ITALIA

“Un’estate al mare” per decolonizzare Napoli

L’industria turistica napoletana ha capito da tempo che la “messa in scena” dell’autenticità, in termini goffmaniani, genera profitto. Fuori dagli spazi quasi autoparodici e calcolatissimi della napoletanità inscenata, la questione si fa quantomeno problematica se a percepirsi come merce di consumo sono quei napoletani che non partecipano direttamente all’industria turistica

Che si distinguano spiagge libere e spiagge private è l’ennesimo paradosso neoliberista che abbiamo assorbito e normalizzato, estate dopo estate, fino a non avvertire più come una ridondanza del linguaggio l’accostamento stesso del concetto di “libertà” a quello di “spiaggia”. Eppure, come saprà ogni frequentatore medio del paesaggio balneare italiano, sono sempre più rari gli spazi di costa liberi dalla morsa dei privati. E lo sanno ancora di più i bagnanti di certi paesaggi aspri del Tirreno, resistenti per natura al livellamento spietato della “lidificazione”: le poche calette disponibili, colonizzate poco a poco dall’alternanza militaresca sdraio-ombrellone-sdraio, allegramente camuffata dai colori del marchio estate made in Italy, fanno fatica a mostrare il loro volto naturale.

Il quadro si fa ancora più grottesco quando le già sparute concessioni di libertà diventano a loro volta regolate da sistemi di limitazione degli ingressi. Ne troviamo un esempio recente nell’immagine – ancora paradossale – dei cancelli alla spiaggia libera di Posillipo. Il 1 giugno, infatti, il Comune di Napoli, insieme ai gestori dei lidi e all’Autorità Portuale, ha sottoscritto una convenzione che sancisce il numero chiuso per gli accessi alle poche spiagge libere della zona. I napoletani, da subito in protesta, si sono così trovati a dover bussare al cancello della spiaggia, mentre pochi metri più in là, in una delle spiagge private, qualche turista si godeva la vista sul golfo e su Palazzo Donn’Anna.

Perché ormai – si sa – pure il campo visivo può essere capitalizzato e ogni uno scorcio appetibile al mercato del turismo va pagato a caro prezzo. Il vulcano che troneggia sul golfo di Napoli, per usare un concetto elaborato dal sociologo MacCannell, diventa infatti un marker, il segno che indica l’attrattiva “Napoli”, come la Gioconda è il marker di Parigi e il Golden Gate quello di San Francisco: il Vesuvio, nell’esperienza turistica, è Napoli stessa, l’unico fattore autenticante della vista-visita. Se nell’orizzonte del turista non campeggia il cono del vulcano ma un paesaggio marino qualsiasi, come si potrà dire di essere a Napoli?

Così l’urgenza di autenticazione del turista, sempre in cerca di nuovi marker, si sconta sulla pelle dei “locali” (poveri), che vedono restringersi a velocità soffocante i servizi legati al tempo libero: il prezzo degli ombrelloni è salito del 10-20% in più rispetto al 2022, provocando una paurosa gentrificazione dello spazio balneare con veri e propri esodi proletari verso il lido domizio, unica striscia marina accessibile alle fasce a basso reddito (perché priva di marker).

Più che una depoliticizzata relazione hosts – guests (così in Smith), l’interazione tra turisti e locals non può che tradursi allora in uno scontro colonialista, condotto sull’ameno campo di battaglia della macchia mediterranea. E la lotta non è poi così simbolica se guardiamo alle proteste del comitato Mare Libero, che continua a scendere – grottescamente – “in spiaggia” per rivendicare la gratuità del mare. Forse si teme un’invasione al contrario, una resa dei conti che ripristini l’ordine naturale delle cose: se le poche spiagge libere vengono frequentate senza un controllo “dall’alto”, determinando necessariamente un’interferenza con l’esperienza del turista o del residente ricco, basterà un cordone di stoffa a delimitare il confine tra lo spazio ordinato del !pagante” e quello caotico del “bagnante”?

Ma il turista-colonizzatore, se guarda con fastidio al vicino selvaggio della spiaggia libera, è pronto a sguainare la fotocamera quando lo incontra nell’atto di performare i gesti normati alla sua fruizione estetica. In questo senso non sono più solo gli oggetti a costituire il rapporto semiotico tra marker e attrattiva, ma i residenti stessi, nella misura in cui contribuiscono a convalidare, più o meno consapevolmente, le aspettative di autenticità dell’esperienza turistica. 

Non è certo una novità che le forme del turismo napoletano – e meridionale e italiano in senso lato – siano infatti modellate già da qualche anno sull’estetica esotizzante del neapolitanism, di una rappresentazione mediatica fatta di cibo, panni stesi, tarantelle e scene di vita popolare sapientemente neutralizzate dal filtro romantico del travel blogger – la povertà sublimata in estetica. Così la ‘vita lenta’, etichetta che piace molto ai social, viene consumata dalle fauci del turista allo stesso modo di una “pizza a portafoglio”, di un’enorme mozzarella di bufala mangiata con le mani, delle cene a sottofondo tarantellesco nei Quartieri Spagnoli (nel frattempo la famosa “Trattoria da Nennella” apre una nuova sede a via Toledo: chissà se i camerieri vengono pagati anche per le loro performance da avanspettacolo).

L’industria turistica napoletana ha capito da tempo che la !messa in scena” dell’autenticità, in termini goffmaniani, genera profitto. Fuori dagli spazi quasi autoparodici e calcolatissimi della napoletanità inscenata, la questione si fa quantomeno problematica se a percepirsi come merce di consumo sono quei napoletani che non partecipano direttamente all’industria turistica. Ce lo mostra un’emblematica testimonianza raccolta dall’attivista siciliana Claudia Fauzia sulla sua pagina Instagram.

«Non me la fai la foto mentre mi tuffo?» – chiede un bambino a una passante scambiandola per una turista, mentre sta per tuffarsi in mare da un muretto a Napoli. Il bambino ha imparato a riconoscere e a precedere lo sguardo del turista, percependo ormai l’autenticità del suo gesto come marker di un’attrattiva: la povertà sublimata nell’estetica della “vita lenta”, vero simbolo di Napoli.

Tra il bambino e la pizza non c’è differenza: entrambi sono feticci divorati dal turista e poi risputati tra gli algoritmi di Instagram. Se il processo verso la sparizione delle nostre città e delle nostre identità sembra ormai inesorabile possiamo almeno impegnarci a decolonizzare lo sguardo del turista, espropriandolo dell’egemonia narrativa sui nostri spazi e le nostre pratiche; riappropriarci, insomma, di un punto di vista sulla realtà e raccontare la nostra sparizione.

Immagine di copertina di NFunnel, 2016. Tratta da Flickr