria del genere e vivono sulla loro pelle le conseguenze del potere maschile e eteronormativo che struttura le università e le istituzioni. Questo non significa fare un atto di fede, ma più semplicemente porre in evidenza l’asimmetria di potere all’interno della quale nascono tanto gli arbitri quanto il silenzio quanto l’immunità. Tutto il victim blaming che ha monopolizzato il dibattito in Italia, da questo punto di vista, ci pare un sintomo di quanto queste strutture di potere siano cristallizzate anche dentro la nostra società, anche dentro i saperi a cui ci riferiamo, anche dentro le accademie, e queste strutture ci piacerebbe metterle in discussione proprio a partire da contro-narrazioni trans-femministe come quella che proponiamo di seguito.

 

Proponiamo di seguito la traduzione di un articolo di Shraddha Chatterjee, studiosa di Gender Studies, dal titolo Some Thoughts on The List. Proponiamo altri due articoli da leggere e su cui meditare: Christine Fair, #HerToo: A Repine on “Shitty Feminists”, Tenacious Hellpussy, e Graham Towl and Kelsey Paske, The Weinsteins of academia can no longer be tolerated, Times Higher Education.

 

 

 

 

Shraddha Chatterjee, Some Thoughts on The List, Wildcat Dispatches for Dangerous Times.

 

Due settimane fa, Raya Sarkar ha stilato una lista (non più disponibile su Facebook) di nomi che ha travolto come una tempesta l’accademia indiana. Questa lista arrivava all’indomani dell’inizio della campagna #MeToo nata in seguito alle accuse di molestie sessuali contro Harvey Weinstein, e comprendeva docenti di sesso maschile che si diceva avessero violentato, molestato o violato il consenso dei propri studenti. Da allora, un’altra lista, curata principalmente da Dalit, Bahujan e donne Adivasi (di seguito DBA), ha accusato di molestie sessuali gli attivisti e alcuni studenti che si occupano di questioni di casta. In questa settimana, Raya Sarkar, dopo aver aggiunto circa 70 nomi all’elenco, ha cancellato il suo account Facebook e la lista curata dal DBA è già stata cancellata. Scrivo questo come persona che ha studiato con alcuni dei professori citati nella lista di Raya e che ne conosce altri nella lista curata dal DBA. Queste non sono le mie ultime riflessioni sul tema, le altre le svilupperò in un numero speciale della Annual Review of Critical Psychology sul tema: Sex and Power in the University.

 

Ho iniziato a tenere traccia del comportamento degli uomini nel mondo accademico molto tempo fa, dopo aver vissuto circostanze nelle quali i docenti erano diventati dei mostri e l’aula uno spazio insicuro, anche se questo mi è chiaro solo in retrospettiva. Come studentessa di scienze sociali, ricordo occasioni in cui parole di intellettuali bianchi maschi e deceduti sono diventate sinonimo d’intelligenza, anche quando questi avevano a proprio carico accuse gravi che venivano spazzate via non appena pronunciavi il loro nome – “Althusser ha ucciso sua moglie, ma…”, “Neruda ha stuprato la sua cameriera, ma…”, “Derrida non ha riconosciuto il figlio che ha avuto con una donna che non era sua moglie, ma…”, e così via. Quando mi hanno impartito le loro teorie e i loro testi come se non potessero essere oggetto di critica, non mi sono resa conto che mi veniva impartito anche un altro insegnamento simultaneo, ovvero che tale trattamento delle donne (omicidio, stupro, non riconoscimento) era ordinario, atteso, quasi banale, e che l’accademia – la sede stessa della trasformazione sociale – era uno spazio in cui io non ero benvenuta, e altre come me. Mi stavano inconsciamente insegnando quale fosse il mio posto, un punto e virgola inesistente nella storia, mentre mi insegnavano anche il femminismo, la teoria critica e il post-strutturalismo. Con il pretesto di darmi l’opportunità di avere voce, mi veniva insegnato anche quello che potevo dire e quello che non potevo dire.

