approfondimenti

OPINIONI
Lezioni da imparare dal referendum dell’8 e 9 giugno
A due settimane dal voto al referendum, il mondo sembra già andato troppo avanti, ma abbiamo ancora bisogno di riflettere su cosa non ha funzionato in questa campagna referendaria in cui ha vinto l’astensione
Le notizie corrono veloci e ci sembra già troppo tardi per scrivere del Referendum. E anche se a due settimane dal voto, con l’attacco di Israele in Iran, il genocidio che non si ferma a Gaza e gli Usa sull’orlo della guerra civile, sembra velleitario domandarsi che cosa non abbia funzionato, allo stesso tempo ci sembra necessario. Il referendum è un grande strumento in mano alla cittadinanza, un modo per imporre nella discussione pubblica grandi temi che la politica partitica e istituzionale continua a ignorare, per cercare di cambiare direttamente le leggi. Non possiamo liquidare così facilmente questa sconfitta, anche perché ha molto da dirci sulle capacità di mobilitazione nel campo della sinistra.
I quesiti referendari erano cinque, i primi quattro su tutele crescenti, licenziamenti nelle piccole imprese, contratti a termine, infortuni sul lavoro proposti dalla CGIL, che ha raccolto le firme, formato il comitato referendario e gestito la campagna referendaria, una battaglia tutta interna tra sindacato e sinistra del PD contro chi nel 2015 propose il Jobs Act. Parallelamente, sono state raccolte le firme per proporre un referendum sull’abrogazione parziale della legge sulla cittadinanza, da un comitato composito di associazioni, dopo decenni di false promesse da parte di tutti i governi di turno. Mentre il quesito sull’autonomia differenziata era stato ritenuto inammissibile mesi fa dalla Corte costituzionale..

Non raggiungeremo mai il quorum
Prima grande questione: entrambi i comitati referendari non hanno mai pensato di raggiungere il quorum. E nonostante questo non fosse mai esplicitato in interviste o dichiarazioni pubbliche era una certezza largamente discussa tra le chiacchiere informali negli eventi o dei (pochi) volantinaggi. Ma in che modo si può organizzare una campagna referendaria vincente se si è intimamente convinti di perdere?
Ecco, questa è la prima lezione da imparare, dobbiamo ritornare a credere di poter vincere alle urne, come nelle altre battaglie che portiamo avanti e, se lo pensiamo impossibile, significa che dobbiamo cambiare strategia, e tentare altre strade prima del voto.
Evidentemente la storia delle ultime campagne referendarie abrogative non gioca a favore dei SÌ. I referendum proposti dalla Lega sulla giustizia nel 2022 non superarono il 20% di partecipazione e quello sulle trivelle si attestò intorno al 30%. Eppure i due referendum confermativi delle riforme costituzionali del 2016 e del 2020 hanno entrambi superato il quorum (che pure non era necessario in quei casi), nel primo vinse il NO alla riforma costituzionale proposta da Renzi, e il SÌ al taglio dei seggi in Parlamento. In ogni caso, nel nostro Paese, l’astensione è sempre più alta e preoccupante: alle politiche del 2018 andarono a votare quasi il 73% degli aventi diritto e nel 2022 neanche il 64%, in meno di cinque anni più di 4 milioni e mezzo di votanti non sono tornati alle urne. E nelle elezioni europee, amministrative e regionali le percentuali sono anche peggiori.
Ma, seppur l’astensionismo è un fenomeno di lungo periodo e va a braccetto con la crisi della democrazia rappresentativa in tutta Europa, le ultime elezioni in Francia e in Germania ci ricordano che quando la competizione elettorale è percepita come importante e il proprio voto viene considerato come decisivo, le persone tornano al voto e decidono anche di votare a sinistra.
