ITALIA
Dallo sciopero di tuttə allo sciopero per tuttə
La chiamata di due scioperi generali distinti, il 28 novembre e il 12 dicembre, fa riflettere sul ruolo che i diversi sindacati stanno svolgendo in questa fase politica e su come le piazze devono continuare a fare pressione per la costruzione di giornate di mobilitazione unitarie
Nelle ultime settimane, il dibattito pubblico è stato dominato dallo sciopero, inteso come un evento dai molteplici significati. Lo sciopero è stato: spauracchio del Governo, occasione di convergenza per le lotte, ma anche affermazione di “potere” e autonomia per le organizzazioni sindacali.
Per quanto mi riguarda, lo sciopero mi coinvolge profondamente per tre motivi che ne definiscono la centralità nel mio percorso di vita: biografico: essendo figlio di un sindacalista, questa parola è sempre risuonata in casa, e lo sciopero, nella mia fantasia di bambino, era il supremo strumento di difesa contro i “cattivi” (i padroni). Militante: ricordo chiaramente che uno dei primi dibattiti a cui mi approcciai nel 2008, durante il movimento dell’Onda, riguardava la possibilità di generalizzare lo sciopero, chiedendo già allora una convocazione unitaria alla Cgil e ai sindacati di base. Professionale: come giuslavorista che si posiziona esclusivamente dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori (e che si occupa, tra l’altro, del settore legale e contenzioso delle Clap – Camere del Lavoro Autonomo e Precario), l’irruzione dello sciopero come momento costituente di un diritto “partigiano” (ossia contrapposto agli interessi di un’altra parte) è un ossessivo campo di studio e ricerca.
Da sempre, dunque, cerco di trovare un punto di incontro con la potenza dello sciopero. Punto di incontro che si è concretizzato nelle giornate di lotta del 22 settembre e, soprattutto, del 3 ottobre 2025.
Per centinaia di migliaia di persone, lo sciopero, oltre a essere generale e generalizzato, è stato il primo tentativo riuscito di sciopero sociale e intersezionale – nella definizione data da Angela Davis, in cui a intersecarsi sono le lotte e non le identità. Ciò è avvenuto mediante la pratica concreta (e non la semplice evocazione) della convergenza, come momento di incontro e, allo stesso tempo di moltiplicazione e sintesi di pratiche e parole d’ordine.
Le giornate di settembre e ottobre sono state a tutti gli effetti una «irruzione improvvisa in un momento imprevisto» (per fare proprie le parole di Bensaid) in grado di rompere la ciclicità e la liturgia degli scioperi generali degli ultimi tempi. Lo hanno strappato via dal ruolo di mera testimonianza in cui spesso era ricaduto negli ultimi anni, affermandone invece la propria originaria potenza. Hanno re-introdotto nel dibattito pubblico la legittimità dello sciopero “politico” (avversato per anni da politici, addetti ai lavori e settori della magistratura, che ancora oggi puntano a limitarne la forza propulsiva e trasformativa), in cui l’azione non si limita ad agire solo sul piano dell’economico, ma diventa leva di trasformazione sociale, nonché formidabile arma collettiva in grado di assicurare l’emancipazione delle subalterne e dei subalterni, mettendo in discussione il rapporto sociale di sfruttamento che ordina le nostre vite.
La potenza dello sciopero in grado di disarticolare la legge
La forza dirompente di queste mobilitazioni è nata dalla combinazione di rivendicazioni di portata globale e nazionale: l’opposizione al genocidio e la richiesta di liberazione di Gaza; la pratica della violazione dell’illegittimo blocco navale imposto dallo stato di Israele (attraverso l’azione della Global Sumud Flotilla) e il blocco dei flussi e delle stazioni; le lotte contro il cosiddetto regime di guerra imposto nel nostro Paese, che si manifesta mediante la militarizzazione della società, il controllo sui corpi, la guerra in ottica familista e patriarcale alle soggettività transfemministe lgbtqia+, nella gestione delle risorse per la riconversione bellica, e dallo spostamento delle risorse pubbliche sulle politiche di riarmo a scapito di salari da fame, assenza di welfare e un processo di impoverimento generale della società.
