ITALIA

Cisgiordania d’Abruzzo: il caso Anan
La ricostruzione della paradossale esperienza di Anan, militante palestinese di lungo corso, imputato di terrorismo a L’Aquila per presunti fatti commessi in Palestina e di cui il governo israeliano chiede l’estradizione
Il procedimento penale che si sta celebrando a L’Aquila, su fatti asseritamente commessi in Palestina, è un vero e proprio processo alla resistenza palestinese in Cisgiordania. L’accusa di terrorismo contro Yaeesh Anan Kamal Afif è la traslazione, a migliaia di chilometri di distanza, di una ingiustizia inaccettabile che chiama a gran voce a una mobilitazione necessaria e di vasta portata
Come noto, in Cisgiornadania non è la resistenza a essere illegale ma, pacificamente dal 1967, tale è la condotta di quello Stato di Israele che, pur condannato dal consesso giuridico mondiale a lasciare i territori occupati illegalmente, insiste nel procrastinare indisturbato la sua politica di espansione.
Quello che si va compiendo, anche in questi giorni, non è solo la filosofia dello Stato israeliano che, per dirla alla maniera di Alberto Sordi si traduce in “io occupo perché «io so io, e voi nun siete un ….»”, ma una sistematica sopraffazione agita con incendi, assassini, torture e distruzioni. Il tutto all’ombra dello sterminio in Gaza, senza la possibilità qui di invocare Hamas, ma anzi fomentando la costruzione di quell’odio quotidiano che è all’origine della tragedia del 7 ottobre.
Il protagonista imputato Anan è un politico/militare assai noto in Cisgiordania ed eroe per quella rete resistente tanto da essere assunto a figura principale anche all’interno di canzoni popolari.
Procedendo come in una sequenza filmica: primo frame, febbraio 2002, Anan ha 14 anni è nel suo paese Tulkarem cammina di poco dietro alla fidanzata vicino al confine militare, vanno a scuola. Secondo frame: Click! Non è questo il rumore che precede lo scatto fotografico di una sequenza che cattura la realtà, ma quello del fucile militare israeliano, reale, che le spara in testa.
Terzo frame: per 10 giorni Anan resta attaccato alla tomba della ragazza e decide come tanti giovani palestinesi di aderire alla lotta politico-militare nelle file di Fatah contro il governo nemico. Ottiene visibilità tanto da entrare nella guardia personale del presidente Arafat e venire da lui premiato, giovanissimo, con un titolo onorifico.
Entra nei servizi segreti palestinesi occupandosi di sicurezza interna e diventa tra i principali nemici in loco dello stato occupante. Per evitarne l‘uccisone viene consegnato al carcere di Gerico sotto la supervisione di Stati Uniti, Inghilterra, Egitto e Giordania che ne controllano la detenzione.
Quarto frame: nel 2006 elicotteri dell’esercito israeliano si alzano in volo su Gerico e la bombardano; Anan riesce a salvarsi e fuggire. Torna nella propria città dove cade nella trappola di un conoscente, spia dei servizi israeliani, che aprono il fuoco in un bar ferendo lui e uccidendo un amico.
Anan si salva, sventa un altro tentativo di uccisone in ospedale.
Quinto frame: tre anni di carcere in 18 prigioni subendo torture. Scarcerato nel 2010 continua la sua attività politica e studia scienze politiche ma nel 2013, vessato dalle continue pressioni anche sulla sua famiglia, decide di trasferirsi in Europa. Vive in Norvegia e Svezia per poi spostarsi in Italia dove gestisce un ristorante a Mestre. Da ultimo si trasferisce a L’Aquila.
La cosa interessante è che quanto fin ora detto sulla vita e sull’attivismo di Anan non è frutto di indagini della Digos abruzzese ma è tratto dalle di lui pacifiche dichiarazioni, rese in sede di richiesta di protezione internazionale alla commissione norvegese prima e italiana successivamente.
Ecco che questo primo dato sgombra già da un potenziale equivoco: Anan non era affatto protagonista di un rischio terrorismo, palesandosi come a dir poco insolito che chi entra in un Paese con mire destabilizzanti descriva il suo profilo antagonista alla forza pubblica, verbalizzandolo. Il primo elemento è, quindi, politico. Anan ha militato anche nell’estensione militare del partito Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Questa organizzazione rientra, sotto un profilo amministrativo, nella c.d. Black list che impedisce l’ottenimento dello status rifugiato in Europa (non ostativo ad altre forme di protezione infatti ottenute). La situazione è simile a quella in cui ci si imbatté all’arrivo a Roma Abdullah Öcalan, capo del partito curdo P.K.K. [oramai disciolto, ndr] di cui la Turchia chiese l’arresto.
Öcalan fu collocato in una casa protetta e di seguito, ne fu organizzata (dal governo italiano) la fuga con direzione Sud Africa, ai fini dell’ottenimento della protezione internazionale (poi il viaggio non andò benissimo…).
