MONDO

Regeni ucciso due volte

Lo spot pubblicitario di Repubblica ad Al-Sisi preannuncia venti di guerra.

“Carta cacata” ovvero carta igienica usata, così nel suo raffinato lessico latino Catullo (Carmina, XXXVI) chiamava i libracci di allora e oggi possiamo chiamare i giornalacci tipo Repubblica del 18 e 19 marzo, contenente in due puntate l’intervista al maresciallo Al Sisi.

Il dittatore si muoveva nella sua reggia di Heliopolis «senza troppe cerimonie», aveva cambiato la divisa con «un abito grigio e camicia bianca» e aveva sostituito gli stivali «con scarpe nere lucide». A spolverarle si sono prostrati ginocchioni il direttore di Repubblica Mario Calabresi e il vice-direttore Gianluca De Feo. L’odore dell’incenso era sovrastato dai vapori volatili della benzina e sullo sfondo si stagliava l’ombra grassottella di Renzi.

Per due ore il Presidente egiziano sproloquia sui rapporti privilegiati con l’Italia e con l’Eni, rimarcando in particolare «la grande stima e profondo rispetto per Matteo Renzi, che considero un vero amico mio e dell’Egitto. Abbiamo un ottimo rapporto e lui è persona di principi che non dimentica gli impegni e i legami che abbiamo». Ogni sospetto di tono ricattatorio è certo infondato: “lui” non dimentica e ci siamo fatti delle offerte che non si potevano rifiutare.

Alla fine della prima tornata di domande il Faraone scandisce: «Permettetemi di rivolgermi alla famiglia di Giulio Regeni». Ha capito «cosa il mondo si aspetta da lui» e «guardando un punto fisso nel vuoto ricomincia a parlare lentamente in arabo per essere sicuro che il traduttore non perda una parola». Un pezzo sublime di giornalismo vecchia maniera, che i blogger che vuoi che cazzo capiscano.

«Mi rivolgo a voi come padre prima che come presidente, comprendo totalmente la pena e il dolore che state provando per la perdita di vostro figlio, sento il senso di amarezza e lo sconvolgimento che ha spezzato il vostro cuore. Lo comprendo e il mio cuore e le mie preghiere sono con voi. Vi faccio le mie più sentite condoglianze e sono solidale con la vostra grande perdita. Vi prometto che faremo luce e arriveremo alla verità, che lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio».

Contrito e, al tempo stesso, deciso a far luce. Chissà che paura si stanno prendendo i suoi sbirri e come saranno contenti i genitori di Giulio. Almeno quanto direttore e vice-direttore. Ma in cosa consistevano le forti domande poste a schiena flessa dai due valorosi giornalai? Regeni, per forza. Quanto la sua atroce agonia e fine abbia sconvolto gli italiani. Il danno che ne viene alle buone relazioni con l’Egitto. Al Sisi è serafico (ai torturati e assassinati locali, del resto, ci ha fatto il callo): «Per prima cosa voglio dire agli italiani che questa morte è uno shock per l’Egitto come per l’Italia. Ciò che è accaduto è terribile e inaccettabile, non ci appartiene e sconvolge non solo il governo ma tutto il popolo egiziano». Ai turisti non mai stato torto un capello (ci mancherebbe!), Regeni rimane un caso unico. Chissà chi si è sbagliato. Le indagini ridicole? Tutto è in mano alla magistratura e si lavora giorno e notte per scoprire i colpevoli.

