MONDO

Sulla Turchia la UE piange lacrime di coccodrillo. Ma è già tardi

Le motivazioni del rapporto OSCE sull’irregolarità del referendum costituzionale turco, le reazioni internazionali, le armi spuntate e tardive dell’Unione Europea. Senza dimenticare responsabilità e collusioni con la deriva autoritaria turca che ha già trasformato la costituzione materiale del Paese.

Erdogan “vince” il referendum, ma ha metà Turchia contro
Turchia, il referendum e le sue conseguenze
Sul prossimo referendum costituzionale in Turchia

È stata pubblicata ieri la «Dichiarazione di risultati e conclusioni preliminari» sulla missione di osservazione internazionale sul referendum turco realizzata dal 17 marzo al 17 aprile da OSCE/ODIHR (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa/Organizzazione per le istituzioni democratiche e i diritti umani) e PACE (Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa). Quindici pagine che certificano come il referendum sulla riforma costituzionale di Erdogan non rispetti i criteri minimi stabiliti a livello internazionale. Per gli organismi europei, dunque, il voto non è valido.

Le critiche di OSCE e PACE riguardano soprattutto tre questioni: campagna referendaria; contesto legale e stato di emergenza; le ultime decisioni della Comissione elettorale suprema. Secondo gli osservatori europei la campagna elettorale si è svolta in «condizioni non paritarie» (unlevel playing field) e i due schieramenti non hanno goduto di uguali opportunità. La campagna per il No ha subito numerose limitazioni: attacchi fisici, arresti e denunce per l’organizzazione di «eventi illegali» o per «oltraggio al Presidente». In generale, nelle settimane precedenti al voto «la campagna per il No o i suoi sostenitori sono stati equiparati a simpatizzanti dei terroristi». Il rapporto sostiene che la libertà di espressione sia stata ulteriormente ristretta dalla chiusura di diversi mezzi di comunicazione, dagli arresti di giornalisti seguiti al tentato «colpo di Stato», dalla legislazione d’emergenza e dal fatto che molti di questi mezzi appartengano a gruppi d’affari che dipendono dagli appalti pubblici (fatto denunciato domenica scorsa dall’Espresso anche rispetto alle aziende implicate nel gasdotto Tap). Gli osservatori OSCE/ODIHR hanno calcolato perfino i tempi a disposizione dei diversi schieramenti nei media: il 77,5% dello spazio è stato riservato al Sì, il 23,5% al No.

Dure critiche vengono rivolte anche al contesto legale in cui si è svolto il referendum, ritenuto «inadeguato». Lo stato di emergenza, infatti, ha pesantemente limitato diritti e libertà fondamentali. In particolare, i decreti ad esso collegati hanno modificato la legislazione riguardante il referendum «eccedendo le esigenze dello stato d’emergenza». Dalla proclamazione dello stato d’emergenza il 21 luglio scorso (rinnovato il 19 gennaio e poi ancora il 18 aprile) più di 100mila persone sono state arrestate. 40mila sono ancora detenute. Oltre 150mila dipendenti pubblici sono stati licenziati. Più di mille compagnie private sono state sciolte e le loro risorse sono passate nelle mani dello Stato. Quasi 4mila tra giudici e procuratori, circa il 30% del totale, sono stati cacciati dalla magistratura e rimpiazzati, incidendo «sull’indipendenza del [potere] giudiziario nel periodo del referendum». Inoltre, almeno 570mila persone sono state escluse dall’iscrizione ai registri elettorali, in base a restrizioni del diritto di voto spesso sproporzionate e arbitrarie.

Una critica a parte si concentra sulla misura maggiormente contestata dalle opposizioni, cioé la decisione della Corte elettorale suprema (YSK) di accettare come valide le schede non timbrate dalle commissioni elettorali dei seggi. «Queste istruzioni hanno compromesso un importante dispositivo di sicurezza e contraddetto la legge che vieta esplicitamente che queste schede siano considerate valide». La decisione, tra l’altro, è stata presa a urne aperte. L’YSK, inoltre, non è stata in grado di fornire il numero complessivo delle schede non timbrate.

I due principali partiti di opposizione, CHP e HDP, hanno presentato ricorso proprio contro questa misura, chiedendo di annullare il voto. Secondo i calcoli del partito repubblicano le schede non timbrate sarebbero almeno 2,5 milioni. Il ricorso, ovviamente, ha ben poche speranze di riuscita. E ancora meno ne avrà da questo pomeriggio, quando «a causa delle condizioni atmosferiche» è caduto un elicottero che trasportava 12 persone: tra loro c’erano un giudice e tre membri della Commissione elettorale suprema.

Al contrario, il rapporto non ha giudicato particolarmente problematico lo svolgimento delle operazioni di voto. Nonostante gli osservatori ammettano di aver potuto controllare solo poche sezioni elettorali e dichiarino esplicitamente che nel sud-est del paese i seggi erano presidiati dai militari e che ad altri osservatori internazionali e membri della società civile è stato impedito di svolgere attività di monitoraggio. Su questo aspetto, però, si sono concentrate numerose denunce di ONG e giornalisti independenti che, anche attraverso documentazione video, hanno mostrato il clima di minaccia, le pressioni, la mancanza di segretezza del voto e i numerosissimi abusi commessi all’interno e all’esterno delle sezioni elettorali.

