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OPINIONI

Cosa è iniziato e cosa è finito a Genova

A Genova le oligarchie atlantiche e del commercio globale vollero dare una dimostrazione di forza e di onnipotenza, instaurando un vero e proprio regime del terrore. Una testimonianza di attivisti spagnoli

Nei vent’anni trascorsi dai fatti del G8 di Genova si condensano molte lezioni sul secolo attuale. Affrontarle oggi, dentro la catastrofe mondiale causata dalla sindemia di Covid-19, i cui effetti possono essere interpretati solo come corollari di due decadi di “neoliberismo globale di guerra”, ci permette di andare alle radici dell’orrore in cui il pianeta si sta addentrando a passi sempre più rapidi.

Seattle ha rappresentato una vittoria, che sorprese non solo l’Fbi, il Pentagono e la stessa polizia di Seattle, ma anche a tutti quelli che si resero conto il primo dicembre del 1999 che una moltitudine caotica era riuscita a mandare a monte una riunione cruciale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Aveva avuto inizio qualcosa di nuovo, all’altezza delle contraddizioni aperte dalla liberalizzazione globale dei mercati.

Il nome con cui chiamare questo fatto inedito è una questione che rimane irrisolta: movimento anti-globalizzazione (il più quotato), movimento globale, azione globale dei popoli, ecc. Ma la diffusione del contagio al di là dell’Atlantico fu immediata e, meno di un anno dopo, si registrò un’altra vittoria contro il vertice della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale a Praga nel settembre del 2000.

Questo cambio di passo non tarda a farsi notare, pure in Spagna. A giugno del 2000 a Barcellona nasce il Movimiento de Resistencia Global, il principale coordinamento dei gruppi che protestavano attraverso la pratica dei controvertici. I tempi subiscono un’accelerazione. A Praga fecero la loro comparsa due elementi che definiscono il ciclo ascendente del movimento dei controvertici: da una parte, la pluralità di slogan, linguaggi e soggetti; dall’altra la convinzione che, tuttavia, una tale pluralità avrebbe dovuto agire di comune accordo.

(da commons.wikimedia.org)

Perciò a Praga la maggior parte dell’attivismo si raggruppa intorno a tre blocchi principali: il blocco nero dell’azione diretta contro il commercio e la polizia; il blocco rosa della protesta ironica e queer; e il blocco disobbediente, delle tute bianche, che mette in atto forme di resistenza pacifica alle cariche della polizia. Allo stesso tempo, però, tutti questi differenti blocchi si coordinano nei centri di convergenza e in assemblee congiunte dove si concordano tempi e modalità delle azioni. Il successo di Praga dà un grande impulso al “movimento dei movimenti” in Europa. E, in misura ancora maggiore, attrae su di sé l’attenzione paranoica degli sbirri e dei politici europei, sempre inquieti nei confronti dei nemici del commercio globale.

Il controvertice di Goteborg a metà del giugno del 2000 lancia segnali d’allarme. Si tratta del Consiglio Europeo, contraddistinto dal programma di Maastricht e dall’introduzione della moneta unica. G.W. Bush già era presidente degli Stati Uniti.

A essere incaricate dell’organizzazione della protesta erano le reti di attiviste e attivisti britanniche, nordiche e centroeuropee. Il sud Europa è clamorosamente assente. Perciò suonò ancora più inquietante la notizia che la polizia svedese avesse sparato proiettili veri contro le persone che protestavano e che a seguito di questi fatti ben tre persone fossero ferite, una delle quali di forma grave.

Successivamente, la contesa per lo spazio pubblico durante i controvertici si verticalizza nelle “zone rosse” e si converte in uno scenario di stampo medievale, dove i sovrani hanno facoltà di infliggere punizioni arbitrarie con detenzioni, tortura e morte, violazione degli spazi della città destinati ai fasti della costruzione imperiale. Se Goteborg fu un segnale d’allarme, Genova fece cadere definitivamente la maschera: ruppe l’illusione per cui la liberalizzazione dei mercati globali potesse essere compatibile con la democrazia.

