ITALIA

«Genova, un ibrido ancora attuale». Intervista a Global Project

Genova rappresenta l’evento politico più mediatizzato della storia, non solo dal punto di vista dei canali mainstream ma anche perché esiste uno sterminato archivio di documentazione dal basso

Antonio Pio Lancellotti e Anna Irma Battino, rispettivamente direttore e direttrice di Global Project, hanno vissuto Genova in due modi diversi: il primo, partecipando a quelle giornate del luglio 2001 come mediattivista con il progetto di Radio Sherwood, la seconda iniziando a far politica e giornalismo subito dopo, sull’onda lunga di quell’esperienza.

Il mediattivismo, per loro, è dunque parte essenziale del modo in cui cercano di incidere sulla realtà: dalla storica sede di Vicolo Pontecorvo a Padova in cui nel 1979 nasce la radio, dalla “confederazione mediatica” degli anni ‘90 con Isola nella Rete fino al progetto attuale di informazione di movimento, che consta di un sito web, una televisione e una web radio, l’intento rimane quello di costruire una contro-narrazione politica, di vivere il mondo interconnesso di oggi come uno spazio di conflitto

Partiamo da Genova. Che cosa ha cambiato quell’evento nell’ambito del mediattivismo?

Con Genova siamo di fronte all’evento politico di movimento probabilmente più mediatizzato della storia. In tanti dicono che è lì che è nato il mediattivismo. Dal nostro punto di vista, di certo quello che si sviluppa a Genova è un nuovo approccio ad alcuni supporti mediatici. Se, per esempio, il modo di concepire lo strumento video negli anni ‘80 andava più in un’ottica di archiviazione, nella narrazione delle giornate del G8 l’utilizzo della documentazione video diviene immediatamente politico, perché sviluppa una contro-narrazione simultanea ai fatti.

(foto di Gabrio Mucchi)

Un tale approccio ha fatto sì che quell’evento politico oggi, a vent’anni di distanza, sia ancora oggetto di dispute, uno spazio di contesa. Tutta quella documentazione, cioè, ha dato la possibilità di costruire sulle giornate di Genova una contro-narrazione importante, che rimane valida anche a posteriori. Global Project ancora non esisteva all’epoca e l’area politica di cui facevamo parte si esprimeva attraverso Radio Sherwood, una delle tante esperienze indipendenti che hanno contribuito al media center. Il nome del nostro progetto, però, affonda le radici in quel movimento, rivendicando fortemente il fatto di avere un carattere transnazionale.

Che rapporti c’erano fra le varie aree e soggetti che componevano il media center?

Ci si muoveva come all’interno di una galassia, perché mai come in quella fase la comunicazione rispecchiava un intreccio complesso di soggettività, un flusso moltitudinario che forse non può nemmeno essere racchiuso solo nelle varie “testate” presenti al media center. Pensiamo ad esempio al documentario Blue Sky che è stato girato da mediattivisti non afferenti a nessuna area ed è il video che ha permesso di portare alcuni poliziotti in tribunale.


A nostro avviso è scorretto racchiudere il mediattivismo di quei giorni solo dentro al media center, poiché l’essenza di questo genere di pratica politica consiste proprio nel sentirsi parte di una battaglia più ampia per cui mettere a servizio le proprie competenze. In quel contesto, inoltre, si esce dalla dinamica della contro-informazione, vale a dire da un tipo di comunicazione strettamente militante, che si pone un obiettivo specifico.


Al contrario a Genova – e in questo molto hanno contato gli zapatisti – si assiste a una dialettica tra informazione di movimento e forme di giornalismo più contemporaneo: inchieste indipendenti riescono ad arrivare anche nel mainstream (ne è un esempio il tg5 di Mentana che riprende i servizi prodotti da Indymedia), mostrando così un’ipotesi di narrazione politica nuova e differente.

E, come accennavamo, il substrato culturale di questo passaggio è dato da quanto accade a metà degli anni ‘90 in Chiapas: l’eco delle lotte zapatiste muta le strategie, per cui la tendenza storica dei movimenti verso la conquista del potere si traduce nel tentativo di costruzione di spazi indipendenti e di comunità che li abitino.