Tutte queste ragioni hanno dato vita alla eccezionale piazza del 22 settembre, promossa da alcune organizzazioni sindacali. In quell’occasione, la grande assente è stata la Cgil, la quale, costretta a rimediare a tale sottovalutazione, ha proclamato anch’essa il successivo sciopero generale del 3 ottobre.
Questo ha permesso di realizzare il primo sciopero unitario e convergente della storia repubblicana su temi così ampi. Espressioni del sindacalismo conflittuale e di base (Clap, Adl Cobas, Cobas, Sial Cobas) e, ovviamente, Usb hanno proclamato e/o aderito allo sciopero generale unitamente alla Cgil, sfidando anche i veti della Commissione di garanzia.
Si è fatto in modo che questo strumento, sebbene prerogativa delle organizzazioni sindacali, diventasse davvero esercizio concreto di un diritto a lottare da parte di lavoratrici e lavoratori, studentesse, studenti, migranti, di tutte le oppresse e gli oppressi.
In quanto scioperi politici, quelli del 22 settembre e 3 ottobre sono stati anche momenti di lotta in grado di disarticolare la cogenza della legge e porre le basi per la (ri)affermazione di diritti. La loro efficacia è risieduta anche nella capacità di bloccare o rendere impraticabile l’attuazione di leggi regressive, come la 146 del 1990 che limita lo sciopero generale nei servizi essenziali, inibendo altresì il potere di precettazione solo minacciato da Salvini, nonché la liberticida Legge “Sicurezza”.
Insomma, gli scioperi del 22 settembre e del 3 ottobre hanno determinato una cesura, un prima e dopo da cui da più parti e in più occasioni si è detto di «non voler tornare indietro».

Sfuggire alla restaurazione
Oggi, infatti, ci troviamo con due date di sciopero generale proclamate: il 28 novembre: proclamato dapprima da Cub e Usb contro la Legge di Bilancio, con un piglio “avanguardistico” che ha agito, in maniera dissonante, al di fuori dei meccanismi di organizzazione che hanno permesso la riuscita degli scioperi unitari. Altre realtà sociali (tra cui le stesse Clap, Cobas, Adl Cobas, Sgb, Sial Cobas), singole e singoli, hanno scelto responsabilmente e lucidamente di confluire e costruire il 28 novembre, per mantenere aperto il processo di mobilitazione, così come richiesto a gran voce da quel complesso mondo di realtà associative, spazi sociali, singole e singole che si sono ritrovate sotto il nome di “equipaggi di terra”. E il 12 dicembre: Nonostante gli appelli a confluire e “ripetere il 3 ottobre”, la Cgil ha deciso di convocare uno sciopero generale contro la Legge di Bilancio in questa data, presumibilmente a legge già approvata.
I motivi di tale divaricazione sono vari e, visti dalla prospettiva del conflitto sociale aperto nel mese di settembre, e tutt’ora attuali, davvero poco validi e ragionevoli.
Indubbiamente, ha ragione il prof. Antonio Di Stasi quando sostiene che molti quadri delle organizzazioni sindacali di base e la Cgil si portano dietro una ferita storica risalente sia alla nascita del sindacalismo di base come scissione “a sinistra”, sia a quanto accaduto nel movimento del ’77 con la cacciata di Lama. Una ferita evidentemente non ancora rimarginata e tramandata. Da questo punto di vista forse aiuterebbe tutte e tutti noi, e soprattutto la possibilità di sviluppo delle lotte in questo paese, liberarci di un pezzo di memoria che evidentemente agisce come un fardello e impedisce l’azione e il cambiamento.
Ma c’è dell’altro: il rapporto controverso tra organizzazione sindacale e sciopero. Le organizzazioni sindacali (dalle più grandi alle più piccole) sono meccanismi complessi, rivolti per costituzione al loro interno (iscritte e iscritti), e la loro azione e rappresentanza riguarda soprattutto quest’ultimi. Di ciò bisogna tener conto quando si valutano le loro scelte. È innegabile che ogni organizzazioni sindacali risponda a una propria legittima autonomia, basata su logiche interne, identità specifiche e percorsi decisionali.
