editoriale

Violenti, Rosiconi e Mangiatartine

Il plebiscito di minoranza per il Pd e la nuova fase della politica spettacolo. Un’analisi dei frame della narrazione renziana.

Mentre la mappa del #RenziScappa si compone ogni giorno di nuove contestazioni, di cariche della polizia e di fughe del premier, il Pd festeggia una specie la vittoria alle elezioni regionali di Calabria ed Emilia Romagna. Dietro l’ossimoro del “plebiscito di minoranza” c’è un segnale inequivocabile di indifferenza (quando non di conflitto aperto) verso l’inefficacia della poltica-spettacolo. L’astensione da record persino nella regione del mito del “buon governo” e della partecipazione civica segna la fine di un’epoca e apre una nuova fase della missione spregiudicata dell’ex concorrente della Ruota della Fortuna.

Inseguito dalle contestazioni, Renzi non scappa dalla scena mediatica, non abbandona il palcoscenico. Tuttavia, è sempre più spesso costretto a rinunciare alla scenografia delle folle plaudenti e del paese pacificato dal Partito della Nazione.

Qui ci interessa osservare come la cosa abbia cominciato a disarticolare un pezzo della comunicazione politica renziana. Matteo Renzi sa che per condurre il gioco della comunicazione, sui media tradizionali e nel web 2.0, bisogna polarizzare, dividere, imporre scelte di campo, tracciare linee di divisione. Non è una tecnica particolarmente innovativa, ne parlai due anni fa ragionando attorno alla macchina propagandistica di Beppe Grillo. Lo ho ripetuto in tutte le salse, “Un Grillo Qualunque”, che in questi giorni compie due anni, non è (solo) un libro sul grillismo. Quel testo usa quel fenomeno di cui tutti conosciamo le coordinate per capire cosa è diventata la democrazia al tempo della crisi della rappresentanza. Mi permetto di citarne uno stralcio.

Il linguista cognitivo George Lakoff ha spiegato che tutti abbiamo bisogno di “categorie concettuali” e metafore per dare un senso al mondo. Queste ci permettono di tradurre i dati grezzi e l’esperienza diretta in una forma che ci appaia familiare e accomodante. Per questo fare comunicazione politica oggi significa pensare meno a “presentare i fatti” e di più a come concatenarli tra loro in modo che producano senso e mantengano significato. Lakoff si spinge a suggerire che queste concatenazioni, i frame, con l’uso ripetuto nel tempo creino dei percorsi neurali, scavando dei canali di costruzione di senso nelle nostre menti. Così, ad esempio, i conservatori utilizzano l’espressione “sgravi fiscali” quando parlano di riduzione delle tasse. Un progressista avrà da obiettare che una riduzione delle tasse comporta meno capacità di spesa pubblica e dunque un taglio ai servizi ai cittadini. Ma tutto ciò passa in secondo piano di fronte alle due parole coniate dai conservatori e spesso accettate anche dai progressisti: quando usiamo la parola “sgravio” diamo per scontato che le tasse siano un peso da ridurre e non, ad esempio, un investimento sul futuro della comunità. “Questo uso del linguaggio è una scienza – scrive Lakoff in “Non pensare all’elefante” – E come tutte le scienze può essere utilizzata a scopi onesti o dannosi. È una scienza che viene insegnata, è una forma di disciplina”. Per questo, racconta il linguista, i repubblicani hanno messo nei loro uffici elettorali un barattolo con il fondo spese per la pizza: chi usa le parole sbagliate è costretto a pagare una multa. Così la gente impara subito a dire “sgravi fiscali” invece che “tasse” o “nascita parziale” invece che “aborto” .

