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Come funziona Idea Fimit, proprietaria del palazzo di piazza Indipendenza

Chi hanno protetto i manganelli e gli idranti che hanno sgomberato centinaia di persone? Una società finanziaria e dei fondi di investimento che hanno il solo scopo di massimizzare la rendita immobiliare. Spesso con i soldi di piccoli risparmiatori. Certamente a scapito della collettività.

È stato ampiamente detto: nella violenta operazione di sgombero ordinata dalla prefetta Basilone è prevalso il diritto proprietario sui diritti sociali e politici dei circa 800 rifugiati eritrei che avevano trovato casa nell’occupazione di via Curtatone. Tuttavia non scopriremmo nulla se ci limitassimo a dire che il brutale monopolio della violenza di cui gode il ministro di polizia trova il suo fondamento, la sua profonda ragione d’essere, proprio nella difesa del diritto proprietario: l’ordine delle piazze, d’altro canto, è sempre stato lo specchio dell’ordinato andamento dei rendimenti del capitale. Conviene dunque spostare lo sguardo più in là, per constatare ancora una volta che dietro la cartolina della città eterna c’è tutta la contemporaneità della metropoli finanziarizzata con il suo tessuto urbano, dagli edifici alle realtà produttive, interamente innervato dalle reti globali del capitale finanziario. Basta provare a mettere in fila alcune elementari informazioni su IDeA FIMIT sgr, la società finanziaria proprietaria del palazzo di via Curtatone, per capirci qualcosa in più della mano che muove la guerra contro i poveri e di come funziona la micidiale macchina dello Stato neoliberale.

IDeA FIMIT (d’ora in poi IDF) nasce del 2011 dalla fusione di due società, la Fimit Fondi Immobiliari Italiani e First Atlantic Real Estate. Con questa operazione diviene una dei più importanti player europei del settore, con un patrimonio stimato di circa 9 miliardi di euro. La IDF è una Società di Gestione del Risparmio (introdotte in Italia nel 1998), cioè un intermediatore finanziario autorizzato (da Banca d’Italia e Consob) a gestire il risparmio collettivo, mediante la costituzione o la gestione di altre società finanziarie quali i Fondi Comuni di investimento. Nella fattispecie si tratta di circa 40 (di cui 5 quotati nella borsa italiana) fondi comuni di investimento immobiliare, società che hanno la funzione di acquistare immobili nelle principali città italiane al solo scopo di massimizzarne la rendita. I fondi comuni di investimento immobiliare, a loro volta, si finanziano facendo leva su altri soggetti finanziari. Nel caso di IDF si tratta di 80 investitori istituzionali e ben 70 mila fondi retail. Per riassumere, pensate ad una piramide il cui vertice è composto dalla Società di Gestione del Risparmio (la IDeA FIMIT per l’appunto), mentre la base corrisponde alla pletora di investitori istituzionali e fondi retail.

Forse a questo punto vi starete chiedendo: come arrivano i miei risparmi nelle mani di IDF?

Principalmente attraverso due canali (entrambi collegati con il funzionamento degli investitori istituzionali). Il primo, corrisponde ai depositi bancari nel caso in cui decidiate espressamente (o vi lasciate convincere da qualche consulente) di effettuare qualche investimento a cosiddetto basso rischio. Oggi appare solo come disgustoso cinismo quella frase contenuta nella mission aziendale: «La società ha focalizzato i propri investimenti in operazioni di rischio contenuto, rendimento stabile, bassa volatilità, semplicità nella strutturazione finanziaria e soprattutto attenzione al valore immobiliare». Nel capitalismo finanziarizzato non ci sono solo assetati speculatori. L’investimento a basso rischio del comune lavoratore che ha risparmiato qualche soldo nella sua vita può divenire, a sua insaputa, un’arma scagliata contro i più poveri.