Quel G8 fu, in realtà, il punto finale della globalizzazione guidata dall’asse atlantico. La celebrazione imperiale esigeva un’ostentazione di onnipotenza e una dimostrazione di forza. L’anfitrione del vertice, un neo-eletto Berlusconi bis, era sempre in compagnia della compagine razzista della Lega e di quella fascista di Alleanza Nazionale.

La richiesta esplicita da parte delle oligarchie atlantiche di ordine e ammonimenti era musica per le orecchie dell’esecutivo di Berlusconi, Gianfranco Fini e Umberto Bossi, ansiosi di impartire una lezione alla nuova contestazione politica autonoma che era cresciuta nel paese dopo il lungo inverno dei cosiddetti “anni di piombo”.

(da commons.wikimedia.org)

La quasi totalità dei media italiani, con l’eccezione del “manifesto” e dello scomparso “Liberazione”, fu un agente determinante nella creazione di quello specifico clima che precedeva l’auspicio di un vero e proprio Terrore di Stato. I fascisti al governo e nelle forze dell’ordine ebbero occasione di progettarlo per bene e di provarne l’attuazione qualche mese prima, in occasione del No Global Forum che si celebrò a Napoli dal 15 al 17 di marzo. Lì venne istituita per la prima volta in Italia una “zona rossa”, che convertiva parte del centro storico in una zona vietata e in uno stato d’assedio per chi si trovava vicino.

Allo stesso modo, venne messa in pratica una brutale repressione nei confronti della grande manifestazione finale del 17 marzo: centinaia di feriti gravi, sangue per le strade, inseguimenti e aggressioni verso i servizi volontari di soccorso, ma anche nelle cliniche e negli ospedali; trasferimenti alle stazioni dei carabinieri, maltrattamenti e aggressioni per le persone detenute.

Contraeree per un possibile attacco di Al-Qaeda. Resoconti fantasiosi su orde di anarchici del blocco nero che avrebbero devastato Genova senza lasciare nulla dietro sé. La componente della disobbedienza civile delle tute bianche presenta una “Dichiarazione di guerra ai potenti dell’ingiustizia e della miseria”, ispirata ai comunicati dell’Ezln e che, in mano alla manipolazione mediatica, si trasforma nell’annuncio di un assalto armato alle fortezze dei signori del mondo.

Quella atmosfera intimidatoria arrivò anche a Madrid; le tute bianche si stavano preparando nel Laboratorio 2, in quella che oggi è piazza Nelson Mandela. Ricordo il commento informale di Ramón Fernández Durán giusto una settimana prima del controvertice: «Stanno cercando un morto». Un piccolo gruppo di noi assidui frequentatori del Laboratorio non ci vedevamo, per mancanza di esperienza, a indossare le tute bianche, per cui decidemmo di recarci per conto nostro con due furgoni.

All’altezza di Barcellona, veniamo a sapere che la polizia nazionale ha cavato un occhio a un ragazzo nello sgombero di Kan Nyoki, nel quartiere di Gracia. A Ventimiglia, prendiamo la misura dello stato di emergenza, ma riusciamo a passare la frontiera. Ciononostante, l’arrivo a Genova fu un sollievo: moltissima gente nell’enorme spianata di fianco al porto, dove erano installati gli stand delle associazioni del Genoa Social Forum e dove Manu Chao aveva appena finito di esibirsi sul palco.

Ma il nostro obiettivo era arrivare allo stadio Carlini, dal momento che lì si trovava l’accampamento del blocco della disobbedienza globale. Lì ci siamo trovati con l’altro furgone, quello di Nacho e sua madre. L’atmosfera è di quelle che rivestono anche gli aneddoti piacevoli con una patina di inquietudine e presagio. Ci raccontano dell’improvvisa paura alla mattina nel sentire i colpi alla porta della pensione in cui si sono fermati di cammino per Genova: «Pulizia!». L’atmosfera che scambia i fonemi.

