POTERI

Uomini di poco onore

Lo scandalo Gentile: per leggere meglio la relazione tra corruzione ed affari nella Calabria globale.

Partiamo da un libro, scritto a quattro mani da Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti,

Il figlio di un futuro sottosegretario è indagato per certi affari legati alla sanità. Il giornale locale, che fa capo all’imprenditore con affari nel cemento e sanità, condannato con sentenza passata in giudicato per usura e al quale la Direzione Investigativa Antimafia ha sequestrato di recente beni per 100 milioni di euro, sta per pubblicare la notizia in prima pagina.

Lo stampatore del giornale è un imprenditore noto: ex candidato a sindaco; già ai vertici dall’associazione padronale locale; nominato dalla giunta regionale al vertice di “società finanziaria per lo sviluppo economico”. Questi telefona all’editore e gli chiede di espungere quella notizia dal giornale che sta per andare in stampa. L’editore lo fa parlare, gli fa domande, lo invita a spiegarsi meglio. Registra la telefonata. Di fronte al diniego del direttore, la notizia rimane in pagina. Il guasto ad notiziam ha creato lo scandalo e ha avuto il benefico effetto di far traslocare un’indagine a carico degli affari della famiglia di un politico dalla giungla della cronaca locale fino agli editoriali indignati delle testate nazionali.

Adesso qualcuno verrà a dirci – lo stanno già facendo – che bisogna restaurare merito e competizione, pilastri della concorrenza del mercato. Che la politica deve restare fuori dal sacro recinto dell’impresa, che la criminalità sta frenando lo sviluppo e sabotando il dipanarsi delle progressive sorti del mercato. Che Tonino Gentile, con la sua famiglia incistata da oltre tre decenni nel potere clientelare calabrese, è la quintessenza della Casta che opprime la cosiddetta “economia reale”. Che il sottosegretario alle infrastrutture del rottamatore Renzi costituisce il piombo nelle ali della crescita. Un fronte trasversale che va dai berlusconiani ai grillini si indigna e chiede la revoca della nomina del censore affarista. Come non essere d’accordo?

Il fatto è che le rotative ad orologeria della stamperia de L’Ora della Calabria sono parte di un ingranaggio più esteso di quanto ci raccontano. È impossibile decifrare il linguaggio che muove questi dispositivi limitandosi ad utilizzare il manicheo codice binario legale/illegale o la contrapposizione tra “impresa” e “corruzione”. Lo spiegano bene Claudio Dionesalvi e Silvio Messinetti in “Al di là della mala” (Coessenza, 144 pagine, 10 euro). I due autori non appartengono alla comoda schiera di quelli che si uniscono al coro: da più di venti anni raccontano e combattono il sistema di potere che ruota attorno ai tanti Gentile che infestano la Calabria. In “Al di là della mala” rimettono in fila le inchieste che hanno scritto in questi anni per il quotidiano Il Manifesto. Quegli articoli si riconoscono come diversi capitoli di uno stesso libro: il grande business dei rifiuti e delle centrali energetiche, la privatizzazione dell’acqua e lo sfruttamento selvaggio dei beni comuni in nome di qualche posto di lavoro precario, le condizioni degli schiavi migranti.

Sono tutte puntate di un romanzo criminale d’appendice che rimette in ordine diversi tasselli del malaffare e dello sfruttamento selvaggio della Calabria e dei calabresi. Ne viene fuori che spesso la “criminalità organizzata” è un complemento, un semplice acceleratore di processi più ampi: business perfetti, redditizi, perfettamente legali ma non legittimi, come denunciano comitati e movimenti locali. Il fatto è che le mafie non si sostituiscono al mercato, vi si alleano e si fanno impresa legale e illegale al tempo stesse. Si insinuano soprattutto dove c’è qualche traffico da regolare o qualche meccanismo da velocizzare; allora sono un succedaneo dell’autorità statale in crisi, una stampella della politica moderna sfinita. E quale territorio meglio della Calabria e del Sud in generale, ha bisogno di questo acceleratore del turbocapitalismo.

Dalle pagine di “Al di là della mala” si capisce che la Calabria ha una posizione di centralità strategica, non di marginalità e arretratezza. È una regione che è parte di un paese che figura tra gli otto “grandi” del pianeta, e che contiene al suo interno zone ricche di risorse e piene di bocche da sfamare. È l’estrema punta della ricca Europa sul Mediterraneo e porta dell’Occidente verso il Sud del mondo. Come vediamo in questi giorni, l’azione multilivello di politica corrotta, grande capitale, borghesia delle professioni e imprenditoria locale spregiudicata si svolge dentro questi binari. Che non escludono, nelle fasi di transizione e mutamento, lotte di potere, faide e manovre di smarcamento, rottura di alleanze.

Quando i due autori definiscono la ‘ndrangheta “cane da guardia” e “fenomeno di complemento”, non ne sminuiscono il ruolo: al contrario svolgono un’intelligente opera di decostruzione del mito delle ‘ndrine. Demistificano la narrazione fatta di onore e fedeltà della ‘ndrangheta e della mafie in generale, ne denunciano la collusione coi poteri. Se è vero che la criminalità organizzata controlla il territorio – sembrano dire i due autori – allora dove stanno questi ‘uomini d’onore’ quando le multinazionali seppelliscono rifiuti tossici sotto le case di quelli dei quali controllano i voti? Chi stanno proteggendo quando le carrette del mare provenienti dal nord Europa avvelenano i mari nei quali i nipoti dei boss ancora oggi fanno il bagno? Dove volgono lo sguardo mentre i signori dell’acqua privata svuotano i laghi della Sila dove furbissimi lorsignori portano le loro amanti a mangiare la domenica?