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Teologia degli storni

Il bilancio luci e ombre della manifestazione milanese NoExpo del 1° maggio è stato autorevolmente tratto dai partecipanti più responsabili e non è il caso di ripeterlo. Se non per trattenersi in un angolo visuale da cui meglio afferrare l’insieme.

Di rabbia spontanea ce n’è in giro parecchia, scaturisce dalla destrutturazione degli status sociali e delle aspettative ancor più che dall’impoverimento, ma è una favola che a Milano si sia soggettivata e incarnata in un’eccedenza. La disgregazione produce passività fluttuante e offre combustibile a veloci scoppi d’ira, ma in certi riot abbiamo a che fare con portatori di disegni complessivi, che si teorizzano come tali, abbastanza indipendenti dai contesti locali. Li (si) chiamano black bloc (necessità del brand). Non è lo Spectre, ma una struttura flessibile di tipo non partitico, un corpo di pronto intervento che si muove per vertici e controvertici secondo un piano di attacco al capitale globale; una specie di flash mob per la guerra simulata.

Per l’Autonomia diffusa mondiale –uno degli eteronimi con cui quest’area si autodefinisce, non un soggetto con sede, targa e iscritti– ha esposto una parte del suo programma e chiede con insistenza di essere considerata una forza con un progetto proprio, criticando chi «non riesce a vedere una “strategia politica” nella sequenza dei riot europei a decentrarsi». Occorre prendere sul serio tale pretesa, valutarla e combatterla, nella misura in cui implica una notevole dose di spirito di scissione, al punto da asserire che sono in gioco due ipotesi: puntare al governo, tipo Podemos e Syriza, oppure «tentare una diversa “verticalizzazione” delle lotte, cioè organizzarle in un movimento rivoluzionario». Le due possibilità «non sono compatibili e a ben guardare nemmeno alternative tra loro: sono nemiche». Chiaro, no?

Trascurando il piccolo particolare, omesso di regola in tutte le drastiche dicotomie, che è possibile praticare percorsi diversi da Podemos e Syriza, pur guardandoli con interesse critico, senza ridursi alle coreografie dei militanti alfa. Quelle esperienze di mezzo sono parti decisive del reale e delle sue contraddizioni, di cui il momento elettorale e di governo sono un polo, l’altro le lotte di strada, il mutualismo, le occupazioni. Mentre una coreografia è bella o brutta e la sua verticalità è tutta metaforica. Potere destituente? Prendiamolo per buono: chi e dove è stato destituito? a parte i relitti dei vecchi movimenti e social forum…

Non si può certo recriminare che tali componenti non prendano parte ad accordi preliminari con altre formazioni in occasione di manifestazioni (se ne considerano, alla Schmitt, “nemici” e non “rivali” o competitor) ed è sgradevole che adottino nei loro confronti espedienti che discendono dritti dal Catechismo del rivoluzionario del nichilista Nečaev (mettere alle corde i “riformisti” e ancor più gli imitatori zelanti, comprometterli, ricattarli, infilarsi al centro di cortei non organizzati da loro) –ma anche questo è marginale, caso mai impone determinate cautele e contromisure. Occorre andare a fondo, criticare e smantellare la loro logica senza rimpiangere pratiche improponibili del passato: le teste di corteo, i servizi d’ordine, le sfilate (processionali o vivaci), le “scadenze”. Una ritualità congrua a forme ormai desuete di sovranità e di governo, di cui costituivano la controparte sovversiva, extraparlamentare, come partiti e sindacati ne erano quella ufficiale e integrata. Quel mondo fordista e sovranista non c’è più, la maggioranza dei attivisti è addirittura nata dopo. Non vedranno (per fortuna) gli intergruppi, non vedranno (purtroppo) le pensioni. Il fascino della proposta black deriva dalla rottura apparentemente irreversibile con un antagonismo datato e fallito.

Ma è tutto oro il nuovo rilucente posizionamento?