Il secondo canale di finanziamento di IDF corrisponde alla raccolta del risparmio previdenziale (sia privato che pubblico). Tra gli investitori istituzionali sono presenti diversi fondi (privati) di previdenza complementare. Il rendimento delle pensioni complementari, nonché la quota di rendita che va agli azionisti, vengono assicurati proprio grazie alle operazioni immobiliari gestite da IDF. Ma non basta, perché nella complessa architettura finanziaria di IDF viene coinvolta persino l’INPS, l’istituto previdenziale pubblico, attraverso alcuni investimenti ereditati dall’ENPALS e l’INPDAP (l’INPS detiene una quota non irrilevante del capitale sociale di IDF pari a circa il 30%, dopo quella del Gruppo De Agostini – azionista di maggioranza – con il 64,3%).

Tornando a quella dannata mattina dello sgombero, come si legge dall’articolo di Sarah Gainsforth, l’operazione cinicamente denominata di cleaning (etnico), comandata dal Ministero dell’Interno, è stata nei fatti un’azione poliziesca a difesa della rendita finanziaria del Fondo Omega (un fondo “chiuso” di investimento, nonché uno dei 40 fondi che compongono la IDF, dove l’aggettivo “chiuso” significa che il risparmio degli investitori viene vincolato per un dato numero di anni. L’urgenza dello sgombero evidentemente veniva fuori dai calcoli di matematica finanziaria di qualche esperto). Nel 2011, questo fondo aveva acquistato per circa 75 milioni di euro il palazzo a Piazza Indipendenza. L’intervento militare contro i migranti serviva dunque ad assicurare il ripristino della redditività finanziaria di una controllata di Omega: il fondo complementare dei dipendenti dell’Istituto Intesa San Paolo. (Sia detto solo per inciso: se si vuol comprendere la natura della torsione neoliberale del sindacato confederale in Italia, basta considerare che quasi tutte le organizzazioni di categoria siedono con propri rappresentanti nei consigli dei fondi negoziali di previdenza).

Il ministro di polizia, Marco Minniti, con la sua biografia impersonifica una sorta di imprevedibile mutazione genetica. Alla freddezza e alla razionalità del servitore dello Stato, meglio si direbbe del funzionario stalinista, come una delle tante spaventose figure di burocrate che popolano il romanzo di Svetlana Aleksievic Tempo di Seconda Mano, coniuga l’ideologia neoliberale, di cui si è nutrito nel corso della sua carriera. Il trittico reazionario “legalità, ordine e disciplina” contempla contemporaneamente l’ordine delle piazze e l’armoniosità del mercato. Che poi è sempre e solo la difesa delle classi dominanti.

Le cicliche ondate di accumulazione originaria, che puntellano per intero la storia del capitalismo, hanno spesso visto procedere assieme la violenza poliziesca dello spossessamento con la persuasione e il consenso conquistato presso strati delle classi subalterne. Come quando Gramsci ci spiega che nel secolo scorso l’affermazione del fordismo si rese possibile, insieme ad una nuova ondata di spostamento coatto della forza lavoro dalle campagne, anche con la promessa degli alti salari dell’industria, nonché con l’utopia dell’americanismo. Differentemente da allora, le politiche securitarie di Minniti (grazie anche al sostegno del M5s e della destra) sembrano voler indicare con una cupezza inaudita che nella fase attuale, segnata dalla stagnazione secolare e dalla crisi del sogno neoliberale di un futuro scintillante, la parte dura, quella coercitiva, della guerra contro i flussi migratori e la polizia contro le violazioni del decoro, deve combinarsi con l’unica passione a buon mercato, l’unica forma di persuasione possibile: quella che, secondo costoro, poggerebbe sulla paura e sul sentimento razzista. Ma per fortuna questo è vero solo nei più spaventosi calcoli delle classi dominanti. La verità è un’altra. La verità somiglia alla resistenza di eritrei ed etiopi che hanno occupato palazzo Curtatone.