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ITALIA

Genova, le immagini e i movimenti. Intervista a Tano D’Amico

«Da Genova siamo usciti con un secolo di carcere e con un ragazzo morto. Ha vinto una visione poliziesca delle immagini, che in fondo è l’origine stessa della fotografia». Tano d’amico spazia dai graffiti rupestri agli smartphone: «il problema non sono gli strumenti, ma cosa si cerca in una foto. Non ci concentriamo sui fatti, guardiamo cosa suscitano. Bisogna ripartire dal teatro greco per riconnettere foto e movimenti»

La foto di copertina è di Claudio Riccio, tutte le altre foto sono di Tano D’Amico

L’intervista è stata pubblicata sul terzo numero della rivista DINAMOPRINT, pubblicata nel mese di giugno del 2021

Per parlare di immagini, vent’anni dopo il G8 di Genova, abbiamo deciso di guardare anche altrove, nel tempo e nello spazio. Dai primi anni Settanta Tano D’Amico ha accompagnato e raccontato ogni fase dei movimenti del nostro paese, con alcune tra le foto più belle che hanno caratterizzato quella storia. «Può un’immagine amare così tanto da cambiare il destino?» si chiede nel suo penultimo libro Fotografia e destino, pubblicato da Mimesis. La sua è una riflessione profonda e poetica che interroga e spiazza. Ascoltare Tano, per chi lavora con le immagini, è sempre istruttivo e mai banale. Ma c’è una condizione: bisogna avere tempo. Per questo, nonostante le difficoltà del momento, decidiamo di vederci di persona, seduti al tavolino di un bar.  A distanza, con i volti coperti come ci è successo in passato durante tante manifestazioni, ci si guarda dritti negli occhi, per affrontare una discussione per niente facile.

Il G8 di Genova, che abbiamo vissuto in prima persona, è stato un evento ipermediatico. In quelle giornate, e poi dopo, mediattivismo e mediatizzazione dall’alto si sono scontrati, con video, foto, radio, articoli. Cosa resta di quelle immagini e di quel movimento vent’anni dopo?

In primo luogo ne è uscito fuori un secolo di carcere e ne è uscito fuori un ragazzo ucciso. Quindi non possiamo dire che per noi è andata bene. Per quanto riguarda le immagini io partirei dal fondo, cioè dall’ultima arringa della difesa in Cassazione. Troppo tardi l’avvocato si è posto il problema e ha parlato di immagini. Ha usato delle belle parole: «Giudici voi state per condannare delle persone per delle immagini a cui voi avete messo le didascalie. Sono istanti di vita distanti tra loro, che voi avete legato assieme, mettendo delle didascalie». Aspettavo queste parole da tantissimo tempo. Ma rappresentavano una sconfitta delle immagini come erano pensate dai movimenti e dagli stessi avvocati. Con orrore aveva vinto la visione poliziesca delle immagini: da una parte e dell’altra si voleva inchiodare l’avversario. Questo è il peccato originale delle immagini.

Come nasce il rapporto tra fotografia e movimenti?

Facciamo un briciolo di storia, le fotografie sono nate proprio per schedare le persone. All’incirca nel 1830 con la nascita delle grandi fabbriche, in cui si concentravano grandi masse di persone, portate via dalle campagne con il ricatto della fame e obbligate a lavorare senza sosta. Così sono nati i primi sabotaggi (da “sabot”, zoccolo, che veniva gettato negli ingranaggi, per sopravvivere). Per controllare gli operai nei reparti inventarono le foto, per schedare i sabotatori. La fotografia è un’invenzione poliziesca.

Le foto vennero vissute come un pericolo dai maggiori artisti dell’epoca. Cito uno per tutti: Charles Baudelaire, che teneva conferenze in cui teorizzava che quell’invenzione avrebbe riportato indietro la coscienza dell’umanità. Perché – sosteneva – se noi prendiamo un attimo di una realtà ingiusta, lo fermiamo e lo perpetuiamo, facciamo l’operazione più reazionaria che ci possa essere. Non aveva tutti i torti. Però c’era un buco in questo ragionamento: Baudelaire non aveva tenuto conto che quell’attimo che con una foto si ferma e si prolunga il fotografo lo può scegliere.

Eppure Baudelaire, che era l’uomo più fotografato della sua epoca (si parla di 600 ritratti), viveva nello studio di Nadar e degli altri fotografi dell’epoca, che con i loro limiti, sono stati tra i più grandi di sempre. Avevano partecipato ai moti del 1848 e alla Comune di Parigi.