Il 14 ottobre 1952, a conclusione del XIX congresso del Pcus, Stalin affermò che la borghesia aveva buttato nel fango le sue bandiere (le libertà democratiche, l’indipendenza e sovranità nazionali) e che toccava ai comunisti occidentali raccoglierle e portarle avanti. Un’operazione propagandistico-difensiva nel breve periodo (prendere fiato in una fase acuta della guerra fredda), ma che avrebbe innestato una deriva riformista dei partiti satelliti con la scusa di un pericolo fascista imminente. Negli anni ’50 l’imperialismo Usa non era il nazi-fascismo degli anni ‘30, così come nel 1973 la sanguinaria dittatura di Pinochet era l’avanguardia armata del neo-liberalismo di Chicago (ciò che rendeva il compromesso storico di Berlinguer una ripetizione inefficace di tattiche passate) e l’odierna governance multipolare non è lo “Stato d’eccezione”, cioè il paradigma unificato di un esercizio normalmente eccezionale del potere dopo l’11 settembre 2001, la condensazione della guerra civile legale e della tanatopolitica verso ogni avversario e gruppo resistente. I black non sono stalinisti o togliattiani o berlingueriani (figure di cui si è persa memoria), ma condividono un analogo errore dell’obbiettivo e adottano dunque armi improprie.

Oggi un videogioco di successo aggiorna quella logora strategia rovesciando la teologia politica dell’agonico Sovrano novecentesco in una teologia della rivolta (la stasis, la stasis!), in cui a gestire l’eccezione è un’avanguardia ribelle invisibile e mobile, le cui azioni esemplari insurrezionali finirebbero per produrre il “popolo che manca”, il significante vuoto di Laclau al centro di una catena di equivalenti. Alla Repräsentation schmittiana dall’alto, che produceva un popolo assente disprezzando i compromessi liberali e corporativi, si contrapponevano simmetricamente, suoi degni avversari, il mito sorelliano dello sciopero generale e la paura della democrazia diretta soviettista. Peccato che oggi le cose non funzionino più così e il capitalismo finanziarizzato globale nel segno del neo-liberalismo si sia dato organi e strumenti diversi. La dimensione globale è ben presente agli attivisti della nuova Internazionale anarco-insurrezionalista (nome di fantasia), ma il loro discorso resta alternativo a un modello di decisione e di sovranità che è stato sostituito da meccanismi altrettanto micidiali di comando, non più identificabili e afferrabili con quelle modalità. Vai a combattere la governance con le rivolte a sciame…

Spettacolo garantito ma si recita su un palcoscenico di sotto-sistema, senza misurarsi con quanto si gioca a livello di sistema globale e insieme articolato. Le due performances mediatiche sono deliberatamente opposte ma non entrano mai in contatto come, su una mappa il quadrante “riottoso” di Milano e il traballante Eden dell’Expo a Rho. Indovinate quale narrazione prevale?

Micidiali sono i vantaggi tattici dell’Autonomia diffusa nei confronti di un movimento confuso e in via di ristrutturazione mentale e organizzativa, debolissimo il suo impatto sull’avversario di classe. Un’estetica delle rovine (perseguita con maggior efficacia dall’agenzia di moda che ha postato la modella accanto alla macchina rovesciata) e della «ridefinizione dell’arredo urbano» (chapeau!) fa presa facile –più facile della retorica bavosa del “decoro” e del “ripuliamo la nostra città”– su un precariato frustrato e incazzato che non ha nulla da perdere. È un movimento “nomadico”: non nel senso della macchina da guerra deleuziana, ma della geometria variabile dei voli di storni al tramonto (rubo la leggiadra similitudine a Lanfranco Caminiti), compreso però il tappeto di guano che lasciano in loco. Comunque esso prevale su sedentari disorganizzati e litigiosi, sull’usura dei linguaggi e dei simboli. Non c’è simmetria possibile fra litanie e un immaginario “altro”, quale rivendica un successivo e alquanto difensivo documento a firma simile.

Ben poco incide, però, questa grande Repräsentation apocalittica all’inverso sui meccanismi della governance, prontissima a perimetrare la guerra simulata in un settore a basso costo: scope, detersivi e spese per processare i soliti quattro sbandati presi a caso. La messa in scena, mediaticamente curata secondo i canoni della società dello spettacolo, lo è purtroppo di forme di lotte che andavano bene in una fase anteriore del comando del capitale. Per paradosso, i black bloc sono gli eredi “brutti e cattivi” della protesta democratica e solidale, bloccati da un nemico fantasmatico –non perché non ci sia ma perché sta in un posto diverso, va quindi affrontato con pari energia ma con modi più efficaci.