Poco dopo, appena avevo iniziato a sentirmi sicura all’università e protetta nel mio ruolo di eccellente studente, motivata e laboriosa, mi sono resa conto che la mia ambizione e il mio desiderio di imparare avrebbero finito per danneggiarmi, se non avessi riconosciuto il potere che i miei professori, spesso maschi, avevano. Non si trattava solo di feudalesimo accademico, in base al quale ci si aspetta che gli studenti siano fedeli alle teorie dei loro docenti (spesso maschi). Si trattava anche della fedeltà che le studentesse, in maggioranza nella popolazione studentesca, erano tenute a dimostrare a letto ai loro professori (spesso maschi). Se non fossi rimasta “al mio posto” in classe (che era spesso uno spazio che rifletteva la politica sessuale di un professore e il posizionamento di una studentessa in camera da letto), se non avessi appagato l’ego di coloro che erano pagati per conoscere più di me, se avessi progredito più velocemente di quanto loro volevano, mi avrebbero mostrato ancora una volta il mio posto sia attraverso la manipolazione che attraverso vere e proprie dimostrazioni di potere, il tutto mentre queste stesse persone imputavano a se stessi i miei successi. Che cos’è uno studente, infondo, se non l’argilla che viene plasmata dalla brillantezza dei suoi insegnanti?

Quando mi sono resa conto di ciò che mi era successo, di ciò a cui ero stata costretta, delle modalità in cui mi avevano fatto credere che “il mio posto” fosse essere l’ancella di uomini sempre più brillanti di me, cominciai anche a capire come io stessa fossi stata parte del problema – il mio entusiasmo, la mia eccellenza, la mia preparazione erano stati usati per mettere a tacere gli altri studenti. Per ogni volta in cui mi sceglievano come studente con un grande potenziale, solo per essere plasmata e infilata in gerarchie dove potevano sfruttarmi, c’erano molti altri a cui tale opportunità non veniva data.  Anche se ho sofferto per due anni prima di trovare un angolo sicuro da cui poter parlare senza essere immediatamente attaccata, è vero che io sono sopravvissuta mentre Rohith non ha potuto; io mi sono laureata a pieni voti mentre Akunth ha fallito; sono riuscita a entrare in un programma di dottorato mentre Swapna e Sucheta non andranno mai all’università.

Queste liste, per me, illustrano perfettamente quanto l’università sia pericolosa per gli studenti. Quanto siano vuote le teorie politiche e critiche della trasformazione, perché coloro che le insegnano non sono obbligati a crederci, né sono tenuti a insegnarle nella loro pratica. Nelle aule giudichiamo i meriti degli studiosi in base a ciò che scrivono, a quanto pubblicano e a chi conoscono, ma non discutiamo mai delle loro scelte personali di vita, come negoziano la loro condotta con sesso e potere nell’università e nel mondo. L’università fallisce nella misura in cui i suoi docenti non sono tenuti agli standard delle teorie che insegnano e fallisce nella misura in cui rende gli studenti ciechi verso le dinamiche di potere che avvengono all’interno delle loro aule. Come può il femminismo salvare gli studenti, quando sono gli uomini sulla lista a insegnare loro facilmente, palesemente e consapevolmente ciò che vogliono, usando l’illusione della trasformazione e della sicurezza come arma di seduzione?