Noi siamo schiavi, ma abbiamo persone bellissime che quando sorridono illuminano tutto. Anche se sappiamo che diventeranno vecchi, sdentati e si ammaleranno, in quel momento, che si prolunga per sempre, quelle persone si raccontano. In quell’istante si può leggere il passato, il presente e anche il destino.

Questo passaggio è descritto molto bene nel tuo libro Fotografia e destino, dove spieghi che per fare «una bella foto bisogna aspettare, aspettare, aspettare…»

Sì, è fondamentale la selezione del momento e delle linee. Tutto il ciclo di studi che facciamo purtroppo è basato sulla parola statica. Ci insegnano la divisione tra immagine statica e immagine figurativa, ma questa è una cazzata! Se noi esaminiamo tutte le immagini che ci hanno formato sappiamo che sono tutte astratte!

I quadri di Van Gogh, ad esempio, richiamano esperienze, pensieri, affetti e sono fortemente astratti. Linee, angoli, che parlano di paura, amore, speranze. Sono gli angoli delle persone. Vedendo un’immagine si capisce se il fotografo ha studiato, si sente l’eco delle immagini del teatro greco, del Rinascimento, della Comune di Parigi, di molti pittori. I movimenti sopravvivono nella nostra memoria grazie alle immagini. Esistono dei miei colleghi che mai per tutta la vita hanno mandato in carcere nessuno. Perché non hanno rappresentato il periodo? Non è vero, lo hanno rappresentato benissimo. Io, anche se non voglio parlare di me, in sessant’anni di vita con le immagini non ho mai mandato nessuno in carcere. Né amico né nemico, nessuno.

Nel tuo libro spieghi che le immagini di Genova non hanno avuto vita propria e questo è dimostrato dal fatto che le foto sono state utilizzate nei processi per condannare i manifestanti. Ci sono secondo te invece delle immagini che rappresentano la natura di quel movimento e che non si sono viste?

Non ho mai creduto ai romanzi nel cassetto. Non esistono. Se le foto non sono conosciute, non si dovevano conoscere. E te lo dico io, che nessuna mia foto, per tutta la vita, è mai apparsa su un grande giornale. Ma le conoscevano tutti.

Ma perché le conoscevano tutti? Una volta il regista Mimmo Calopresti in un convegno disse che «le foto di Tano si vedono da lontano». Non perché ero bravo, ma perché mi ero posto il problema. Fin dall’infanzia, quando ero un bambino del sud emigrato a Milano. Eravamo poveri e con i soldi che mi davano i miei genitori per il tram ci compravo i libri e andavo a piedi. Amavo molto stare fuori, ma non avevo i soldi per il flipper, così cercavo ospitalità nei musei. Mi colpivano i manifesti di Toulouse-Lautrec. Per tutta la vita ho ammirato la capacità di farsi vedere da lontano.

Le mie foto si riconoscevano, lo dicevano anche i miei avversari. Quando ho iniziato a lavorare, ma continuavo a essere povero, andavo spesso a trovare il più grande grafico della nostra epoca, il fondatore de “l’Espresso”. Quello che ha inaugurato un genere, pubblicando foto di mezza pagina. Lui era molto interessato alle mie foto, mi teneva ore a parlare, ma non pubblicava mai niente. È un rapporto che è andato avanti per tutta la mia vita. Mi comprava un lavoro all’anno, che poi non veniva pubblicato. Su “l’Espresso” in cinquant’anni sono comparse quattro, cinque foto. Ma mi ha fatto sempre inserire tra le grandi firme del giornale.

L’ultima volta che ci siamo visti, prima della sua morte, gli chiesi: «Perché, quando ero giovane, volevi tagliarmi le gambe?». «Ma ti sei accorto – mi rispose – che ti ho voluto sempre bene? Quello che volevo che tu capissi è che non c’era posto nella stampa per te, per il tuo modo di raccontare. Tu ti sei inventato i tuoi giornali, che non esistevano prima». E infatti è vero, aveva ragione, ho fondato tanti giornali.

Quali sono i giornali che hai contribuito a fondare?

Io ho esordito con “Potere Operaio del lunedì” e già tutti dicevano: «che sono queste foto?». Il grafico era Piergiorgio Maoloni, che amava tantissimo le mie foto, i miei tagli. All’epoca avevo comprato a una svendita una valigetta 24 ore, che avevo riempito con un campionario di mie foto, che potevano servire per tutto. Così, se mi chiamavano nella notte, come un dottore, mi vestivo e andavo da Maoloni – che era stato svegliato anche lui nel cuore della notte – per fare un poster. Il caso più drammatico fu quello del 7 aprile [del 1979 – ndr]. Piergiorgio mi svegliò nella notte per dirmi che c’era un’assemblea all’Università per opporsi a queste retate, che erano state come le retate degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Per il 7 aprile quindi Piergiorgio fece un manifesto così bello, con la mia foto con la ragazza con fazzoletto, verticale, bianco nero e arancione. Iniziarono ad arrivare delle telefonate per dirci che avevano staccato i manifesti, ma non era stata la polizia. Erano le persone che li avevano staccati, ancora pieni di colla, per portarseli a casa. Infatti quel manifesto è nei musei. Ma segna anche la fine di un’epoca, perché quella mattina la polizia fece irruzione nell’Università con i blindati cingolati per impedire lo svolgimento dell’assemblea.

