DIRITTI

Non sui nostri corpi: violenza di genere e sovversione della norma eterosessuale

Sono passati quasi dieci anni dalla grande mobilitazione femminista contro la violenza maschile sulle donne “Non nel mio nome!”, esplosa dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani nell’ottobre 2007

Una manifestazione enorme e potente contro la strumentalizzazione mediatica e politica in chiave sicuritaria e razzista della violenza sulle donne. “Non nel mio nome” era insieme una dichiarazione e un monito alle istituzioni, ai mass media, alle agenzie di controllo sociale a non utilizzare più il portato simbolico del corpo delle donne per riprodurre la retorica dello straniero stupratore, rafforzando il nesso costitutivo tra sessismo e razzismo su cui è costruita l’identità nazionale bianca ed eteronormativa. “Non nel mio nome” significava che la violenza di genere non poteva e non può essere relegata alla rappresentazione di un fenomeno estraneo alla nostra società per alimentare processi di criminalizzazione e vittimizzazione, ma che essa è invece nell’esperienza di ognuna un elemento costante, pervasivo e profondamente familiare. Ed è infatti nella famiglia – italiana, bianca, cittadina, eterosessuale – e nella costruzione dei ruoli e delle relazioni asimmetriche di genere, che si annida la violenza in tutte le sue forme: sessuale, economica, fisica e psicologica. Ormai, grazie a quel movimento e al lavoro quotidiano dei centri antiviolenza, dei collettivi femministi, transfemministi e queer, possiamo dire che questo dato è stato assunto; la violenza nel discorso pubblico è finalmente “tornata a casa” (dove è sempre stata) e il problema della sua dimensione intima e strutturale è consapevolezza comune.

Eppure. Qualcosa, in questo passaggio, è andato storto. Se la violenza di genere è collocata nello spazio delle relazioni intime, non per questo ha cessato di esser considerata un’eccezione.

L’uomo nero è ancora tra noi: è apparentemente bianco, ma non fa parte della nostra specie. È pazzo, depresso, ha avuto un raptus, era geloso, ama troppo, è stato amato troppo poco, sembrava un uomo tranquillo – chi l’avrebbe mai detto. La potenza della parola delle donne è stata assorbita da una narrazione tossica che ne ha neutralizzato il portato sovversivo e conflittuale: la violenza di genere continua ad essere rappresentata come un evento straordinario e non un continuum radicato in una cultura sessista che si riproduce in tutti i rapporti sociali e che colpisce tutte le soggettività che non aderiscono alla dicotomia imposta dall’ordine sociale di genere. Mass media e agenzie di controllo sociale concorrono nella costruzione di stereotipi machisti ed eteronormativi, in cui il maschile non viene mai interrogato sulla sua posizione di potere e privilegio e sulla sua performatività, sull’incapacità di relazionarsi all’altro e all’altra, sulla violenza simbolica e materiale che agisce nella sfera intima così come in quella pubblica. Speculare a questa rappresentazione è quella delle donne, che continua ad essere schiacciata sul ruolo di vittime, madri, mogli senza voce, oggetti – di desiderio se conformi all’estetica dominante, di tutela se deboli, di colpevolizzazione se indisciplinate e indisciplinabili– e mai soggetti di autodeterminazione.

La medaglia della vittimizzazione delle donne nelle retoriche allarmistiche e paternalistiche sulla violenza di genere mostra infatti due lati oscuri. Da un lato, la definizione di ciò che una buona vittima dev’essere per meritare tutela: donna per bene, decorosa e moralmente irreprensibile, dedita a riprodurre se stessa, il proprio ruolo e la propria nazione; dall’altro, la sua (conseguente) incapacitazione ad agire la propria libertà attraverso la criminalizzazione di tutte le altre: sex worker, attiviste femministe, queer, lesbiche, gay, trans e intersex, donne che rifiutano la riproduzione come destino. Corpi e soggettività devianti che vanno ricondotte forzatamente alla norma eterosessuale emanata dalla natura (o da Dio!), continuamente rifondata sia dalla razionalità neoliberista che da quella neofondamentalista, coesistenti e complementari tra loro.