Cosa rimane di quel movimento?

Il punto di rottura di quell’anno è stato l’11 settembre, che ha capitalizzato tutta l’attenzione comunicativa: in pratica, dal 20 luglio al 10 settembre movimenti e media mainstream hanno parlato solo di Genova e poi è cambiato il mondo. E, da lì in poi, è risultato difficile reperire tutta una serie di informazioni.


Ci rendiamo conto che le nuovissime generazioni hanno una vaghissima idea di che cosa sia stata la contestazione del G8 del 2001, non hanno vissuto quell’evento. Chi era adolescente immediatamente dopo Genova sviluppava, anche solo per sentito dire, una consapevolezza critica su quello che era successo, ma oggi mancano i punti di riferimento. Tutto ciò rischia di essere molto limitante e pericoloso. Perciò è fondamentale non soltanto parlarne in termini di memoria, ma far capire com’è cambiato il mondo in vent’anni.

(foto di Gabrio Mucchi)

In questo senso, potremmo dire che i social sono stati molto utili, perché permettono a chi non ha vissuto Genova o non ne ha sentito molto parlare di incappare magari in un video delle camionette che entrano sfrecciando nel centro città durante le mobilitazioni e questo crea una spinta a informarsi. D’altra parte però, se il social ti serve a far arrivare un messaggio immediato e risvegliare una curiosità, chi fa comunicazione indipendente non può limitarsi solo a quell’ambito.

Perché da una parte puoi trovare un video o una testimonianza, e bisogna sfruttare questa potenzialità, ma dall’altra parte ci devono essere dei contributi che compongano il racconto articolato di chi ha realmente vissuto e costruito quella grande mobilitazione.

Come mettere in piedi questo racconto?

È evidente che ci siano un’esigenza di sapere e un interesse forte da parte delle nuove generazioni. Mi viene in mente però Eric Hobsbawm, che intende la storia come qualcosa che non è più e invece la memoria come la trasmissione di quello che è ancora: è difficile e molto controverso porre una distinzione netta tra storia e memoria. A nostro avviso Genova, e tutta quella fase storica che a Genova conosce il suo apice, rappresenta uno dei più grandi esempi in cui storia e memoria sono entrambe ancora un terreno conteso, un campo di battaglia.


Si tratta in qualche modo di un ibrido tra storia e memoria, per cui la distinzione fra i due termini è molto più fluida che per altre occasioni: Genova, infatti, rappresenta una storia che non è stata ancora scritta e allo stesso tempo, come dicevamo, c’è la possibilità di attingere a un materiale di testimonianza che non è solo ufficiale, di archivio, ma proviene da una produzione mediatica di stampo indipendente. Questa “contraddizione” è di grande attualità, proprio per l’interesse che suscita, per il suo carattere di conflitto aperto.

Certo, è vero le nuove generazioni mancano forse di punti di riferimento: molti di noi che sono venuti subito dopo Genova hanno avuto dei punti di riferimento concreti, attualizzabili, che appunto era possibile misurare in termini di lotta e continuità.


Ma, al netto di tutto questo, ci sembra che sussista ancora un grande interesse per l’“ibrido Genova”: stiamo comunque parlando del primo movimento post-moderno, che è riuscito a porre rivendicazioni e vertenza legate allo spazio riproduttivo che sono ancora all’ordine del giorno. Inoltre, è il primo a uscire dai canoni dell’ambientalismo tradizionale, a portare in piazza la questione della soggettività migrante così come questioni di stampo femminista ma in maniera diversa dagli anni ‘70.


Si tratta cioè del primo movimento composto da precari e precarie, da una generazione che vive in una dimensione del lavoro completamente diversa e trasformata rispetto a dieci anni prima. È per questa ragione che il succo del discorso politico di quegli anni, quello sì, ha avuto una forte continuità: ci mette di fronte a un passato che poi è molto più presente di quanto possiamo immaginare.

(foto di copertina di Gabrio Mucchi)