DIRITTI

Abolire il carcere si può, abolire il carcere si deve

Una recensione al volume Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini

, che sarà presentato a Roma con gli autori e Ilaria Cucchi il prossimo 5 febbraio al Csa Astra.

Nei paesi in cui gli uomini non si sentono al sicuro in carcere, non si sentono sicuri neppure in libertà

(Stanisław Jerzy Lec)

Nel gennaio del 2009 esce in Italia Aboliamo le Prigioni? (Minimum Fax) il saggio contro il carcere di Angela Davis, figura storica del movimento afroamericano statunitense. Un libro, potente e diretto, che illuminava la questione carceraria definendola: “una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, un complesso carcerario-industriale”.

“Ogni retorica riabilitativa è scomparsa dietro una pura logica di rappresaglia che i poteri pubblici delegano alla vendetta privata, costruita sulla spersonalizzazione e la disumanizzazione assoluta di chi viene immesso nel recinto dei colpevoli”, scrivevano Guido Caldiron e Paolo Persichetti nella postfazione dell’ edizione italiana.

Nel tempo storico dell’emergenza sicurezza, in un paese come l’Italia dove in molti (politici, giornalisti, conduttori di talk-show) lavorano a farci percepire sempre più insicuri nonostante le statistiche sui reati ci raccontano un’altra realtà, parlare di abolizione del carcere sembra un esercizio speculativo, una prospettiva utopica e inservibile al di là degli slogan.

Per questo il libro Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini (Chiarelettere), scritto a più mani da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appare ancora più sorprendente. Un saggio di 120 pagine con un ritmo veloce che cattura il lettore, capace di muoversi nell’intrigato sistema carcerario e sviscerarne la ormai totale inutilità e, aggiungerei, pericolosità. Il carcere è controproducente per mantenere la sicurezza dei cittadini e al fine di vedere la giustizia applicata in maniera puntuale.

Pezzo per pezzo vengono demolite le certezze che comunemente si hanno rispetto ad un modello che appare immodificabile perché sempre esistito. Ma il carcere è un approdo della storia a cui si è giunti in epoca moderna, come ci ha insegnato Foucault in Sorvegliare e Punire, il prodotto della sovranità statuale e dello sviluppo del capitalismo industriale. Questo ci indica che se il carcere non funziona abbiamo il diritto e il dovere di immaginare un suo superamento.

Il carcere è inumano, non redime e non aiuta lo sviluppo sociale di chi vi entra. Il carcere uccide. Negli ultimi 15 anni sono 2368 le persone morte nelle carceri italiane (160 ogni anno di cui 173 suicide), più della metà dei detenuti attuali sopporta la reclusione con un abituale uso di psicofarmaci, mentre il 70% di essa rientrerà in carcere entro un breve periodo.

La stessa ripartizione delle risorse economiche destinata agli istituti di pena svela la totale assenza di qualsiasi prospettiva sociale o riabilitativa: nel bilancio 2013 dei circa tre miliari di euro stanziati per il sistema carcerario il 66,8% è stato destinato alla Polizia penitenziaria, l’11,9% alle strutture, il 10,4% al personale civile, l’8,5% ai detenuti e il restante 2,5 ad altri costi. Le risorse destinate direttamente ai detenuti sono solo le briciole, come poca cosa sono le risorse destinate agli UEPE, gli Uffici di esecuzione penale esterna, che avrebbero il compito di eseguire e sviluppare l’esecuzione di misure penali non detentive e le misure alternative alla detenzione.

Questo insieme di iniquità strutturali va a braccetto con quella che nel volume viene chiamata “la violenza dentro”. Dai fatti di Asti, in cui due detenuti vengono torturati in regime di isolamento e, solo grazie alla denuncia di due agenti penitenziari, viene infine alla luce un sistema quotidiano di abusi e violenze, in cui si arriva a praticare “scalpi” ai detenuti. Fino alla storia di Rachid Assarag, un detenuto che è riuscito a registrare alcuni dialoghi in cui emerge per voce diretta degli agenti e del personale medico la normalità dei comportamenti violenti e la certezza dell’impunità. “Comandiamo Noi. Né avvocati, né giudici, comandiamo Noi”, ripete l’agente della Polizia penitenziaria, il corpo di polizia con il più alto tasso di suicidi.

Il volume spiega con semplicità un fatto che per molti è ovvio, fornendo argomenti profondi dimostrati con la forza dei numeri: il carcere non restituisce alla società cittadini migliori ma al contrario produce individui, per lo più provenienti dagli strati sociali più bassi, per i quali il carcere diventa un orizzonte di vita.

Nella seconda parte il libro assume il tono di un prontuario per smontare la cella: il diritto penale come extrema ratio, l’eliminazione dell’ergastolo e della detenzione prima del giudizio, una giurisdizione penale minima, la soppressione degli istituti di pena femminili. Un percorso che non si discosta molto da quella che anche Angela Davis definiva la “democrazia dell’abolizione” attraverso la quale progressivamente abolire il carcere e la sua funzione di discarica degli scarti sociali.

Abolire il carcere è un buon punto di partenza, utile e non marginale, per discutere e riflettere su un tema difficile che spesso si fatica ad affrontare. Per questo il Csa Astra e Acad – Associazione Contro gli Abusi in Divisa hanno invitato gli autori a discuterne, Venerdì 5 febbraio 2016 alle ore 18,30 in Via Capraia 19 al Tufello, all’interno di una delle prime iniziative nazionali del Tesseramento 2016 di ACAD. Sarà presente al dibattito Ilaria Cucchi, e gli autori del volume Luigi Manconi (presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti Umani del Senato, Fondatore di “A Buon Diritto”, Valentina Calderone (direttrice di “A Buon Diritto”) e Federica Resta (avvocato e ricercatrice). L’incontro sarà moderato da Giacomo Russo Spena, giornalista di Micromega.

*ACAD Associazione contro gli Abusi in Divisa