POTERI

Otto riflessioni per un nuovo sguardo sulle scienze

Apriamo un dibattito sulle scienze… natura, metodo, rapporto con il potere e intreccio con la politica, la competizione, la precarietà . Queste sono otto riflessioni per discutere di una riappropriazione dal basso delle scienze.

Gli zapatisti incontrano la scienza

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Nel primo libro della Trilogia della Fondazione[1], Isaac Asimov racconta di un futuro remoto in cui l’Impero Galattico cade in rovina, mentre una comunità di scienziati riesce ad evitare migliaia di anni di barbarie continuando a sviluppare nuova scienza. Gli strumenti in dotazione a questi scienziati sono così avanzati e spettacolari che il resto dell’umanità crede siano frutto di magia. Sugli altri pianeti, infatti, la tecnologia si è fossilizzata in quella raggiunta nell’ormai passata epoca di massimo splendore, gli sforzi sono rivolti alla sua mera conservazione e la gestione dell’energia atomica è in mano ad una potente casta di sacerdoti, che sanno solo usare le centrali, senza realmente capirne il funzionamento.

Asimov era un visionario, e molte delle sue idee fantascientifiche si sono avverate; in questo caso, siamo ancora molto lontani dal colonizzare un impero galattico, tuttavia possiamo chiederci: fino a che punto possiamo spingere oggi l’analogia tra scienziati e maghi, o sacerdoti? In effetti scienza, magia e religione sono agli antipodi per definizione, e questo potrebbe esaurire il discorso, ma al contrario, le questioni che pone la metafora asimoviana sono fondamentali.

Fino a che punto chi è fuori dalla “comunità scientifica” ha idea di cosa sia la scienza e di quali siano i suoi “metodi”? Cosa si cela “dietro” al risultato finale e “prima” di esso, sia questo un nuovo giocattolo tecnologico o l’ultima cura anti-cancro? Gli scienziati, invece, quanto sono consapevoli, ad esempio, dell’uso che verrà fatto delle loro scoperte? Hanno realmente sotto controllo tutta la filiera che porta al risultato? Gli scienziati si interrogano su cosa sia la scienza, o la usano e basta? E ancora: quanto è equilibrato il rapporto tra scienziati e non-scienziati? È un rapporto di reciproco rispetto e fiducia o è un rapporto impari, di sudditanza verso un’autorità?

Per essere più chiari, usciamo dalla fantascienza e consideriamo un evento recente: a cavallo tra Dicembre e Gennaio scorsi, in Chiapas (Messico), tra le comunità indigene Zapatiste si è svolta ConCiencias, una conferenza mondiale sulla scienza. Per la prima volta nella storia, una popolazione che per secoli ha subito una colonizzazione brutale anche grazie alla disparità tecnologica col mondo occidentale, ha deciso di affrontare direttamente la questione scientifica. Lo ha fatto per la necessità materiale di far fronte ai cambiamenti sociali e climatici globali che necessitano, per essere risolti, anche di sviluppare e approfondire alcuni saperi scientifici. Nel più classico stile zapatista, la conferenza è stata lanciata con un comunicato che ruota intorno ad un aneddoto. Un bambino della comunità un giorno domandò: “Perché quel fiore ha quel colore, quella forma, quel profumo? … Però non voglio che mi si risponda che così volle la Madre Terra, con la sua sapienza, o Dio. Voglio sapere la risposta scientifica”.

Agli occhi del positivista il passo compiuto dagli zapatisti è un avanzamento lineare verso il Progresso, ma non è così. Crediamo di aver superato la superstizione di Dio, ma la nostra pretesa di oggettività tramite la scienza è altrettanto parziale. Se ponessimo la stessa domanda ad un adulto, probabilmente non saprebbe niente di più del bambino in Chiapas rispetto ai fiori, ma sarebbe certo che la scienza lo sappia spiegare. Fare propria la domanda del bambino significa non accettare come risposta “perché lo spiega la scienza”, ma voler sapere cosa dice la scienza in proposito e perché ci crediamo. Porre (porsi) questa domanda significa realizzare che non può esistere scienza senza critica della scienza.

Il compito che ci prefiggiamo non è facile per due ragioni. Da una parte ci si potrebbe accusare che fare una critica alla scienza significhi portarla al livello di una qualsiasi superstizione. Non è il nostro obiettivo. In secondo luogo, la critica alla scienza è difficile perché la nostra società ha strutturato le sue forme di dominio economico, politico e coloniale anche sul monopolio scientifico; criticare la scienza diviene allora una sorta di parricidio.

Corriamo volentieri questi rischi.

Presentiamo quindi delle riflessioni che mettano in luce quelli che secondo noi sono tra i maggiori problemi di cui soffrono sia le scienze cosiddette “pure” che le applicazioni in contesti diversi dal classico laboratorio, come le scienze sociali e l’economia. Tali criticità sono storicamente contestualizzate, mutuate dal modello sociale in cui viviamo.