E questo è successo anche nel voto ai referendum in Italia: nel 2020 più del 50% degli aventi diritto è andato a votare, in un referendum in cui non c’era neanche bisogno del quorum, così come nel 2016 più del 64%, e nel 2011 più del 54%. Quindi, le campagne referendarie si possono ancora vincere, ma il voto deve essere percepito come necessario, decisivo, importante. Dal “tanto non cambia niente” al “il mio voto conta e se non vado a votare sarà anche peggio”.

La campagna referendaria
I giorni precedenti e successivi al voto sono stati attraversati da un dibattito – non del tutto nuovo – sull’abolizione del quorum, e il 5 giugno è stata anche presentata dal Comitato “Basta quorum! Cittadini per la democrazia”, un’ iniziativa di legge popolare da parte di un gruppo di cittadini e cittadine vicine al Partito Radicale. Dall’altro lato, Forza Italia e Noi Moderati hanno molto insistito su un’altra riforma, l’aumento del numero delle firme, convinti che la possibilità della firma digitale abbia reso troppo facile la presentazione di quesiti referendari.
La rocambolesca raccolta firme del Comitato referendario per la cittadinanza, il cui sito ha subito vari attacchi informatici i giorni precedenti la chiusura della raccolta firme per poi riuscire a raggiungere e superare il numero, con più di 637.487 firme raccolte solo digitalmente, ci spiega come non sia così semplice. La raccolta firme digitale necessità di visibilità, il comitato in quel caso ha puntato su una campagna online molto efficace, composta da diverse voci di influencer e content creator e una chiara call to action. Eppure la stessa capacità non è stata dimostrata in seguito per la costruzione della campagna referendaria.
Lo sdoppiamento dei comitati referendari, per quanto necessario da un punto di visto normativo e funzionale in un primo momento, non si è trasformato in uno strumento efficace, ha raddoppiato le campagne referendarie, i riferimenti, il materiale e non sempre i quesiti sono stati pubblicizzati tutti insieme.
Inoltre, avendo raccolto tutte le firme online – e non avendo dietro la struttura organizzativa della CGIL –il comitato sulla cittadinanza si è trovato sguarnito di gruppi territoriali che, non essendosi formati precedentemente per la raccolta firme, hanno lasciato i territori più periferici sguarniti di materiale, informazione e riferimenti, che si potevano trovare solo online, ma non materialmente in sedi locali.
E quindi la seconda lezione da imparare è che le campagne elettorali e referendarie non si possono vincere solo online, è necessario un doppio sforzo online e offline, con un minuzioso lavoro territoriale. Abbiamo bisogno di tornare ad avere spazi fisici dove prendere il materiale, volantinaggi nei quartieri periferici, banchetti nelle province e nelle zone interne.
Tornare a parlare con le persone che non la pensano come noi, con chi ha perso completamente la fiducia, con chi pensa che il voto sia inutile. Per fare questo c’è bisogno di lavorare in rete: associazioni, partiti, sindacati, collettivi, gruppi informali, assemblee, come fu per il referendum per l’acqua, i cui comitati lavorarono per anni prima e dopo il voto. E questo vale anche per il comitato referendario sul lavoro, neanche il più grande sindacato italiano è oggi autosufficiente per vincere un referendum.

Dati Ministero degli Interni – elaborazione Dinamopress
Le fratture politiche e sociali evidenziate dal voto
In questo referendum è andato a votare il 30,58% degli aventi diritto, non dissimile da quanti andarono a votare contro le trivelle. Ma con variazioni importanti nei vari territori.
Nel 1970 il politologo norvegese Stein Rokkan individuò le fratture sociali (cleaveges) alla base della formazione dei moderni partiti politici. Alcune di quelle fratture sono ancora evidenti e questo voto le conferma, altre sono nuove e stanno emergendo in questi ultimi anni e sono alla base della svolta reazionaria e autoritaria delle società occidentali.
La prima frattura, individuata già da Rokkan, è quella tra centro e periferia, cioè tra i territori centrali nella formazione dello Stato e quelli periferici. Guardando ai dati vediamo subito che le città hanno votato più dei piccoli centri e piccoli comuni. Secondo i dati dell’Istituto Cattaneo, nei comuni con più di 350mila abitanti hanno votato il 37% di persone con diritto di voto e nei comuni con meno di 15.000 abitanti il 28%.