I risultati pubblicati da OSCE e PACE erano molto attesi a livello internazionale. Nelle dichiarazioni istituzionali dei principali leader europei venivano menzionati come il più importante strumento per valutare le eventuali irregolarità del voto. Un giudizio così duro, dunque, oltre al dato tecnico, esprime anche una posizione politica dell’Europa rispetto alle recenti accelerazioni di Erdogan. Nelle 48 ore successive ai risultati, capi di Stato ed esponenti delle istituzioni europee si sono affrettati a criticare, con toni diversi, sia il voto, sia la stessa riforma. In un comunicato congiunto del presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri Federica Mogherini e del Commissario alla politica di vicinato Johannes Hahn, la Turchia viene incoraggiata «ad affrontare le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, incluse quelle sullo stato d’emergenza», chiamando «le autorità turche a cercare il più ampio consenso nazionale nell’applicazione della riforma». Anche Angela Merkel ha rinnovato gli inviti alla distensione ad Erdogan, affermando che il «governo federale tedesco si aspetta dal governo turco l’impegno a un dialogo rispettoso con le forze politiche e sociali del Paese dopo una dura campagna referendaria». Altri leader, come Emmanuel Macron, il candidato attualmente favorito per l’Eliseo, hanno concentrato le loro critiche sulla questione della reintroduzione della pena di morte. Più deciso il premier austriaco Sebastian Kurz, secondo cui il referendum ha messo fine al percorso di avvicinamento della Turchia alla UE. Molto dura anche Kati Piri, Relatrice del Parlamento europeo sulla Turchia: «è chiaro che il Paese non può unirsi all’Unione Europea con una costituzione che non rispetta la separazione dei poteri […]. Se il pacchetto verrà aplicato senza modifiche, questo porterà alla fine dei negoziati di ingresso».

Dal canto suo, Erdogan non è sembrato particolarmente preoccupato dalle critiche che vengono dall’Europa. Il Sultano ha dichiarato di aver combattuto contro «nazioni dalla mentalità di crociati» e che l’esclusione dai negoziati europei «non è così importante». Del resto, oltre alle critiche sono arrivati anche endorsement decisivi. Putin, per bocca del portavoce del Cremlino, si è schierato dalla parte di Erdogan affermando che il referendum è una questione di politica interna turca e che «i risultati vanno rispettati». Anche Trump ha rotto gli indugi statunitensi telefonando personalmente al Presidente turco e congratulandosi con lui.

Insomma, pare che i leader europei, alla fine, si siano accorti di quello che sta accadendo al di là dell’Egeo. Probabilemte, però, è già troppo tardi, visto che il tema dei negoziati per l’ingresso nell’UE sembra non interessare più Erdogan, che ormai guarda da un’altra parte. Del resto, in Turchia costituzione e stato di diritto valgono già da tempo solo a livello formale. Gli stessi governi che oggi abbaiano verso le coste turche hanno sostenuto apertamente Erdogan negli ultimi anni, finanziando lautamente il suo governo e chiudendo tutti e due gli occhi sulle continue violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani. Oggi Erdogan è pronto a trasformare la costituzione formale del paese, buttando in acqua alcuni presupposti fondamentali delle democrazie rappresentative come la divisione dei poteri e la tutela dei diritti fondamentali, soltanto perché in questi anni ha potuto ribaltare la costituzione materiale del paese, anche grazie alle complicità dei paesi occidentali.

Come dimenticare il silenzio dell’Europa sul massacro di Cizre e sui tanti altri episodi di pulizia etnica nel Kurdistan turco? Come dimenticare che Angela Merkel volò a Istanbul per incontrare il Sultano a pochi giorni dalle elezioni del 1 novembre 2015, promettendo la liberalizzazione dei visti e dunque dando una marcia in più alla sua candidatura a presidente? Come dimenticare che Renzi dopo il presunto colpo di Stato del luglio scorso disse: «Sollievo, prevalgono stabilità e democrazia»? Come dimenticare che l’UE ha consegnato sei miliardi di euro al Sultano pur di non aprire le porte ai rifugiati siriani?

Oggi, le lacrime di coccodrillo dei leader europei fanno sorridere di rabbia. Pensare che Erdogan, che ha l’appoggio delle due principali superpotenze mondiali, risponda ai timidi inviti all’apertura del dialogo con le altre forze politiche o al rispetto dei diritti umani, o che si preoccupi delle «procedure democratiche» è follia. L’Europa, se avesse una politica estera comune e non fosse ostaggio di estremisti neoliberali preoccupati solo di contenere la spesa pubblica, dovrebbe immediatamente costruire le condizioni per poter esercitare qualche forma di influenza sul Sultano: prepararsi ad accogliere i rifugiati, spuntando quella potente arma di ricatto che gli ha messo in mano; rivedere gli accordi commerciali; interrompere quegli investimenti, come ad esempio il gasdotto Tap, che inevitabilmente saranno utilizzati da Erdogan per tenere in scacco i paesi europei.

La Turchia vive ormai da tempo una deriva fascioislamista e autoritaria. Il Paese è una bomba a orologeria di cui, alla luce della sua potenza militare e consistenza economica e demografica, è impossibile prevedere gli effetti della deflagrazione. Questo quadro cupo è stato disegnato da Erdogan con la debolezza e la collusione dei Paesi europei. Ormai la questione non è modificare alcune sfumature di colore. Senza trasformazioni radicali e decisive sulla cornice e sul disegno, il risultato finale non potrà che essere un vero disastro.