Molti hanno scritto che questi elenchi sono problematici. Le femministe si sono opposte perché tali liste non seguono il giusto iter giudiziario e perché le accuse sono anonime. Per me, la rilevanza di queste liste non è legale – spesso le studentesse si trovano in posizioni di debolezza, e le denunce per le molestie sessuali nei comitati disciplinari interni sono impossibili. Prendere la via del ricorso legale significa anche fornire prove legali che le molestie o le violazioni hanno avuto luogo, ma spesso le prove di tali fatti non sono ammesse nei procedimenti giudiziari, spesso le studentesse sono offese, ridicolizzate e delegittimate, e spesso le denunce mettono fine alla carriera accademica delle studentesse, proteggendo il potere degli uomini accusati. Le dimissioni di Sara Ahmed dalla Goldsmiths University sono state una occasione importante di apprendimento per le femministe che ancora credono nell’equità del risarcimento legale e nel mito dell’imparzialità accademica. E anche quando uno studente ignora le commissioni universitarie e si rivolge direttamente a un tribunale, spesso la situazione non cambia: la sentenza Mahmood Farooqi è un chiaro indicatore di quali strutture vengano protette dai meccanismi legali. I tribunali rendono continuamente sfocata la linea di demarcazione tra il consenso e lo stupro, mentre nella realtà queste linee non sono sfocate affatto.

Se queste liste sono problematiche è perché si tratta di voci. Le voci sono infedeli: possono essere usate contro i docenti quando studenti disperati le raccolgono dai corridoi, ma possono anche essere usate contro le studentesse. Le voci hanno tanto potere quanto ne ha chi dà loro voce: per essere efficaci, queste liste avevano bisogno di molti nomi, e quindi delle testimonianze di molte studentesse, ma per distruggere una studentessa basta la parola di un solo docente, se è vendicativo o maligno. Come alcuni hanno sottolineato, nei sistemi accademici dove le raccomandazioni contano, avere contro un membro della facoltà può significare l’esclusione dal mondo accademico. Inoltre, a volte le voci non arrivano alle studentesse in tempo, a volte le voci arrivano solo dopo che la molestia è già accaduta, e diventano un altro #MeToo. Una volta fuori, nel mondo, le voci pronunciate non possono più essere controllate, e non proteggono più chi le ha pronunciate e fatte circolare.

In ultima analisi, nonostante i loro problemi, queste liste esistono; il fatto che siano state scritte e cancellate mostra quanto disperati siamo diventati, come studenti e come studentesse, e quanto impotenti ci siamo sentite per aver dovuto ricorrere a questo metodo solo per condividere un avvertimento: STATE ATTENTE A QUELL’UOMO. Perché, dopo tutto, questi elenchi sono solo un avvertimento. Non credo che queste liste siano tese a diffamare, disonorare o escludere le persone che vengono nominate. Questi elenchi sono, molto semplicemente, una misura disperata che dimostra come siano diventati pericolosi i contesti universitari. Queste liste sono nate per rompere l’illusione che l’università sia un luogo pacificato e per rompere l’ingenua fiducia degli studenti e delle studentesse nei loro leader della trasformazione sociale. Questi elenchi sono un modo per ricordarci che la nostra politica deve sopravvivere di fronte alla disperazione. Io credo alle voci che hanno contribuito a compilare quella lista, perché non credere è, per me, un fallimento non solo del femminismo, ma della mia capacità di ascoltare la mia stessa esperienza dell’università. Sappiamo tutti come l’università sistematicamente distrugga il ponte che conduce a qualsiasi reclamo contro i docenti – sia questo per fatti di natura sessuale o meno.

La lista potrebbe non essere il modo più femminista per parlare di università, perché non onora e non riconosce il duro lavoro del femminismo per rendere l’università uno spazio sicuro. Anzi, la lista è direttamente contro questa eredità. In effetti, essa esiste perché, nonostante tutto ciò che il femminismo ha fatto per noi, il femminismo non è riuscito a rendere sicuri per tali discussioni gli spazi universitari, figuriamoci per ripensare l’idea stessa di università.

 

Shraddha è una studentessa di dottorato che si occupa di studi di genere e femminismo. Il suo libro, Queer Politics in India. Towards Sexual Subaltern Subjects, sarà pubblicato nel 2018.

Fonte: http://wildcatdispatches.org/2017/11/06/shraddha-chatterjee-some-thoughts-on-the-list/