Chi lavora nella ricerca o nell’accademia non è portatore di alcuna verità assoluta: la contrapposizione tra scienziati e non-scienziati produce solamente una falsa separazione tra la presunta élite intellettuale e la “gente comune”, separazione che oggi diviene sempre più conflittuale. In questo conflitto da un lato pullulano complottismi, pseudo-scienze e l’avversione verso la ricerca tutta, dall’altro lato le risposte sono sempre più autoritarie e fideistiche[2].

Le otto riflessioni che seguono non sono da leggere come proposizioni compiute. Sono cantieri aperti per una riappropriazione dal basso delle scienze, con le quali vogliamo aprire un dibattito.

  1. La scienza non può spiegare tutto. Anche limitandosi allo studio di un determinato e controllato ambiente sperimentale, non esistono teorie in accordo con tutti i fatti noti in un dato campo. Compito dello scienziato è di rendersi conto se, come, quanto e fino a che punto gli strumenti della scienza utili alla spiegazione di particolari fenomeni possano essere estesi a nuovi ambiti.
  2. Come applicare un “metodo scientifico” alle scienze sociali? Non c’è nessuna ragione incontestabile per affermare che modellizzazioni e linguaggi (come la matematica e la statistica) debbano avere un ruolo principale nel dirimere conflitti politici o che si possano applicare in maniera diretta alle scienze sociali. Quando un preteso “metodo scientifico” viene utilizzato in un contesto sociale, dove laboratorio e scienziato sono intrinsecamente legati, in cui il sistema non può essere preparato ed è soggetto a dinamiche imprevedibili, l’interpretazione non è mai neutrale[3].
  3. Comunità scientifica e società non sono separate. Ogni scienziato vive dentro la società e nella storia e come tale è un prodotto della sua epoca. L’organizzazione materiale della comunità scientifica e il tipo di produzione scientifica sono legate a doppio filo, nella misura in cui gerarchie, finanziamenti, rapporti di forza e interessi economici e politici determinano la direzione della ricerca. La sistematica penalizzazione legata a fattori di genere, razza, provenienza geografica e sociale, sono problemi della comunità scientifica che riflettono quelli della società. Non esiste alcuna superiorità etica della scienza sulla società, ma c’è una diversità in senso politico: per quale tipo e ideale di società lavorano gli scienziati? Chi trae vantaggio da risultati e scoperte scientifiche? Chi ne ha la facoltà di utilizzo? In questo senso ogni scienziato prende necessariamente posizione nell’indirizzare la scienza: sia nel suo lavoro quotidiano, così come nella sua vita sociale, nel partecipare alla vita politica.
  4. La scienza non è mai completamente autonoma, non esiste un progresso scientifico lineare. La fantasia e la curiosità del ricercatore si scontrano con la direzione del “capo gruppo” o del finanziatore della ricerca, ma anche più in generale con il contesto che stimola lo studio di alcuni problemi invece che altri per moda, riconoscimento sociale, indirizzo politico o tecnologico. D’altra parte, anche l’affermazione di alcune teorie è spesso determinata non solo dalla loro predittività, ma piuttosto dalla capacità dei suoi autori di pubblicizzarla dentro e fuori la comunità. In altri termini, la scienza non è il motore di un “progresso” universale e lineare, ma lo svilupparsi di un processo.
  5. Non esistono alcuna “oggettività” né “neutralità” del dato in sé. Ogni dato è associato ad un’incertezza e ad un’interpretazione, che dipende da fattori esterni al laboratorio e al metodo scientifico. Innanzitutto, il risultato di ogni esperimento – il “dato” – non ha senso se ad esso non è associato un errore. Tale errore riassume diversi aspetti dei nostri limiti teorici o sperimentali e leggere una misura come conferma di teorie già affermate o vedervi spazio per deviazioni da un modello è in ogni caso frutto di aspettative che hanno elementi di arbitrarietà[4]. La convalida/smentita è frutto di decisioni, soggettive o collettive, esterne al contesto sperimentale, ma che hanno uguale importanza per la scienza: possono motivare la ricerca di teorie alternative, o la costruzione di esperimenti più precisi[5].
  6. Il “metodo scientifico” non è una tradizione, un processo dato e immutabile. Non consiste in un insieme di regole fisse che possono essere migliorate e applicate per condurre a risultati certi. La certezza non è un obiettivo della scienza, semmai lo è il dubbio. Le stesse nozioni di “oggettività”, “scientificità”, “naturalità” sono determinate dalla storia e dai rapporti di potere di una data epoca, e nessuna di queste sopravvivrà al tempo. Sono considerazioni non oggettive che motivano la scelta di un modello piuttosto che un altro. Sottrarre queste considerazioni al processo scientifico significa mistificarlo: l’accumularsi di conoscenze nelle “scienze esatte” può talvolta avvenire grazie all’applicazione di norme considerate tradizionali, ma possiamo considerare auspicabile sostenere che qui si esaurisca ciò che chiamiamo scienza? O potrebbe qualcuno affermare in buona fede che tali tradizioni, o paradigmi, si affermano in modo slegato da rapporti di forza e condizioni storiche? Diremmo piuttosto che è grazie a discontinuità che inseriscono elementi nuovi, suggestioni, idee, dentro al fluire della ricerca, che la scienza può progredire. In altri termini si potrebbe dire che il “metodo scientifico non esiste”.
  7. La contrapposizione frontale tra scienza ed anti-scienza è una finta dicotomia che nasconde la vera posta in palio della ricerca scientifica. Ogni teoria scientifica è infatti un linguaggio[6] condiviso attraverso cui è possibile interpretare ciò che ci circonda ed operare sul mondo. Al netto della necessità di precisione, la definizione di ciò che è scienza e ciò che non lo è non è un confine netto e invalicabile, ma piuttosto una domanda costante che alimenta la produzione di sapere, un punto di partenza per possibili elaborazioni (scientifiche e non) future. Il fact-checking estremo e le derive complottiste, si fondano entrambe sulla negazione di questa natura sempre rinnovabile dei sistemi di pensiero. Per i partigiani del fact-checking, ogni disputa politica è risolvibile solo attraverso una quantificazione degli oggetti in gioco che esclude ogni altra possibile interpretazione. Per i complottisti, i sistemi di sapere dominanti sono falsità che coprono verità altrettanto nette che le precedenti, ma nascoste alla maggioranza. In entrambi i casi, la ricerca è ridotta alla sommatoria di scelte binarie, senza mettere in dubbio un modello nella sua complessità.
  8. Le riviste scientifiche, la competizione, la precarietà. Ultimo ma non meno importante è il problema politico-organizzativo dentro l’accademia, dove i dispositivi neoliberisti pregiudicano l’indipendenza e l’originalità della ricerca. Quantificare la produzione di uno scienziato significa dare una misura a qualcosa di incommensurabile, la conoscenza. I sistemi di valutazione attuali portano da un lato all’ipercompetizione tra singoli ricercatori. Dall’altro disincentivano l’esplorare linee di ricerca troppo diverse da quelle mainstream, inquinando e sovradeterminando il “metodo”, o “non-metodo” scientifico (si veda la riflessione 6) sulla base del più selvaggio neoliberismo. Infine, penalizzano aspetti della ricerca ugualmente importanti rispetto alle pubblicazioni, ma meno quantificabili, e che non generino immediatamente profitto: pensiamo all’insegnamento, alla divulgazione, alla multidisciplinarietà. Le riviste scientifiche, spesso private, possono avere un ruolo decisivo in tale processo, che riduce la democraticità all’interno della comunità scientifica. A livello di condizione lavorativa si crea invece un problema di diritti e riconoscimento del proprio lavoro. Questo pone la ricerca sullo stesso piano di molti altri ambiti lavorativi in cui la ricattabilità e l’impossibilità di pianificare un’esistenza non completamente dedita al lavoro (non, o poco, retribuito) sono fattori dominanti.