L’attuale governo Meloni, invece, non appena ricevuta la richiesta di arresto per Anan da parte di Israele, con conseguente estradizione, si è subito messo prono dando il via all’operazione – con la stessa solerte efficacia dimostrata (all’inverso) nel caso del torturatore libico Almsry…
Fortunatamente la Corte d’Appello ha respinto la richiesta per l’ovvio rischio (rectius certezza) che una volta estradato avrebbe subito trattamenti inumani e degradanti.
Nelle more della scarcerazione e con tempismo a dir poco sospetto, il Pubblico ministero abruzzese richiede l’arresto chiedendo di giudicare qui fatti accaduti in Cisgiordania, utilizzando impropriamente il terzo comma dell’art 270 bis del codice penale. È passato un anno e mezzo e Anan è ancora in galera col processo ora a dibattimento. È accusato di aver promosso in Palestina un’associazione con finalità di terrorismo denominata “Gruppo di riposta rapida brigate Tulkarem“. Si badi bene che già qui esiste una prima distonia rispetto all’impianto accusatorio che fonda le proprie origini nell’appartenenza di Anan ad un’altra associazione, cioè la sopra richiamata Brigata dei Martiri di Al-Aqsa che è, come detto, nella Black list di alcuni Paesi per terrorismo.
Chi saprà diversificare e spiegare se esistono differenze di approccio tra le due fazioni? La Digos abruzzese? Questo è il punto paradosso di questo processo. Si farà sostanzialmente su fonti aperte indagando un fenomeno complesso e non certo nostrano e nelle conoscenze dei nostri inquirenti. Sgomberato il campo dalla impossibile sovrapposizione con gli attentatori di matrice islamica (pronti alla morte in nome di Allah), va chiarito che Anan non è accusato di aver ucciso civili e mai ha rinnegato la sua affiliazione politico/militare, anzi, l’ha palesata sul suo profilo pubblico.
Il punto di caduta processuale è costituito dalla differenza tra terrorismo e resistenza legittima.
Se un esule ucraino avesse cercato di aiutare i suoi connazionali dall’Italia l’avremmo processato? Per venire al caso specifico già il nome della supposta associazione che si indaga “risposta rapida” si pone in chiara connessione con la necessità di tutela dei propri connazionali quotidianamente aggrediti in un contesto che è quello di una guerra/aggressione in corso.
Si chiama diritto umanitario, e nel nostro caso non vi è dubbio che il popolo palestinese dei territori illegittimamente occupati è portatore (Convenzione di Ginevra e allegati) del diritto alla difesa. Tanto più con lo sterminio / genocidio in corso.
La scriminante si ferma laddove si sia in presenza di un’associazione che prepara attentati che non hanno una collocazione di destinazione contro il nemico militare bensì solo contro i civili.
Anan era in Italia all’epoca del 7 ottobre e all’inizio della reazione con triplicata ferocia di Netanyahu. Nessuna e nessuno di noi è rimasto indifferente e mai avrebbe potuto esserlo il nostro imputato portatore del diritto – anzi dovere – di attivarsi per i suoi fratelli e sorelle che anche in Cisgiordania hanno subito la recrudescenza della violenza dei coloni ben tutelati dalla milizia ebraica.
A prescindere dalla fumosità complessiva del processo e di ciò che potrà o non potrà dimostrare, chiaramente, c’è la possibilità che si parli di armi, e di azioni offensive / difensive contro le prevaricazioni e le uccisioni. Del resto una foto con il fucile è davvero in questo contesto la prova di qualcosa? Se emergeranno intercettazioni in cui si discute di armi è cosa ovvia in un contesto in cui non si usano cerbottane, ma si opera nell’ambito della difesa da uno degli eserciti militari più potenti del mondo.
Le eventuali azioni sono contro i presidi dell’esercito dei coloni ed è Israele, semmai, ad aver senza dubbio in plurime occasioni superato la giurisprudenza che individua l’atto terroristico, laddove l’azione è intrapresa pur sapendo di esporre a rischio certo persone non combattenti (anziane, anzini, bambine e bambini, per lo più). Insomma il dato è che, se dobbiamo ricorrere alla c.d. prova aperta (servizi on line ecc…), allora sarebbe efficace pensare al film No Other Land, capolavoro vincitore di Oscar dove, in un misto di tragedia e poesia, ben si comprende la necessità di schierarsi senza tentennamenti.
Perché in Cisgiordania si consuma la lotta infinita tra il ricco e potente e il povero e debole; l’esproprio delle e dei pastori, la sottrazione della terra a chi la abita e la coltiva, il furto del sorriso delle bambine e dei bambini, lo spargimento di sangue degli impotenti, tutto si mescola e fa ribollire il sangue a noi spettatrici e spettatori, figurarsi nell’animo di chi ha vissuto nella propria carne la tragedia, come accaduto ad Anan.
Ho volutamente tenuto fuori dall’analisi la situazione degli altri due imputati, implicati solo per dare sostanza a un quadro associativo inesistente. I coimputati sono, infatti, a piede libero per mancanza di indizi in accoglimento delle richieste dell’avvocato Flavio Rossi Albertini e dell’avvocata Ludovica Formoso, persone preparate e tenaci che difendono Anan a cui una rete di penalisti da tutta Italia fa sapere che non saranno sole laggiù in Cisgiordania… d’Abruzzo.
Immagine di copertina di Openverse
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