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Terrore di Stato in Turchia

Mentre le immagini dell’ennesima strage di civili in Turchia scorrono sulle televisioni di tutto il mondo e appaiono sulle bacheche fb di migliaia di utenti, è necessario fermarsi, ragionare e inserire questo episodio all’interno della catena di violenze che da giugno hanno colpito i curdi e le opposizioni a Erdogan. Leggi anche: Turchia, esplosioni alla marcia della pace, oltre cento morti

Senza andare troppo indietro nel tempo, un’altra bomba era esplosa il 5 giugno 2015, a Diyarbakir, poco prima che Selahttin Demirtas, co-presidente dell’Hdp, intervenisse di fronte a una piazza strapiena nel comizio di chiusura della campagna elettorale. Bilancio: quattro morti; oltre 400 feriti; cariche indiscriminate della polizia per sgomberare la piazza; lunghe ore di scontri con la popolazione scesa immediatamente in strada per rispondere all’orrore.

Eppure né quella bomba, né le violenze e gli omicidi commessi durante la campagna elettorale erano riusciti ad assicurare il successo al dittatore turco. Per la prima volta un partito curdo entrava in Parlamento, superando il più alto sbarramento al mondo (10 per cento!) e facendo saltare la maggioranza assoluta al partito di governo.

Evidentemente Erdogan non l’ha presa bene. E ha deciso di di scatenare una guerra senza quartiere al popolo curdo e alle opposizioni interne. Una guerra che parla di oltre 2000 arresti in pochi mesi tra membri, parlamentari e amministratori dell’Hdp, di oltre 500 civili uccisi e di altre bombe. Quella che ha avuto più eco nella stampa internazionale è stata l’esplosione di Suruc, 21 luglio 2015: 32 morti. Ragazze e ragazzi turchi che, per la prima volta, portavano solidarietà ai curdi e alla resistenza di Kobane. Obiettivo dell’attentato: colpire la solidarietà internazionale e quella interna alla Turchia. Una strage commessa da un presunto kamikaze dell’Isis, con chiare e documentate responsabilità dell’esercito turco. Una strage che ha creato sdegno a livello internazionale, aumentando le pressioni su Erdogan per un impegno più deciso contro lo Stato Islamico.

Di questa situazione il dittatore turco ha fatto tesoro, scatenando una doppia offensiva: di facciata contro l’Isis, di fatto molto dura contro il Pkk e contro il popolo curdo. Incassata la copertura internazionale in cambio della concessione delle basi turche alla Nato, Erdogan ha rotto unilateralmente la tregua con il Partito dei Lavoratori Kurdi, il Pkk, iniziando a bombardare a tappeto i villaggi curdi nel nord dell’Iraq, provocando centinaia di morti tra i civili. Contemporaneamente, ha scatenato un’offensiva nel Kurdistan turco e nelle principali città del Paese. Giornalisti turchi, curdi e stranieri arrestati, redazioni di giornali assaltate, sedi dell’Hdp distrutte, civili curdi linciati e decapitati. Una città di 200 mila abitanti, Cizre, posta addirittura sotto assedio dall’esercito turco, che l’ha prima isolata, tagliando luce, acqua, corrente, collegamenti telefonici e internet, e ha poi piazzato i cecchini sui tetti. Oltre 30 persone sono state uccise in una settimana, soprattutto anziani e bambini.

Inutile ricordare che l’assedio è una tattica di guerra che i turchi hanno utilizzato contro una popolazione civile, inutile sottolineare che si tratta di chiari crimini contro l’umanità avvenuti a pochi chilometri dalle nostre coste, soltanto alcuni giorni fa. La strage di oggi va inserita in questo contesto: quello della guerra che uno Stato sta facendo contro i suoi cittadini, il contesto dell’offensiva stragista di un dittatore che non si fa nessuno scrupolo a mietere centinaia di vite umane.

Non c’è bisogno di un’inchiesta di qualche magistrato per capire che anche questa bomba è una bomba di Stato, è una bomba firmata Akp ed Erdogan, è una bomba che vuole diffondere paura e vorrebbe creare un clima di unità nazionale dietro al dittatore turco in vista delle elezioni del 1 novembre. I leader dei paesi dell’Unione Europea, che in questi giorni fanno a gara per ricevere Erdogan e proporgli accordi per mettere fine al transito dei rifugiati, e i giornalisti dei principali mezzi di comunicazione internazionale, che evitano di contestualizzare questa strage e denunciare le atrocità commesse dal regime turco, farebbero bene a invertire immediatamente la rotta.

Più che dell’afflusso di rifugiati, l’Unione europea dovrebbe preoccuparsi del fatto che in un Paese confinante, che tra l’altro ha iniziato un percorso di adesione, si sta consolidando una dittatura sempre più sanguinaria e che se Erdogan è deciso a non mollare il potere neanche dopo una nuova, probabile, sconfitta elettorale, il rischio di una guerra civile diventerà ancora più concreto.

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