ROMA

La città solidale non è un danno erariale

La Corte dei Conti smentisce il suo procuratore e dà il via libera ai canoni sociali . Hanno ragione centri sociali e associazioni. Il 6 maggio, intanto, un nuovo corteo sfilerà per la capitale, al grido di “Roma Non Si Vende“.

La rete DecideRoma lo ripete da tempo, quasi fino all’ossessione: l’uso sociale e culturale del patrimonio pubblico di Roma non ha mai prodotto alcun danno erariale, al contrario rappresenta da decenni un valore inestimabile per la città, fatto di quelle mille attività mutualistiche e solidali che all’interno di quegli immobili hanno preso corpo e vita. A confermarlo ora è la stessa Corte dei Conti, emettendo la prima di una serie (che si preannuncia lunga) di sentenze sul tema. Il pronunciamento smentisce clamorosamente l’accusa del vice-procuratore generale regionale Guido Patti, che si è accanito sulle realtà del sociale a Roma e aveva accusato i funzionari del Dipartimento Patrimonio di aver generato un danno erariale. I funzionari sono accusati in buona sostanza di non aver richiesto alle associazioni e agli spazi sociali il canone di mercato per gli immobili pubblici da loro utilizzati. In altri termini, i funzionari amministrativi, secondo Patti, sarebbero colpevoli di non aver messo a reddito il patrimonio pubblico, in tutti i casi – praticamente la totalità – in cui i procedimenti amministrativi di concessione non erano stati portati a termine oppure le concessioni erano scadute.

 Il risultato di questa offensiva è stata la scrittura della oramai famigerata delibera 140, producendo l’adozione di centinaia di provvedimenti “in autotutela” da parte dei dirigenti del Dipartimento Patrimonio di Roma Capitale, ordinando gli sgomberi degli spazi sociali e richiedendo, appunto, le cifre folli dei canoni rivalutati al valore di mercato. Milioni di euro che nessuna realtà sociale genuina avrebbe mai potuto (né voluto) pagare.

 Oggi, finalmente, la stessa Corte dei Conti (modificando un proprio precedente orientamento giurisprudenziale) smentisce l’accusa del procuratore Patti, con una motivazione persino banale: «la particolarità dei locali individuati, destinati, comunque, a usi di pubblica utilità sociali e culturali, non li rendeva utilizzabili e sfruttabili alla stregua di locali da affittare e, quindi, tale peculiarità rafforzava la natura di beni non fruibili sul libero mercato e rientranti tra quelli per i quali era prevista […] una utilizzazione a prezzo ridotto e agevolato per finalità sociali e culturali». Insomma, è la stessa natura indisponibile dei beni immobili, stabilita politicamente dall’Amministrazione, a impedire che essi siano assoggettati alle regole e ai canoni del mercato. Ancora: «La scadenza del termine senza che fosse intervenuta la concessione definitiva o senza che la stessa fosse stata rinnovata, non cambiava la natura del bene e la sua utilizzabilità alle stesse condizioni agevolate attuate con il provvedimento originario con conseguente impossibilità di praticare, per esso, un prezzo di mercato». Come a dire che non conta la formalità dei provvedimenti amministrativi, eventualmente oggetto di una mala gestione amministrativa, ma conta la sostanza, ossia il valore sociale e culturale delle attività effettivamente svolte. Nella follia (anche) giuridica che ha caratterizzato gli ultimi mesi di contesa politica su questo tema, la Corte ci tiene a precisare anche un altro elemento di assoluta evidenza, e cioè che le colpe di una Amministrazione inadempiente in nessun caso possono essere scaricate sulle associazioni e gli spazi sociali che ne sono, al contrario, vittime: «Sarebbe singolare che l’inosservanza, da parte del Comune, del rispetto del termine per la conclusione o per il rinnovo del procedimento concessorio, si possa risolvere in un pregiudizio per la parte che lo subisce e che dal silenzio dell’amministrazione possa derivare la risoluzione del rapporto».

 Nessun danno erariale si è mai prodotto con la concessione del patrimonio pubblico alle realtà sociali e associative a fronte dei canoni al 20%. La sentenza odierna riguarda soltanto uno spazio comunale, tra le centinaia che sono sotto attacco da più di un anno. C’è da aspettarsi, ragionevolmente, che la Corte dei Conti mantenga lo stesso atteggiamento in tutte le sentenze dei prossimi mesi.

 La sentenza di ieri, soprattutto, modifica in maniera radicale la partita politica sul tema del patrimonio pubblico. Ora la palla passa alla Giunta Raggi e all’Assemblea Capitolina, e alla capacità delle forze sociali della città di alzare la posta. Da un lato, tutti i provvedimenti – che negli ultimi anni erano stati giustificati come inevitabili e necessari, tecnicamente imposti dalla Corte dei Conti – perdono oggi la loro primaria motivazione: c’è dunque da aspettarsi che essi vengano immediatamente revocati, ora che lo spauracchio del danno erariale e la minaccia delle ritorsioni giudiziarie sembrano svanite. Dall’altro lato, invece, il campo delle possibilità politiche si allarga a dismisura dando modo alla città solidale di uscire dalla difensiva, senza più la spada di Damocle di sgomberi e arretrati di centinaia di migliaia, o addirittura milioni, di euro.