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Voltarsi indietro

Voltarsi indietro di Juan Gabriel Vásquez (Feltrinelli 2022) racconta la vita, meglio la giovinezza, del cineasta colombiano Sergio Cabrera, autore di un film importante come Strategia della lumaca, ripercorrendo decenni di lotte dalla Cina alla Colombia

Quando la mia amica Rosario, colombiana che vive in Italia da decenni ma ha tenuto legami stretti con il suo paese e la sua famiglia, mi ha regalato il romanzo di Juan Gabriel Vásquez (Voltarsi indietro, ma mi piace il titolo originale, Volver la vista atrás, Feltrinelli 2022), ho avuto un moto di contentezza.

Il libro racconta la vita, meglio la giovinezza, di Sergio Cabrera, cineasta, autore di un film che è stato molto importante per me e molti altri, Strategia della lumaca (Estrategia del caracol), che uscì nel 1993. E quando dissi a un’altra amica colombiana, Kelly, che consideravo quel film uno dei cinque-sei fondamentali, secondo me, lei sua volta ebbe un moto di contentezza: eh, Sergio, disse, eravamo amici, ai tempi del movimento studentesco e, sai, ha avuto una vita incredibile, è stato in Cina con i suoi genitori, è stato nella guerriglia nei primi anni Settanta ed è una persona eccezionale.

Potevo approfondire, leggendo Voltarsi indietro, scritto da un autore colombiano importante, che ha l’andamento di un romanzo e non di una semplice biografia ed è frutto di trenta ore di registrazioni di colloqui con Cabrera, nonché di documentazione, fotografie di famiglia, insomma un gran lavoro.

E poi, la Colombia mi interessa molto, più di quanto non interessi a sinistre e media qui in Italia. Anche se presidente è diventato un uomo di sinistra, Gustavo Petro e la sua vice è una donna nera, che si è fatta le ossa nelle comunità contadine ed è femminista e che, come dice Rosario, è «una forza della natura».

Perciò ne vedremo delle belle, dal paese più “americano” dell’America latina, rigidamente razzista per tradizione, che ho potuto visitare qualche anno fa, girando ovunque per un mese, meravigliato dalla bellezza multiforme dei luoghi, dalle Ande fino ai Caraibi, e rattristato dai processi di pace rimasti a metà e dalla ferocia dei paramilitari finanziati dalle élites, che ammazzano tuttora centinaia di “líderes sociales”, ossia sindacalisti contadini, militanti per l’ambiente, gente di sinistra.

E dunque ho divorato il romanzo. Che parte, come in molte storie latinoamericane, dalla guerra civile spagnola e dai molti esuli che presero quella via (si legga ad esempio Lungo petalo di mare, la storia, raccontata da Isabel Allende, di una nave che accolse gli sconfitti della guerra spagnola per portarli in Cile, grazie al lavoro e ai visti del console cileno a Parigi, che si chiamava Pablo Neruda). Una famiglia di repubblicani decide di fuggire dalla Barcellona bombardata dagli aerei italiani, finiscono prima nella Repubblica Dominicana, poi in Venezuela e infine in Colombia.

Il padre di Sergio Cabrera si chiamava Fausto ed era un attore, lettore di poesie di fronte a un pubblico, poi drammaturgo e regista teatrale, che man mano diventa comunista, maoista, era la metà degli anni Sessanta, in Colombia sembrava urgente e necessaria una rivoluzione socialista, Fausto Cabrera è anche amico di Camilo Torres, il prete guerrigliero ucciso presto e che divenne un simbolo di quella stagione, in America latina, dopo la morte del Che Guevar,a e poi i colpi di stato in Uruguay, Argentina, Cile.

Cabrera padre viene invitato a insegnare spagnolo a Pechino e vi si trasferisce con la moglie e i due figli, Marianella e Sergio. In realtà, è entrato nelle fila dei comunisti fedeli alla Cina, dove sta iniziando la Rivoluzione culturale proletaria.

A un certo punto, il partito lo rispedisce in Colombia a fare la rivoluzione, appunto, e i due figli, ancora adolescenti, restano a Pechino, dove faranno, per convinzione, tutto il percorso: scuola cinese, operai di fabbrica, spedizione nelle comuni agricole a fare i braccianti, guardie rosse che impugnano il Libretto rosso di Mao, corsi di addestramento nell’esercito popolare cinese. E quando alla fine il padre e la madre vanno a riprenderseli, è per arruolarli in una delle guerriglie colombiane, quella maoista. Ed è una esperienza totale, e durissima, dentro la selva, da cui escono infine ammaccati, feriti.

Il filo che tiene insieme il romanzo è il momento in cui Fausto muore, ormai ultranovantenne e Sergio si trova a Barcellona, invitato a partecipare a una retrospettiva dei suoi film. Decide di non tornare per i funerali di Fausto, ultimo atto di indipendenza dal padre, che pure ama. E l’ultimo film della rassegna cui Cabrera partecipa è, per l’appunto, Strategia della lumaca, che per lui in quel momento è importante perché vi compare anche il padre.

La storia, riassunta in breve, è questa: un grande palazzo antico nel centro di Bogotá, abitato da un popolo molto vario, prostitute e operai e donne del popolo. Uno degli inquilini è un reduce dalla Spagna repubblicana, interpretato da Fausto Cabrera (e quando gli diranno che sua padre era proprio bravo, nel film, Sergio risponde: «Interpretava se stesso»). Il vecchio repubblicano ha una parte decisiva nella decisione che gli inquilini prendono, quando una grande immobiliare acquista il palazzo per farne appartamenti di lusso e le autorità spalleggiano la pretesa di uno sgombero totale. Quando nell’ultima scena l’inviato dell’immobiliare e l’ufficiale giudiziario bussano al grande e antico portone per cacciare gli inquilini, nessuno risponde, quindi i poliziotti buttano giù il portone, e, sorpresa, il palazzo non c’è più, gli inquilini se lo sono portato via mattone per mattone e lo hanno ricostruito su una collina fuori Bogotá, sull’erba e tra il verde. Da qui la lumaca, che si porta dietro la sua casa.

Il romanzo finisce qui, senza annotare la grande fortuna che quel film ebbe, ai suoi tempi, quasi una anticipazione di un nuovo movimento sociale e globale, che rifiutava i metodi “guerriglieri” per tentare di costruire “altrove” un mondo diverso.

La lumaca, il “caracol”, era il simbolo degli zapatisti messicani, e di molti altri movimenti indigeni sudamericani, in Italia nacque una casa editrice chiamata “Strategia della lumaca” e noi stessi, che avevamo creato un settimanale molto zapatista e figlio del nuovo movimento di fine secolo, “Carta”, sulla prima maglietta che producemmo mettemmo una lumaca disegnata da Pablo Echaurren.

Se incontrassi Sergio Cabrera, e mi piacerebbe molto, gli chiederei prima di tutto: qual è stato il tuo percorso dal maoismo e dalla guerriglia fino alla strategia della lumaca, cioè una visione della rivoluzione totalmente diversa? Glielo chiederei perché è la stessa domanda che faccio a me stesso, vecchio militante sessantottino e nuovo militante, a quell’epoca, del movimento globale.

Immagine dell’articolo dalla copertina del libro, edito per Feltrinelli