A questa frattura, aggiungiamo la frattura tra Nord e Sud, creatasi con la formazione dello Stato italiano. Anche in questo voto, si è andati a votare generalmente di più nelle regioni del Nord che nel Sud, anche se è il Trentino Alto Adige la regione dove si è votato meno (22,7%), seguito da Sicilia (23,1%), Calabria (23,81%), e Veneto (26,21%), mentre trainano il voto le regioni storicamente rosse la Toscana (39,09) e l’Emilia Romagna (38,1%), comunque lontane dal quorum. E anche per ciò che riguarda i grandi centri urbani, votano più quelli del Nord, che del Sud. La provincia con l’affluenza più alta è Firenze (46,0%), seguita da Torino (39,3%), Milano (35,4%), Roma (34,0%) e Napoli (31,8%).
Questa divisione tra territori centrali e periferici, città e campagne, zone centrali e territori interni è stata una questione centrale in tutte le elezioni degli ultimi anni: negli Stati uniti tra il voto delle grandi città urbane e degli Stati interni, in Francia tra le città e le campagne, in Germania tra Est e Ovest.
Una frattura tra chi “ha vinto” e “chi ha perso” dal processo di globalizzazione, i territori de-industrializzati, le campagne sempre più spopolate, le grandi periferie marginalizzate nei grandi centri urbani, una popolazione che si sente sola, isolata, derisa, poco istruita e sempre più povera, e che vota sempre più a destra.
Quindi, sotto questo punto di vista, il voto non è disallineato con le ultime elezioni politiche: chi non ha votato alle scorse elezioni non è tornato a votare, dove si è votato più a destra le persone non sono andate a votare, hanno votato quanti avevano votato il “campo largo” della sinistra, ma non sempre 5 SÌ.

Dati Ministero degli Interni – elaborazione Dinamopress
La differenza tra i primi quattro e il quinto quesito
Analizzando quel 30% dei voti, emerge un altro dato sconfortante: tra i circa 14 milioni di votanti, più o meno 12 milioni hanno votato SÌ ai primi cinque quesiti (con lievi differenze) e solo 9 milioni hanno votato SÌ al quesito sulla cittadinanza. Quindi, il 30,51% delle persone che si sono recate alle urne hanno votato NO alla riforma della legge 91/1992 sulla cittadinanza.
Anche qui vediamo come sono i centro città ad aver votato più SÌ al quinto quesito: nel centro città di Milano, nella zona ztl, hanno votato più SÌ al quinto quesito che agli altri quattro sul lavoro, ad esempio nella circoscrizione dei Giardini di Porta Venezia si segna una differenza del 21% tra chi ha votato SÌ al quinto quesito sulla cittadinanza e NO al primo quesito sulle tutele crescenti, ma con un’affluenza al voto bassissima (17%).
La situazione si ribalta se invece si va nelle periferie della città e nella sezione di Lambrate – Ortica la differenza tra chi ha votato più SÌ al primo quesito e NO al quinto è del 28%, con un’affluenza al voto molto più alta (42%), ma in altre periferie della città come Quarto Oggiaro l’affluenza è molto più bassa (26,9%).
Anche a Torino le zone ricche del centro hanno votato più al referendum sulla cittadinanza che a quello sul lavoro, come a Piazza d’Armi, corso Cairoli, e anche altre zone più residenziali come Parco della Rimembranza dove la differenza tra chi ha votato SÌ al quinto quesito e NO al primo è del 12,6%, con un’affluenza al voto del 30%. E anche qui se andiamo nella periferia la situazione si ribalta, ad esempio a Mirafiori-città giardino ha votato il 37% delle persone e la differenze tra i SÌ al primo quesito e il quinto è del 28,7% e, come a Milano, però ci sono periferie che hanno votato molto meno, come Villaretto dove ha votato il 25%.
