editoriale

Cosa evocano i forconi?

Sul così detto movimento che non ha paralizzato il paese

La pietra filosofale della composizione sociale perfetta non esiste. La radicalità della crisi ci espone quotidianamente a situazioni confuse, poco etichettabili, difficili da catalogare a prescindere. Accadrà sempre più di frequente. Ci aspettano tempi caotici e pieni di ambivalenze. Tempi confusi, che è bene affrontare con la barra dritta. Abbiamo bisogno di strumenti d’analisi elastici ma non deboli. C’è il rischio di abbandonarsi al relativismo, di mettersi da un lato e stare a vedere cosa succede senza riuscire a dire e fare nulla di significativo ma illudendosi di navigare sull’onda dell’indignazione diffusa.

Una banalità necessaria: la protesta dei cosiddetti “forconi” coinvolge anche molte persone colpite realmente dalla crisi economica. È un’affermazione quasi scontata ma anche una premessa importante. Alla quale deve seguire un’altra domanda. Qual è il contenitore che ha dato forma e parole a questa protesta? Da settimane se ne sono accorti tutti i siti di movimento: non è un mistero che i blocchi e le piazze dei forconi siano gestiti da piccole organizzazioni corporative e da minuscoli apparati in cerca di ruolo e visibilità. Al loro fianco, accanto al codazzo complottardo e qualunquista che si mobilita nei social network (fatevi un giro sull’account Facebook “Attivismo”, per capire la cultura profonda di questa gente), si vanno disponendo alcune formazioni di estrema destra. C’è sicuramente Forza Nuova, a Roma e al sud sono comparsi CasaPound e persino i malati illusi dalla propaganda del “metodo Stamina”.

Lo spazio in cui si agita la protesta dei forconi è lo spazio italiano, definito dalla crisi istituzionale e dalla decomposizione del quadro politico parlamentare. Alla decadenza di Berlusconi fa eco la Corte Costituzionale affermando l’illegittimità dell’intero quadro parlamentare. Anche per questo non sorprende che emergano lotte e conflitti segnate da rivendicazioni nazionaliste o reazionarie – come definire altrimenti punti programmatici come il ritorno alla lira, il protezionismo, l’invocazione di un “governo di polizia” contro la Casta dei politici – che trovano consenso proprio in quella base sociale di piccoli imprenditori, commercianti, artigiani che costituiscono una parte importante dell’attuale base sociale delle destre, in Italia come in Europa.

D’altronde anche il segno distintivo della comunicazione politica gira attorno a due elementi: da una parte il richiamo ossessivo alla “nazione”, come luogo omogeneo di ricostruzione identitaria e “comunitaria” che deve difendersi dal “complotto mondialista”; dall’altra, l’individuazione del nemico principale nella rappresentanza politica e sociale (partiti e sindacati) e nel sistema fiscale, senza mai toccare i veri protagonisti della crisi: i grandi poteri economici, industriali e finanziari. Le contrapposizioni di interessi e “di classe” devono lasciare il posto alla dicotomia “italiani onesti/classe politica corrotta”.

Ma bisogna anche chiarire che non c’è stata nessuna rivolta che ha bloccato il paese! C’è stata qualche manifestazione e pochi blocchi, nella maggior parte di casi si parla di poche decine o centinaia di persone organizzate da piccole organizzazioni. Non abbiamo visto una insubordinazione spontanea dei ceti medi impoveriti o di settori di lavoratori, nessun mare in cui nuotare, in cui aprire contraddizioni o costruire alleanze sociali come accadde nel caso delle esplosioni dei cicli di lotta studenteschi degli anni 2000, quando sapevamo di stare in piazze complesse e contraddittorie eppure non ci siamo mai sognati di mettere da parte la pregiudiziale antifascista.

Allo scoccare della protesta dei “forconi”, ha cominciato a diffondersi in rete la scena che aleggia da tempo nell’inconscio collettivo. È una scena che da mesi viene evocata (malgré Pasolini) per depotenziare le future ribellioni, disinnescare ogni conflitto e inverare il frame della comunità interclassista e postideologica che si costituisce in una massa rancorosa ma immobile. Si è svolta a Torino, probabilmente solo a margine di uno dei blocchi: le forze dell’ordine si tolgono i caschi tra gli applausi di qualche decina di manifestanti che urlano “Siete come noi” rivolti agli uomini in divisa. Come sempre più spesso capita all’epoca della tecnopolitica, quella scena ha assunto un significato che prescinde dal reale contesto in cui si è svolta. Sono solo pochi secondi, ma le immagini viaggiano più veloci delle parole e con maggiore potenza. Quelle immagini si staccano dalla scena sociale e materiale e si spalmano nella sfera digitale. È inutile nasconderselo: quei fotogrammi agli occhi di chi di chi la diffondono alludono alla richiesta di un blocco d’ordine in mezzo al caos. Si tratta di un immaginario che punta a costruire una gerarchia della legittimità del conflitto sociale: da comprendere e sostenere se riferito a quelle “categorie produttive” abbandonate nella competizione globale (artigiani, piccole imprese, reti del commercio e dei servizi); da reprimere senza tanti complimenti se riguarda giovani, studenti, precari e migranti, soggetti esterni al “patto produttivo” nazionale e generazionale.

Soldati e poliziotti diventano, nell’inconscio profondo del paese che condivide slogan e filmati nei social network, l’alleato indispensabile contro “La Casta” che affama “gli italiani”.

È un motivo per sperare che i cittadini in buona fede se ne tornino a casa e rimettano nel cassetto le maschere di V per Vendetta? Certamente no. Da mesi ormai andiamo spiegando che uno dei limiti principali del grillismo è quello di tenere vuote le piazze, intese non solo come spazio di protesta ma anche come luogo di incontro e organizzazione dal basso. Per questo non saremo noi a lamentarci di un qualche sommovimento, seppure confuso e persino se vagamente nazionalista. Tuttavia, il più relativista dei relativisti non potrà fare a meno di notare che in politica il contenitore e il contenuto sono in relazione stretta e biunivoca. Si è parlato giustamente di “ambivalenza”, parola che fa capolino di frequente nei nostri discorsi e che ci aiuta a non essere manichei. Da quando esistono i conflitti di classe essi non si danno mai in termini netti, emergono sempre in termini spuri, complessi, mai fino in fondo definiti. Al tempo stesso, però, assumere l’ambivalenza delle lotte non può farci abbandonare l’attenzione verso la direzione politica che prendono i processi sociali, specialmente quando essi assumono natura nazionalista, corporativa, reazionaria.

Oggi più di ieri la comunicazione non è un orpello sovrastrutturale. La comunicazione contamina il fine e i mezzi. Le parole d’ordine vaghe e il linguaggio generico dei Forconi non rivelano ingenuo spontaneismo ma – ancora una volta – nascondono l’impossibilità degli organizzatori di prendere posizione, di essere realmente partigiani e di riversare questa capacità di essere “di parte” nelle proposta di redistribuire la ricchezza, nella rivendicazione di diritti e nell’individuazione dell’avversario di fronte alle drammatiche urgenze della crisi.