Giovedì 19 usciamo dal Carlini per prendere parte alla giornata dedicata alle migrazioni, che culmina in una grande manifestazione di 50mila persone prevalentemente gioiosa che transita a debita distanza dalla zona rossa. Il fatto che un’intera giornata venga dedicata al tema della migrazioni ha molto a che fare con le lotte migranti della città e con il lavoro svolto da Genova Città Aperta, il collettivo in cui partecipano i nostri amici Sandro e Agostino.

Michelle Ferraris (da commons.wikimedia.org)

Quella stessa sera nella spianata del Gsf mi capita di litigare scherzosamente con Emmanuel e Amador, miei compagni di viaggio nel furgone. La loro prospettiva di stampo ancora situazionista li porta a pensare che la giornata di disobbedienza del giorno successivo, venerdì, non sarebbe stata altro che una messa in scena di uno scontro con la polizia, in cui tutto è già deciso.

Non era azzardato crederlo, dato che nel dispositivo delle tute bianche era sempre incluso anche un gruppo di mediazione con i rappresentanti delle forze dell’ordine per evitare che gli scontri andassero fuori controllo.

La tattica di disobbedienza civile delle tute bianche si era sempre posta come un’azione innanzitutto comunicativa e d’impatto emotivo, volta a dimostrare che si poteva resistere alle cariche della polizia mantenendo i propri corpi uniti e protetti e allo stesso tempo volta a controllare che non si verificassero crescendo di violenza e repressione. Tutto ciò presupponeva un minimo di volontà di mediazione da parte dei rappresentanti politici e delle forze dell’ordine. Ma quella sera, la situazione attorno a noi parlava da sé e non mandava alcun segnale in questo senso.

Venerdì 20 usciamo dal Carlini, nel nostro caso senza alcuna protezione aggiuntiva oltre ai vestiti che indossavamo. Dallo stadio era necessario percorrere giusto un chilometro prima di imboccare via Tolemaide, una strada molto lunga che normalmente conduce al centro di Genova e, in quell’occasione, verso la zona rossa. La strada si sviluppa accanto alla ferrovia e, da un certo punto in poi, non presenta alcuna congiunzione con altre strade che potessero fungere da via di fuga.

Dalla coda del lunghissimo corteo, dove ci eravamo uniti al blocco della Quarta Internazionale, non ci mettemmo molto a capire che stava succedendo qualcosa di grave. Il blocco nero aveva deciso di entrare in azione nelle strade limitrofe alla fine di via Tolemaide e da una via parallela si levava una colonna di fumo nero, che proveniva da un’auto in fiamme.

Ecco che presto il tratto finale di via Tolemaide ci appare come uno scenario di battaglia vera e propria, un groviglio di corpi avvolto da fumi e gas. Non tardano a far ritorno compagne che sono riuscite a scappare da questo inferno in miniatura. Ana e Alicia hanno occhi di terrore, dilaniati dai gas lacrimogeni; raccontano con difficoltà di una situazione scioccante.

Mezz’ora dopo la ritirata del corteo è massiccia. Incrociamo Agostino, che ha percorso la zona con la sua vespa e ci dice che non si ricordava niente di simile dalle manifestazioni del “movimento del ‘77” in Italia. Ma intanto la ritirata si trasforma in fuga vera e propria: a centinaia corriamo indietro verso il Carlini, rifugio immaginario, fra i proiettili di gomma e i gas lacrimogeni che la polizia spara anche dalle strade limitrofe e con gli elicotteri a decine di metri da terra. Già corre la voce che “hanno ucciso un ragazzo”.

Di ritorno al Carlini c’è solo desolazione. Un’assemblea improvvisata della disobbedienza del Regno dimostra ancora una volta che il colpo è troppo forte: nervi, giaculatorie, promesse di riscossa per il giorno seguente… e poi solo silenzio. Il Carlini rappresentava un rifugio immaginario perché chi imprudentemente si avventurava a una decina di metri più in là veniva arrestato e deportato verso luoghi ignoti.