Ma avrete un’idea di cosa possa essere successo al ricercatore italiano? – domandano con un filo di voce gli intervistatori. Al Sisi assume un tono oracolare: «Sulla morte di Regeni ci sono molti interrogativi che dobbiamo porci» –credo bene! – «il primo è sulla tempistica, in particolare sulla scoperta del corpo. Perché è accaduta durante la visita di una delegazione italiana di imprenditori»? Tecnica classica del “non è un caso se”, qualcun altro ha voluto danneggiarci attribuendoci un misfatto, scoperta a orologeria. Il problema non è l’assassinio, ma il rinvenimento del cadavere. «Chi ha interesse a boicottare o bloccare l’ampia collaborazione tra Italia ed Egitto sul fronte dell’energia e della sicurezza, in una fase di turbolenza in tutta la regione»? Ovvero: non rompete i coglioni, altrimenti ne va del vostro petrolio e vi scarichiamo terroristi e migranti economici. Gli assassini sono i nemici di Al Sisi, come si evince da una caterva di fatti senza collegamento con l’affare Regeni (attentati ai magistrati e turisti, abbattimento dell’aereo russo, ecc.). I bravi giornalai avallano di fatto quel depistaggio e prendono per buona la promessa di intensificazione delle indagine e individuazione dei colpevoli. Peccato che le autorità egiziane (tutte infiltrate e ostile al Presidente?) hanno dato molteplici versioni di quella morte e scovato già improbabili capri espiatori poi prontamente mollati (qualcosa mi ricorda piazza Fontana e commissari e questori di allora). Poi salta fuori (lungi da noi ogni idea di ricatto) «Adel Moawad Heikal, un egiziano che è scomparso cinque mesi fa in Italia ma di cui non abbiamo mai avuto notizie. Tutti gli sforzi di ricerca non hanno avuto successo». Siamo pari, insomma. Non è che sarà andato in Svezia o in Germania come decine di migliaia di altri migranti “spariti”? Vogliamo rovinarci la vita per questo? «I tempi duri mostrano e testano la forza e la durata delle relazioni di amicizia tra i Paesi». Saggezza orientale…

Qui subentra – previo cambiamento di voce, ma quanto è umano lui – l’ipocrita messaggio alla famiglia di Regeni, sopra citato, subito seguito da ammonimenti sul pericolo del terrorismo sulla legittimità di combatterlo con ogni mezzo – del tipo di quelli che emergono dall’autopsia di Regeni. Lotta al terrorismo e ai suoi sponsor (supponiamo che voglia denunciare l’Iran, non i suoi protettori sauditi). Meno male che «Renzi ha capito perfettamente cosa c’è in gioco e per questo ci sostiene e io sono grato per il sostegno dell’Italia». L’interessato risponde prontamente, in effetti: «Adesso tutti insieme troviamo i colpevoli», parenti e connazionali della vittima insieme agli assassini. «Quelle di Al Sisi sono parole importanti» e confermano il «rapporto speciale tra Italia ed Egitto».

Seconda tornata dell’intervista, l’affaire libica. Cosa cazzo vogliono fare gli europei?

Exit strategy

, ragazzi. Malgrado l’arazzo bellico fiammingo che fa da tappezzeria (descrizione letteraria del medesimo), il generale sta assai cauto. Chi comanda, come si entra in Libia e come se ne esce? Chi provvederò a proteggere la popolazione e a saldare i danni? Tutto deve avvenire su richiesta libica – cioè del “suo” governo fantoccio, quello di Tobruk, non dell’altro di Tripoli o di fantomatici esecutivi di riconciliazione timbrati Onu come quello di Fayez al Sarraj insediato a Tunisi – e della Lega araba a direzione saudita. Il nemico non è solo Daesh ma tutti i gruppi qaedisti assortiti e alla fine legati con gli odiatissimi Fratelli musulmani, influenti nel governo di Tripoli. Si guardino bene l’Italia e l’Europa dall’appoggiarlo – come invece Renzi sta un po’ facendo, per la delega che ha ricevuto di impicciarsi solo della Tripolitania e del terminale Eni di Mellitah. Sostenete invece, come i francesi, l’opera del generale Haftar, pazienza che lavora per la Total. Altrimenti l’Egitto dovrà intervenire direttamente e sarà peggio per il ruolo italiano e per il petrolio cirenaico. Per non parlare dei profughi che vi invaderebbero. Noi già non ce la facciamo a tenerli in transito da noi, figuriamoci se ci rompete le palle con scelte strategiche sbagliate o accuse di tortura.

Infine Al Sisi conclude con pelosa misericordia: «Non abbandonate i poveri e i deboli, non voltate loro le spalle». Fatto il servizio, gli intervistatori si congedano. Sperando nel Pulitzer dei lustrascarpe.