Di più: Renzi in molti casi non ha fatto altro che prendere i frame costruiti dai due serial-leader che lo avevano anticipato (Berlusconi e Grillo) e renderli meno minacciosi, più moderni, fruibili, disimpegnati. Il “tutti a casa” della lotta contro la Casta (il padre di tutti i frame grillini, che è stato coniato dalle colonne del Corriere della Sera, nota gazzetta rivoluzionaria) è divenuto rottamazione. L’invidia tirata in ballo da Silvio (la lotta di classe dei poveri contro i ricchi trasformata in sentimento individuale e frustrazione da loser) si è trasferita nell’invettiva contro gufi e rosiconi. L’insofferenza di grillini e berlusconiani contro gli intellettuali (definiti di volta in volta “radical-chic”, gente che sta nei “salotti” e non per strada, “professoroni”) si trasforma nell’invettiva renziana contro i mangiatartine da convegno. E se Grillo utilizza le stampanti 3D per raccattare voti e presentarsi come innovatore in un paese di cariatidi, Renzi lega la sua immagine alle tecnologie più di massa, come l’iPhone (dove i suoi nemici infilerebbero il gettone!) e alle macchine fotografiche digitali (mentre retrogradi utilizzano ancora gli apparecchi col rullino). Per non parlare della paura delle piazze, accettate solo quando diventano audience e si radunano attorno al palcoscenico del grande capo.

Bisogna precisare anche che quelli che passiamo in rassegna non sono fenomeni tutti virtuali: se è vero che le parole diventano fatti e che la mobilitazione spettacolare incide sui soggetti, queste cornici di senso affondano in ragioni, conflitti, emozioni e condizioni materiali. Indicano, ognuno a suo modo e con differenze che sarebbe sbagliato cancellare, ambivalenze e contraddizioni. I leader della politica seriale da sponde opposte e ruoli differenti ma sono accomunati dal fatto che si candidano a governare queste ambivalenze e contraddizioni, a spostarle sul terreno del comando e del potere spettacolare. Sul quale si affaccia il nuovo pretendente, onnipresente in televisione, iperattivo su Facebook e già eletto da Renzi, dopo Grillo, come oppositore predestinato in quanto ritenuto inadeguato a vincere davvero le elezioni: Matteo Salvini.

Il cyber-branco. Ci sono parole che costringono a riflettere e parole che sono buone soltanto ad evocare immagini, che rifuggono la complessità della scrittura per sospendere – seppure solo temporaneamente – la razionalità e catapultarci dalla sfera del discorso a quella del mito. Torniamo per un attimo all’incontro della Leopolda del 25 e 26 ottobre scorsi. Si apre in contemporanea alla grande manifestazione della Cgil contro le politiche del governo e segna un giro di boa che ci consente di chiudere un cerchio del ragionamento che anni fa cominciammo attorno al grillismo. Matteo Renzi e i suoi seguaci tornano alla Leopolda per la prima volta da posizioni di governo, dopo un anno trionfale che gli ha visto completare quella che lui stesso ha definito la “scalata” (allegoria borsistica) ai vertici del Partito Democratico e del paese. Le parole, i codici, gli atteggiamenti, i simboli che hanno risuonato nello scalo ferroviario costruito dal Granduca ci dicono molto del sistema di comunicazione e potere messo in piedi dal Presidente del consiglio.

Come siamo passati dal ventennio di B. al successo di R. previo traghettamento nel vuoto di potere della opposizione spettacolare e innocua di G.? Uno storico del futuro non potrà fare a meno di analizzare “Non è tempo per noi”, libro di Andrea Scanzi uscito alla fine del 2013 e di recente riedito in edizione economica. Il libro voleva essere una specie di pamphlet volto a risvegliare le coscienze i quarantenni (definiti nel sottotitolo “una generazione in panchina”). Si risolve in una narrazione consolatoria e superficiale: esattamente quel che serve ad affondare nel cuore di tenebra del giovanilismo renzista, col quale Scanzi ,al di là delle schermaglie da battibecco politico, è in profonda sintonia culturale.

Per Marco Travaglio le tavole della legge sono le carte della pubblica accusa nei tribunali. Per Scanzi dettano il tempo i luoghi comuni culturali. Per questo, il noto opinionista televisivo gioca nello stesso campo di Renzi, pur recitando la parte del suo oppositore. Toccano entrambi corde che suonano melodie orecchiabili alle generazioni cresciute davanti al piccolo schermo perché superficiali, innocue e, appunto, televisive. “La serialità è un appalto che chiediamo al piccolo schermo – leggiamo a pagina 63 del suo libro – chiediamo a personaggi seriali ed immaginari di lottare e cambiare al nostro posto”. Scanzi ammicca, se sfotte qualcuno è attento a tranquillizzare il lettore/spettatore/elettore invece che metterlo in crisi e costringerlo a interrogarsi. Gli dà di gomito ad ogni pagina: “Non ce l’ho con te, è quell’altro che mi interessa”, sembra dirgli costruendo un’alleanza facebucchiana da cyber-branco basata sulla battutina ad effetto. L’artificio retorico è sempre lo stesso: usare immagini figurate e metafore che spesso diventano allegorie a chiave utili a raccogliere consenso.