[1] Fondazione (1951), Fondazione e Impero (1952), Seconda Fondazione (1953). Isaac Asimov.

[2] Un esempio: il problema delle “fake news” che viene risolto stabilendo delle autorità con la facoltà di bloccare la circolazione di alcuni contenuti in rete. Ancora, sul piano politico economico il motto neoliberista “There Is No Alternative” esemplifica la questione sia come misura autoritaria che come atto di fede.

[3] L’evoluzione dell’economia negli ultimi decenni mostra esattamente questo, globalmente il PIL è aumentato, così come il divario tra i più ricchi e i meno ricchi. Interpretare il primo e non il secondo come ingrediente sostanziale nello stabilire una politica economica è per l’appunto non neutrale.

[4] L’esempio che ci risulta più chiaro è quello della varianza statistica utilizzata convenzionalmente per definire le nozioni di “scoperta” o “evidenza ” nei risultati di alcuni esperimenti. Pensiamo ad esempio all’osservazione del bosone di Higgs a LHC. Un intervallo di confidenza di 5 sigma, così come l’uso di un p-value del 5%, sono sicuramente “ragionevoli” ma ben lontani da aver una motivazione oggettiva. Perché non 4.5, oppure 6? La scelta è frutto di convenzioni stabilite dalla comunità scientifica e non legate alle condizioni sperimentali.

[5] Ad un livello più profondo il problema dell’oggettività si pone nell’effetto dell’osservatore sul sistema, nei già citati fenomeni sociali o nella fisica quantistica.

[6] E chiaramente con linguaggio intendiamo anche la matematica.

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