Filosoficamente l’idea di eventi assoluti, irruzioni del miracolo nella storia, scioglie le sequenze significative nel vuoto, cortocircuita in maniera illegittima Schmitt e Badiou –che infatti bolla siffatte operazioni per gauchisme spéculatif rivendicando il carattere locale e localizzabile dell’evento, mai isolato ma connesso a una serie di conseguenze iscritte in un tessuto. Politicamente l’attribuzione alla Stato di un’eccezione permanente (Benjamin dirottato da Agamben) schiaccia la concreta governance neo-liberale su un fascismo metafisico, cui opporre una altrettanto metafisica destituzione, che fa del riot non un sintomo di crisi ma un mezzo privilegiato di risoluzione.

La critica di quella strategia a retroterra “teologico” non ci deve però impedire di comprendere perché essa conosca un effimero successo e comunque segnali i limiti di impotenza del movimento. Allo stesso modo il disgusto per il corteo scopaiaolo (in senso osceno, cioè di far pulizia) dietro Pisapia non cancella il parziale fallimento della contestazione dell’Expo. Come uscire dal circolo vizioso fra sovversione inane e ritorno all’ordine? Dalla parodia ambrosiana, non esente da tentazioni di linciaggio, di quanto si verificò con la ripresa gollista della piazza a fine maggio 1968 e con la marcia dei 40.000 nell’ottobre 1980 dopo l’occupazione alla Fiat?

Denunciamo il carattere residuale e ultra-novecentesco di uno stile minoritario e, a differenza dagli anni ’70, militarmente assai fragile, dopo di che il problema è che non propongono un modello inclusivo, diffusivo, trasversale, praticabile da settori sufficienti della moltitudine precaria. Non coinvolgono, anzi allontanano una pluralità di soggetti e rendono impossibile, per metodo e per discontinuità territoriale e temporale, qualsiasi costruzione di istituzioni del comune. L’altro problema è che ci riusciamo poco e saltuariamente anche noi che li critichiamo.

La pazienza non va raccomandata ai poveri e agli insorgenti, ma ai militanti rivoluzionari (ai poveri e insorgenti in quanto militanti rivoluzionari) sì. Servono fluttuazioni più lente e molecolari, in cui si definiscano soggettività non standard, più rispondenti a come il vecchio si mischia il nuovo. Una situazione assolutamente continuativa quale il mondo della scuola, che appartiene al tessuto della prima repubblica e del lavoro pre-fordista, oggi svolge una forte azione di contrasto alla modernizzazione neo-liberale con la scontata arma dello sciopero. Il Social strike ha cercato, con esiti limitati ma promettenti, di dare voce al mondo eterogeneo del precariato con forme di lotta che con quelle tradizionali della scuola hanno solo somiglianze di famiglia. Quel disagio occupazionale e lavorativo è tipicamente giovanile e sembra non aver alcun rapporto con il terremoto che si annuncia fra i percettori di pensioni medie e basse dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’adeguamento al costo della vita: eppure sappiamo benissimo che esiste una complementarità nel bilancio familiare fra trasferimenti dei nonni e mantenimento dei nipoti precari. Solo un reddito universale di cittadinanza è in grado di redistribuire i costi fra le generazioni e riavviare una dinamica delle retribuzioni e dei consumi. I migranti regolari, privi di diritti politici, chiudono il circuito versando i contributi pensionistici che altrimenti mancherebbero, e quelli irregolari (che gli apologeti di stragi chiamano “clandestini”) sono il bacino privilegiato del capitalismo “estrattivo”.

Sebbene finora insoddisfacente, il lavoro in queste e in aree consimili è l’unico degno di nota, un tentativo realistico di ricomporre l’infranto senza forgiare gratis per il nemico armi di distrazione di massa. Almeno per cominciare, su scala locale, intuendo che probabilmente il discorso è estendibile altrove. Ci abbiamo provato con Blockupy ed è la sfida dei prossimi mesi.