Che si tratti infatti dei processi di inclusione differenziale e di gerarchizzazione delle differenze (come nel caso del neoliberismo, basti pensare alla legge sulle Unioni Civili e alla squalificazione delle relazioni non eteronormative che ha sancito) o della loro esclusione dalla cittadinanza civile e sociale (come in quello del neofondamentalismo, esemplificate dalle retoriche sul Gender e l’ineffabile campagna del Fertility Day, direttamente ideata da un’emissaria del Family Day pagata dal governo italiano), è infatti sempre nella cornice eteronormativa che si riconducono i processi di criminalizzazione e vittimizzazione nel campo della sessualità, della riproduzione e delle relazioni di genere e che passano sopra e attraverso il corpo delle donne. Ed è sempre nel contesto del paradigma dell’eterosessualità obbligatoria che il maschile viene legittimato e riaffermato come dominante e la maschilità egemone diviene modello relazionale, generatore di violenza sulle donne, omo e transfobia, bullismo e altre forme di esclusione e subalternità.

A questa narrazione – e al tradimento della spinta sovversiva guidata da quel “Not in my name!” – ha contribuito una rinnovata vulgata essenzialista di un certo sedicente femminismo di cui non sentivamo certo la mancanza. Il dibattito scaturito intorno alla possibilità di riconoscere diritti riproduttivi e di adozione per le coppie dello stesso sesso ha prodotto un ripiegamento sulla difesa della “Natura” come dispositivo ordinatore del riconoscimento di diritti riproduttivi e di cittadinanza sessuale, e in questo processo di naturalizzazione il corpo delle donne è tornato ad essere ingabbiato nella sua funzione esclusiva e necessaria di riproduzione. L’inquietante alleanza tra neofondamentalismo e femminismo della differenza si è saldata davanti ai nostri occhi, fondandosi proprio sulla sacralizzazione della maternità e sull’ipocrita rifiuto della mercificazione del corpo femminile, mentre non una parola è stata spesa sulla precarizzazione sociale di cui le donne sono le prime – vere – vittime e nessuna indignazione si è espressa per l’erosione di diritti e welfare che impediscono ad ognuna e ognuno di progettare la propria vita liberamente e fuori da ricatto economico.

Dunque, dobbiamo essere donne e vittime per bene, madri e mogli di qualcuno, uteri al servizio del popolo e della famiglia tradizionale, baluardo della difesa di un’identità nazionale bianca, civilizzata, eterosessuale e cristiana. In queste retoriche moralistiche ed essenzialiste si cela – è il caso di dirlo, neanche troppo velatamente – anche una nuova forma di neocolonialismo, che si pone in posizione di superiorità morale e pedagogica verso le altre che ancora non hanno imparato la lezione dei loro diritti a casa nostra. Le altre siamo noi, precarie e non addomesticate all’imperativo riproduttivo; le altre sono le donne del “terzo mondo” che si farebbero sfruttare “affittando” il proprio utero per soddisfare i capricci del primo e svuotando il significato fondativo della relazione tra madre e figlio. Le altre, sono le donne che si coprono troppo o troppo poco, sfuggendo alla normatività occidentale che definisce quali sono i corpi decorosi e quelli indecorosi. Si potrebbe dire che dall’immaginario vittimistico de “Il corpo delle donne” alla legittimazione del bando francese del burkini la strada è breve, e questa relazione va mostrata una volta per tutte per quello è: razzista, femonazionalista e nemica dell’autodeterminazione di ognuna.

Alle ancelle del neofondamentalismo, ai censori laici e religiosi, ai padri, padroni, partner e compagni sessisti e omo transfobici, ai controllori dell’anima e ai giudici della carne abbiamo un messaggio chiaro da consegnare: i nostri corpi non saranno più il vostro campo di battaglia, ma il terreno minato su cui crollerete rovinosamente. Verremo ovunque per occupare lo spazio pubblico e quello che vi ostinate a tenere privato, per agire liberamente il nostro desiderio, per liberare le nostre vite e i nostri corpi da precetti morali e imposizioni eteronormative, e per aprire nuove relazioni con tutte le altre che vorranno disfare i propri ruoli, tradire le proprie genealogie, riconquistare la propria libertà.

Le nostre voci si moltiplicheranno, insieme alle compagne argentine e latinoamericane che stanno lottando contro il machismo che continua ad ucciderle e torturarle, insieme alle donne polacche scese in sciopero contro il tentativo neofondamentalista di proibire totalmente l’aborto; insieme alla rivoluzione femminista in Rojava e contro tutte le guerre e i fascismi che incendiano i nostri mondi. Per uno sciopero sociale e femminista transnazionale, noi continueremo a desiderare e lottare per difendere e diffondere la nostra liberazione permanente.

De/Sidera 2.0,

18/19 novembre 2016, Bioslab, Padova

[verso la due giorni contro la violenza sulle donne e di genere “NON UNA DI MENO”, 26-27 novembre 2016, Roma]

Articolo originariamente apparso su Fuxia Block e sul blog Non Una Di Meno