Vorrete scusarmi se mi spiego con un esempio altrettanto dozzinale, per forza di cose. Alle scuole medie facevamo sfoggio di irrefrenabile eccitazione puberale e di fresca fede calcistica scrivendo sul banco frasi tipo “Se il Milan è grande, Cicciolina è vergine”. Un sillogismo del genere serviva a prendere tre piccioni con una fava. Primo: ci consentiva di spiegare ai nostri compagni che non tifavamo per il Milan. Secondo, cosa più rilevante: ci permetteva di comunicare al mondo che noi navigati ragazzetti sapevamo che esisteva una certa pornostar (e tutti a darsi di gomito, sguardi compiaciuti). Terzo, importantissimo: la battuta di cui sopra serviva a dire che eravamo al corrente del fatto che questa Cicciolina fosse tutt’altro che vergine. I sillogismi di Scanzi (esempio: “Com’è che io avevo Berlinguer per mito e mi sono trovato Renzi, che è come chiedere un Barolo d’annata e trovarsi una gassosa scipita?”) funzionano più o meno in questo modo: sono facili, immediati, rassicuranti. Fanno banda, attirano il “mi piace” su Facebook.

Moltitudini connesse. Nell’era del presente assoluto dettato dall’incedere frenetico delle timeline (la linea del tempo!) dei social network, c’è spazio per una particolare forma di nostalgia che la fatica letteraria di Scanzi somministra sapientemente: le schegge della televisione che fu e l’evocazione perpetua del vintage, che – come ha spiegato Marco Belpoliti sulla Stampa all’indomani della Leopolda – a differenza della nostalgia permettersi di rimpiangere i bei tempi andati (che come è noto non sono mai esistiti) senza scadere nella malinconia, senza dovervi trovare una narrazione coerente e responsabilizzante. Si scartabella nel passato prossimo ma a proprio uso e consumo, senza impegno: tanto che la passione per il vintage non impedisce a Renzi di accusare i suoi avversari di essere passatisti, novecenteschi, avvezzi all’analogico nell’era del digitale.

Il gioco funziona quando bisogna prendere in giro Fassina ma comincia a traballare quando qualcosa comincia a muoversi nel mondo reale, e da quella sfera tracima nelle piazze virtuali dei social network innescando un circolo virtuoso. È accaduto quando gli operai dell’Ast di Terni sono stati caricati dalla polizia, a Roma, e la scena si è staccata dal quel contesto particolare per assumere un senso più generale. Ha generato un effetto emotivo e contagioso prima in rete e poi nei media tradizionali, ribaltando di segno la retorica delle piazze violente o l’immagine dello sciopero come passaggio rituale e anacronistico. È successo in occasione dei cortei e delle tante azioni dislocate nel primo esperimento di “sciopero sociale” del 14 novembre scorso, annunciato da un’intelligente campagna virale e da video seriali che mettono in scena la vita infernale della precaria Marta, e poi rilanciato dalla mobilitazione capillare, a volte anche spontanea, della “moltitudine connessa” (il termine che viene dai movimenti spagnoli del 15M e dalle loro elaborazioni sulla tecnopolitica) tutti quelli che hanno raccontato quella giornata di sciopero-nonsciopero paradossale. Se, come osserva Carlo Freccero, il presidente del consiglio quanto si rivolge ai precari della generazione fantasma punta a trattarli come individui atomizzati “Cara Marta…”, l’esperimento di quei giorni ha mostrato come gli individui appartengano, con le loro storie e le loro differenze, ad un corpo collettivo. Non significa che la comunicazione è più importante della sostanza. Al contrario, bisogna prendere atto del fatto che agire e comunicare sono intrecciati. Come nelle forme del lavoro e della vita contemporanei, azione strumentale (volta a ottenere uno scopo) e azione comunicativa (volta a condividere) non sono sfere distinte.