Invece, lo sciopero, la cui convocazione spetta alle organizzazioni sindacali, è in verità di tutte e tutti quelli che vogliono aderire, a prescindere dall’iscrizione. Dunque, la proclamazione ha ragioni “interne”, legate alle piattaforme varate in seno all’organizzazione, e da questo punto di vista potremmo dire che lo sciopero è di tuttə, ma non è detto che sia per tuttə.
Tuttavia, le ultime settimane lo hanno indicato chiaramente: lo sciopero in grado di invertire la rotta e togliere certezze agli attori politici ed economici di questo paese è lo sciopero “per tuttə”.
Affinché lo sciopero sia per tuttə, è necessario fare come si è fatto il 3 ottobre: mettere lo sciopero a disposizione, convergere su un’unica data e agire come moltiplicatori della “potenza” richiesta da molt3 attivist3, sindacalist3, realtà associative e singoli.
Far dialogare le ragioni “interne” con quelle esterne è possibile. È possibile che sulla stessa data convergano organizzazioni sindacali differenti con parole d’ordine e pratiche diverse. Serve individuare un minimo comune denominatore fatto di rivendicazioni unificanti, pratiche e linguaggi funzionali allo sviluppo della mobilitazione, misurandosi con una presa di parola che va ben oltre i luoghi di discussione dell’organizzazione, relazionandosi con quelle soggettività che agli scioperi contribuiscono a dare corpo, gambe e anche parola.
Nulla vietava, ad esempio, che le piattaforme rivendicative venissero poste in discussione in tavoli di confronto, non solo intersindacali, ma anche in processi ampi coinvolgendo associazioni, realtà sociali, singole e singole al fine di trovare delle questioni unificanti su cui rilanciare la mobilitazione. Continuare a opporsi al genocidio a Gaza, chiedere l’interruzione degli accordi commerciali con lo Stato di Israele, interrompere l’esportazione di armi, rivendicare un utilizzo della spesa pubblica per potenziare la sanità, l’istruzione, il welfare a fronte dell’aumento del Pil del 5% per il programma di riarmo, aumentare i salari, rivendicare una tassa patrimoniale, poteva essere quel programma minimo su cui dare sostanza a una mobilitazione che al momento rischia di arenarsi.
Se ciò non è accaduto, è perché le ragioni interne e di natura soggettiva sono prevalse. Si è optato per la costruzione di scioperi di organizzazione e programmatici, scioperi che potremmo definire “ordinari” e in continuità con quelli che c’erano stati prima del 22 settembre 2025.
Scioperi che invece di tenere aperti e alimentare spazi di conflitto, si limitano ad affermare se stessi.
È forse superfluo (ma non inutile) dirsi come questa scelta, sebbene legittima e utile per il rafforzamento del ruolo dell’organizzazione sindacale, rischia pericolosamente di cancellare l’innovazione, la dirompenza e soprattutto l’efficacia degli scioperi moltitudinari del 22 settembre e 3 ottobre 2025.
Il futuro non è scritto
Tuttavia, una strada è stata tracciata e il finale rimane “aperto”. Sappiamo bene che i processi sono meccanismi complessi, fatti di avanzamenti, errori, deviazioni e interruzioni, siamo destinate e destinati a fallire, fallire meglio.
Nonostante questa battuta d’arresto, è necessario continuare a lavorare sui meccanismi di convergenza che hanno portato a fare dello sciopero generale, sociale e convergente lo strumento di organizzazione e di lotta in grado di riaprire una stagione di conflitto in questo Paese.
Affinché ciò accada è necessario continuare a far sì che lo sciopero continui a essere per tuttə. Su questo aspetto, tutte le organizzazioni sindacali che si sono messe a disposizione nelle settimane passate hanno una responsabilità, da cui non possono sfuggire, nei confronti di quelle centinaia di migliaia di persone che hanno attraversato le piazze del 22 settembre e 3 ottobre. Perciò, il 28 novembre, sebbene rischi di essere depotenziato dalle dinamiche sinora descritte, rimane comunque un banco di prova importantissimo per continuare a navigare in acque alte e non arenarsi su logiche che rischiano di chiudere quello che potrebbe essere il prologo di una importante stagione di lotta.
Tutte le foto Marta D’Avanzo
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