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Ogni 20 di aprile. Paul Celan, le date, la fine

Il 20 aprile del 1970 Paul Celan muore suicida gettandosi nella Senna. Qui se ne ripercorrono la poesia, la lingua, l’ossessione per le date e per le coincidenze

Il 20 aprile di venticinque anni prima, proprio quel giorno, le radio tedesche avevano blaterato ancora del Paese stretto accanto al suo Führer che «oggi compie gli anni», cinquantasei di giovinezza ariana, cinquantasei al servizio del Reich millenario. Il Reich era attraversato in lungo e in largo dagli eserciti alleati, i tank sovietici si approssimavano a Berlino, ma Goebbels aveva dato il solito ordine alla radio. Non importavano le fosse comuni e le esplosioni, la «raccapricciante distesa di rovine» che era la Germania, non importava: come ogni 20 aprile la Germania si stringeva attorno al suo Führer.

Nelle ossessioni, nelle ripetizioni mentali che ne caratterizzavano le parole, i comportamenti, i giochi con le date, le coincidenze avevano un rilievo inaudito per Paul Celan. Un rilievo inaudito eppure scomodo, come tutti gli irrazionali che le creature razionali riconoscono in sé. Celan le aveva imparate a gestire – le date, le coincidenze. Amava mascherarle all’interno di fitte trame di relazioni tutte logiche, tutte storiche, per inquadrarle e renderle accettabili in un discorso pubblico come pure la poesia è.

Come quando a Darmstadt, nel 1960, aveva stupito la platea che gli assegnava il Premio Büchner, con una frase che a suo sentire spiegava tutto. La pronunciò con un segno di domanda, ma era una domanda retorica. «Forse si può dire che ogni poema reca inscritto il suo “20 gennaio”?».

Avrà guardato la platea, Paul Antschel, ebreo bucovino di lingua tedesca in un’enclave austriaca poi ucraina, poi rumena poi sovietica poi occupata dai tedeschi, e quindi esule a Bucarest col nome di Paul Ancel e poi Celan, prima a Vienna e poi a Parigi. Avrà guardato il pubblico riunito nell’Accademia e avrà letto negli occhi dei letterati la soddisfazione, il luccichio, finalmente. Perché certo: «Den 20. Jänner ging Lenz durchs Gebirg, il 20 gennaio Lenz se ne andò per i monti». Lo sanno tutti – è l’inizio del Lenz di Büchner. E in fondo Celan aveva parlato di Lenz sin dal principio di quello strano discorso – una replica a modo suo della Relazione a un’Accademia di Kafka («non ho fatto che riferire, non ho fatto che riferire»), dimessa eppure tragica.

E quindi Lenz, il Lenz creato dall’autore cui era dedicato il premio di quella sera, il 20 di gennaio andava per i monti. Ma chiaramente Celan, con la pacatezza apparente del suo tedesco orientale asburgico, residuo di un’altra era, intendeva parlare, quella sera del 1960,di un altro 20 gennaio. Celan – che aveva letto Adorno parlare della legittimità dell’arte dopo Auschwitz – stava dettando condizioni alla poesia e quindi a se stesso: occorreva tentare «con la massima chiarezza possibile», disse quella sera Celan, «di non smarrire il senso di queste date». In realtà lo disse ancora in forma dubitativa, in forma di domanda. Ma l’intenzione era chiara. Bisognava parlare del 20 gennaio 1942.

Della conferenza del Wannsee, quando tutte le H del regime (Hitler Himmler Heydrich)  sancirono la Endlösung della questione ebraica. Le H decisero che, per risolverla del tutto, la questione, ovunque in Europa vi fosse un presidio tedesco, ovunque gli ebrei (ma insieme a loro anche tutti i diversi, gli oppositori politici, i rom, i sinti e gli omosessuali – cui Celan non risparmiava pessime battute, per lettera, altro che historia magistra) andavano reclusi nei campi e fatti lavorare. E una volta ridotti allo stremo, andavano portati altrove in altri campi e sterminati. Così Celan fu preso e fatto lavorare – spostò pietre per costruire un Lager. E sopravvisse. Anche i suoi genitori furono presi. Fatti lavorare. Stremati. Poi uccisi – uno dal tifo, l’altra da un colpo alla nuca perché «inabile al lavoro».