Mi viene da piangere se penso alle notti passate insieme a Piergiorgio, che studiava, mi spiegava i trucchi del suo mestiere. Non era contento delle font esistenti e se le disegnava da solo, su cartone. E non era contento neanche dei colori di base, andava direttamente in tipografia e li modificava. Il rosso di “Potere Operaio” aveva un po’ di nero dentro.

Maoloni non firmò quello che è il ricordo più bello del nostro lavoro insieme, un fascicolo sul ’77, fatto per costare poco. Quando la casa editrice Phaidon mi disse che voleva metterlo in una antologia dei più bei libri di immagini (Photobook), scrivendo che era uno tra i più bei libri di fotografia del Novecento, feci scrivere che il progetto grafico era di Piergiorgio e che lo aveva fatto senza chiedere soldi.

A quali altri giornali hai lavorato?

Ho partecipato alla fondazione di “Lotta continua” e di tanti altri giornali e riviste. Sul “Quotidiano Donna”, siccome era fatto tutto da donne, firmavo in segreto le foto con uno pseudonimo femminile che mi avevano dato loro. Ero Renata D’Angelo, nome di cui sono ancora molto fiero. Poi scoprii che Maoloni aveva disegnato la testata, ma non mi aveva detto niente. Era un giornale bellissimo, tutto fatto da donne.

Cos’è una bella immagine?

Un’immagine che mostra anche le motivazioni, le istanze che si portano in piazza. Ho sempre avuto scrupolo per le immagini di violenza. Anche quando le mostravo. C’è un evento per cui non ho dormito la notte. C’era un gruppo di donne che combatteva per le case, nel senso più fisico. Avevano dormito per settimane in macchina con i loro figli, quando sono arrivati i carabinieri che tentavano di allontanarle con i lacrimogeni. Ci sono delle foto in cui si vedono le donne che rilanciano indietro i lacrimogeni. Avevo il dubbio se pubblicarle, perché le donne commettevano molti reati nelle foto. Poi la guardai bene e dai loro corpi anchilosati, dagli angoli delle loro membra si vedeva che avevano dormito in macchina per giorni. Infatti queste foto uscirono, ma nessuno si sognò mai di portarle in tribunale. Perché da quelle foto si vedeva non solo la bellezza, ma anche la necessità delle loro istanze.

Torniamo a Genova. Perché le immagini non restituiscono le istanze di quel movimento?

I movimenti e le immagini sono sempre andati d’accordo. Sono fatti della stessa cosa: un impegno per la vita e un amore sconfinato per i propri compagni, le persone, il genere umano. Una sorta di offerta libera, che forse qualcuno accoglie. I movimenti sono amore sconfinato per chi è più svantaggiato di te. È quello che ti spinge in strada. È un impegno per tutta la vita, perché sai che ci puoi anche lasciare le penne. Poi certo, alcuni se lo dimenticano. Ma i movimenti e le immagini belle sono fatte della stessa materia.

Quindi è tremendo quando si distrugge tutto, come a Genova. Quel movimento non ha goduto di belle immagini. Non si sa chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Non ha avuto un baluardo di immagini, che lo rendessero “sacro”. La Comune di Parigi, sì. Quando leggo le immagini di Genova vedo una voglia di mercato e un bisogno di carriera. Più sangue c’è e più sei contento. È la prima volta che nessuno si è sforzato di raccontare cosa ha portato le persone a Genova, magari anche un amore. È ovvio che c’è qualcosa di più, ma nessuno si è sforzato. Era un gigantesco safari, in cui anche i tuoi stessi compagni diventano cacciagione.

Ma io ricordo le bellissime foto di Simona Granati, di Stefano Montesi, di Gabrio Mucchi e le tue, Tano…

Ma non bisogna guardare al particolare, alla singola foto, bisogna vedere l’effetto complessivo. E questo si è visto ancora di più nelle sommosse giovanili di Piazza del Popolo (il 14 dicembre del 2010) e piazza San Giovanni (il 15 ottobre nel 2011), dove vennero dati tantissimi anni di carcere a persone che magari avevano tirato solo un sasso. Il problema non erano tanto i telefonini: non sono gli strumenti il problema, ma come si usano. Anche in Svizzera hanno il porto d’armi ma non fanno le stragi come negli Stati Uniti.