A Roma, invece, solo il quartiere di Villa Ada ha votato più SÌ al quesito sulla cittadinanza che a quelli sulle tutele crescenti, con una differenza del solo 2%, e a Napoli questa differenza non è riscontrabile in nessun quartiere. Mentre sia a Napoli che a Roma, abbiamo quartieri storicamente operai e rossi che hanno votato quattro SÌ ai referendum sul lavoro e NO al referendum sulla cittadinanza.
Qui si evidenzia una nuova frattura del mondo contemporaneo: tra centri (neo)liberali ricchi che votano contro i diritti sul lavoro, ma che si considerano cosmopoliti e (anche se poco) votano per i diritti civili. E questo è più evidente nei centri del Nord Italia che del Sud, essendo i centri nel Nord più ricchi. Mentre le periferie che sono andate a votare si sono espresse di più contro la riforma sulla cittadinanza e per i diritti sul lavoro.
Cioè la popolazione bianca urbana che vive nelle periferie esprime un voto di paura nei confronti della riforma sulla cittadinanza. E questo dovrebbe aprire un grande spazio di riflessione profonda per le organizzazioni di sinistra: bisogna ricostruire solidarietà antirazzista, popolare e di classe. Un nuovo lessico politico condiviso che crei legami e lotte e sappia rispondere all’odio razzista, fascista e autoritario crescente.

Dati della Banca dati del Comune di Milano – elaborazione Dinamopress
Le donne hanno votato più degli uomini
Quasi ovunque in Italia le donne hanno votato più degli uomini e questo è un dato interessante, perché è una novità nel nostro Paese. Alle ultime elezioni politiche del 2022 l’astensione delle donne è stata più alta di quella degli uomini, quando solo il 62,19% delle elettrici si è presentata alle urne contro il 65,74% degli elettori. Anche alle europee del 2024 avevano votato più uomini che donne in 91 province su 106. Bisognerà vedere cosa accadrà alle prossime elezioni per capire se questo trend continuerà, segnando, così, una differenza rispetto agli ultimi decenni della vita politica italiana.
Ma questo ci racconta di una trasformazione che sta avvenendo anche in molti Paesi del mondo, dagli Stati uniti alla Corea del Sud, dal Giappone alla Francia, le donne votano di più per i partiti progressisti. Una tendenza ancora più marcata tra le giovani donne che votano sempre più a sinistra, mentre i giovani uomini votano sempre più a destra, come si è notato alle ultime elezioni sia in Francia che in Germania.
Un successo è stato anche il voto per i e le fuori sede per motivi di studio, lavoro o salute (67.305 richieste), l’89% di chi ne ha fatto richiesta si è poi recato a votare. Il Decreto Elezioni che ha previsto il voto fuori sede, aveva anche eliminato le file divise per genere ai seggi, che, però, si sono ancora riproposte in moltissime sezioni, dato che i registri sono ancora divisi per genere. Una prassi discriminatoria soprattutto per chi non vuole dichiarare il proprio genere ai seggi, e che allontana le persone trans dal voto.
Questa campagna referendaria, che piaccia o meno, è stata una sconfitta sia per la CGIL che ancora una volta ha presentato una battaglia che non ha saputo parlare a un mondo del lavoro frammentato, precario e sempre più povero. I quesiti sono risultati di difficile comprensione e alle urne si è presentato solo chi era già votante del centro-sinistra. Purtroppo, è andata anche peggio per il quesito sulla cittadinanza, un quesito di civiltà e una proposta nata dalla società civile, che avrebbe migliorato la vita delle persone migranti e dei loro figli e figlie, che non ha convinto neanche tutto l’elettorato di centro-sinistra.
Questo ci deve interrogare verso le prossime battaglie elettorali o meno: come torniamo ad avere una presenza sui territori che costruisca legami di solidarietà e sia in grado di costruire un progetto di lunga durata contro il blocco reazionario che già governa il mondo?
L’immagine di copertina è di Jaken (Wikimedia)
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