Ecco il “20 gennaio” autentico, il trauma che sgorga in ogni poesia di Celan, l’epigrafe perenne iscritta nelle sue ossessioni poetiche. Ecco la data che risuona nelle sue metafore più materiali, più tremende: gli occhi ovunque, le pietre ovunque come gli occhi, dietro gli occhi, le trame vegetali e minerali di decine di componimenti. O le mandorle che chiudono Papavero e memoria, la prima raccolta – la faida tra il desiderio di ricordare e l’ansia di dimenticare (di assumere l’oppio del titolo), a dire l’insostenibile senso di colpa di esserci ancora, quando gli altri sono stati eliminati, ausgemerzt.

Conta le mandorle

Conta quel che era amaro e ti ha tenuto sveglio

Conta anche me

Io cercavo il tuo occhio, quando l’hai sbarrato e nessuno ti ha rivolto lo sguardo.

 

E la richiesta finale, che chiude la raccolta poetica del 1952, rivolta a quell’occhio sbarrato che non ricambia più la vista, rivolta a se stesso.

 

Fammi amaro.

Contami tra le mandorle.

 

Ecco, tra i tanti esempi possibili, un componimento che reca quella data iscritta nella sua traccia.

Eppure a Darmstadt Celan, sempre in forma di domanda, continuò. Invece di richiamare ancora la poesia e i suoi compiti, parlando di date nominò la “sorte”. «Ma non è forse da queste date che deduciamo la nostra sorte?». La poesia non c’era più. Non c’era più il 20 gennaio. C’era un’ultima domanda: «e a quali date la votiamo?». Già, la sorte, a quali date la votiamo?

Celan fece una pausa, lì a Darmstadt, poi riprese a parlare di poesia, ricominciò il discorso sulla missione poetica dopo Auschwitz. Dopo le domande, le esclamazioni: «Ma il poema parla, vivaddio! Non smarrisce il senso delle proprie date, eppure – parla. Certo, parla sempre e soltanto, rigorosamente in prima persona». Parlare, appunto, a partire dalle date.

Dopo quella conferenza, Paul Celan passò anni durissimi, entrando e uscendo dalle cliniche psichiatriche, ma anche componendo poesia sempre più ermetica, più alta, più dura. E s’innamorò ancora, viaggiò, sorrise, incrociò figure decisive del Novecento tedesco, era in difficoltà eppure parlò. Incontrò anche Heidegger: il suo pensiero l’aveva affascinato, come aveva attirato Ingeborg Bachmann. Ma rifiutò, con gesto chiaro e scortese il giusto, di farsi ritrarre in foto con lui.

Infine, nei primi mesi del 1970, dopo un viaggio in Israele tante volte rimandato, dopo un ultimo viaggio in Germania, che non era la sua patria, ma dove si parlava la lingua in cui aveva deciso di scrivere (lui che di lingue ne padroneggiava una decina), nei primi mesi di quell’anno tondo in cui avrebbe fatto una cifra troppo tonda d’età, lui così “amaro”, “innumerabile”, dalla Germania tornò un’ultima volta a Parigi.

L’aveva detto: è il poeta che parla, che non perde i fili, che tradirebbe le date se non parlasse in prima persona. E quindi, quando deve votare alla sorte ciò che ha di più caro, quando deve scegliere come togliersi la voce, il poeta sceglie un altro 20. Un’altra data, non per fedeltà all’accaduto, ma per entrarle dentro, senza cambiarle senso.

Era il 20 aprile del 1970 e Paul Celan poeta tedesco si tuffò nella Senna dal Pont Mirabeau (il luogo l’aveva “annunciato” in una poesia di otto anni prima). Il suo corpo venne trovato solo molti giorni dopo, tra il 30 aprile e il 1 maggio. Aveva votato la sua sorte, da ultimo l’aveva dedotta dal giorno che aveva visto nascere Hitler. La sorte fece il resto. Perché il mondo seppe che davvero Celan si era votato a iscrivere il suo nome in quella data proprio quando festeggiò i venticinque anni della morte del Führer, il 30 aprile 1945. Per dieci giorni il suo cadavere aveva percorso il fiume – morto per acque eppure ancora vivo, come il cavaliere Gracco di Kafka.

Divenne visibile solo con l’eco del cervello di Hitler in frantumi.

Se in ogni poema resta iscritta una data, anche le date cambiano segno – se hanno poesie scritte dentro a chiedere ragione, a configgersi.

Di Celan ci restano splendide foto, gli occhi profondi, ampi sorrisi.