Ti ricordi il Pelliccia? Si è preso cinque anni! Il Pelliccia fu buttato in bocca alla polizia dai suoi stessi amici che avevano fatto foto con i telefonini. Addirittura “Repubblica” (un po’ come lo stato cinese dopo Piazza Tienanmen) fece appello alla delazione di massa, chiedendo di inviare le foto al giornale. Così l’umanità ha perso l’anima delle immagini. Questa era la grande paura dei fotografi della Repubblica di Weimar, che il nazismo avrebbe rubato l’anima delle immagini.

Come si è rotto questo rapporto?

Per fare delle foto di movimento devi conoscere la storia dei movimenti. È un tuo dovere. A Genova, per la prima volta nella storia, i movimenti muoiono impiccati alle loro stesse immagini. Guarda al movimento per la pace. Una volta mi sveglio ed eravamo tre milioni in piazza. Poi quando scoppiò la guerra vera, eravamo in 150 in presidio. Le immagini che funzione hanno avuto? Certe hanno dissuaso la partecipazione.

Ecco, a Genova chi ha curato l’anima delle immagini? Nessuno! Tutti hanno prodotto immagini che lavoravano in senso letterale alla realtà. Mi dispiace, ma bisogna dirlo: il risultato è un morto. E, la mafia insegna, che quando c’è un morto è perché è solo. Loro ammazzano un giudice, perché sanno che è solo. Il fallimento delle immagini è in questa concezione di immagine da safari, anche nei video e nelle foto di piazza Alimonda. Dopo anni che quel video è stato visto dappertutto i giudici hanno emesso una sentenza che dice che l’uccisione di Carlo è stata legittima difesa. Quindi erano immagini che non raccontavano l’aggredito, non raccontavano le istanze di Carlo. Qui veniamo agli avvocati. Se ti concentri sulle immagini, perdi. Io ho parlato con chi distruggeva i bancomat. Non volevano prendere i soldi, ma distruggere un simbolo. Se tu accetti quel modo di concepire l’immagine, perdi. Anche l’idea di filmare gli abusi di polizia non funziona. Poi tu diventi un teppista con due sassi.

Ma le foto possono anche difendere una lotta?

Io due anni fa ho avuto quest’esperienza. Mi convocarono per testimoniare a un processo per lo sciopero di un call center. Il giudice mi chiese se ricordavo che i lavoratori lanciavano carte dalle finestre. Risposi che ricordavo una giovane donna che scendeva le scale di corsa, che si sbottonava la camicetta e un’altra donna le porgeva un bambino piccolo per allattarlo, nella pausa caffè. A quel punto il giudice interruppe il processo.

Proviamo a guardare avanti. Nell’ultimo periodo forse c’è uno sguardo e una cura differente nelle immagini, una sorta di reazione al bombardamento visivo indifferenziato?

C’è un’inversione di tendenza, che si rinunci a questo tipo di immagini, che si studino le immagini, dalle sue origini. Come l’umanità è diventata pensante. I primi segni e le prime raffigurazioni servivano a non dimenticare i movimenti interni, i sentimenti, come il cuore che batte in modo diverso quando si prova nostalgia. Volevano raccontare la paura che la tigre con i denti a sciabola provocava in loro. In alcuni dei primi murales si vedono rappresentati i cavalli e la pena umana per un cavallo ferito. Più che raccontare il fatto, premevano loro le ripercussioni emotive.

Chi se ne frega del fatto, l’importante è quello che si sente nel fatto. Bisogna far sentire l’eco di ciò che sentiamo. Bisogna avere i mezzi astratti. Tutte le mie foto sono fortemente astratte.

 

Quella foto di Giorgiana Masi in cui si vedono alcune donne che corrono su Ponte Garibaldi, ad esempio, nessuno la pubblicò. Le donne invece la attaccarono sui muri. Un critico scrisse che ricordava il teatro greco, in cui si raccontavano i fatti con la disposizione delle persone, come nel cinema o nella pittura. È un linguaggio astratto, ma devi conoscerlo, come conoscere le stragi degli indiani rappresentati da John Ford. Bisogna far capire chi sono i buoni e i cattivi, mostrare il rapporto di forza. Io ho giocato la mia vita nella speranza che vinceremo nel nome di chi c’era prima. Nelle mie foto voglio mostrare il rapporto di forza, bisogna far vedere che questi hanno sentimenti e questi altri sono automi. Ma lo devi far vedere. Non basta una macchina da presa.