Ancora non avevamo sentito parlare di Bolzaneto, ma all’improvviso apparve Roxu di ritorno da quell’inferno fascista già a notte fonda, ammaccato, contuso, terrorizzato per quanto gli avevano fatto e per quanto aveva visto fare ad altri e tuttavia contento di essere ancora in vita. Lo avevano rilasciato senza alcuna spiegazione nel mezzo della notte ed era riuscito a far ritorno a fatica nell’unico luogo dove sperava trovare un po’ di aiuto e sicurezza.

Ares Ferrari (da commons.wikimedia.org)

Nella mattinata di sabato 21 venimmo a sapere che il nome del ragazzo che era stato ammazzato era Carlo Giuliani. Era morto per uno sparo in testa. Quello che doveva essere una grande manifestazione di consenso, convocata dal Gsf, si trasformò nella necessità di restare uniti e presenti, disarmati, per protestare contro i poteri assassini che avevano convertito la città di Genova in una zona di sospensione assoluta del diritto. Sui giornali si leggevano di proteste impotenti di deputati e dirigenti della sinistra e dei sindacati contro l’operato della polizia.

Ancora non si sapeva che il vicepresidente Fini si era presentato nella caserma di Bolzaneto per animare le orde poliziesche e per garantire loro piena impunità. In quella manifestazione interminabile e attraversata da timore e angoscia non smettemmo di sentire odore di lacrimogeni. Il portavoce Vittorio Agnoletto parlava dal palco in mezzo alla nube tossica e a decine di migliaia resistevamo attorno a lui.

Il ritorno al Carlini fu, se possibile, ancora più angosciante, una massa appallottolata per le strette vie delle colline della città, per le quali migliaia di persone cercavano di scappare dagli inseguimenti della polizia e dai lacrimogeni. La sensazione era quella di sconfitta, totale e per di più cocente. Ricordo che fu Ernesto il più lucido e risoluto a decidere che per nessun motivo avremmo dovuto passare la notte allo stadio. Infatti, giusto una qualche ora più tardi, si sarebbe convertito in una comoda gabbia per l’esercizio del sadismo poliziesco, nella stessa notte in cui le compagini della polizie e i battaglioni dei carabinieri commettevano il massacro della scuola Diaz.

Ancora non so come siamo riusciti a scappare con il furgone dalla città assediata, appena in tempo. Abbiamo viaggiato tutta la mattinata per allontanarci il più possibile dal centro dell’orrore. Ci siamo fermati in un paesino a caso per fare colazione. Con un espresso e del companatico abbiamo letto la derelitta cronaca del “manifesto”, con la sensazione di vedere una luce che si spegneva poco a poco.

Di ritorno a casa, durante una pausa vicina a Roses, abbiamo letto su “El País” la colonna di commento d’opinione del vicedirettore del giornale, un tale Hermann Tertsch. Il titolo era rappresentativo di uno stile e nascondeva una premonizione: «Kale Borroka [termine che indica azioni di guerriglia condotte da nazionalisti baschi come infiltrati nelle file della sinistra, ndt] globale».

L’impunità accordata ai politici e ai poliziotti italiani, così come ai carabinieri che ammazzarono Carlo Giuliani e a centinaia di agenti che hanno compiuto massacri e torture a Bolzaneto, nella scuola Diaz e in altri luoghi, continua a essere totale. Capiamo meglio tutto ciò se ci rendiamo conto che quello fu una dimostrazione di impunità imperiale, il segnale di un regime di guerra e dittatura che precede il “colpo di stato nell’Impero” che sarebbe stato condotto dai neocon del governo Bush tre mesi più tardi, approfittando del generale stupore per l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre. E che ha convertito il nostro pianeta, per usare le parole di William Burroughs, in una «cloaca terminale».

Articolo pubblicato originariamente su El Salto Diario

Traduzione dallo spagnolo di Francesco Brusa per DINAMOpress

Immagine di copertina di Ares Ferrari da commons.wikimedia.org