ROMA

Via Scorticabove: dopo lo sgombero le proposte della comunità sudanese

Dopo lo sgombero del 5 luglio, 120 rifugiati sudanesi dormono in strada a Roma in via Scorticabove, periferia est della città. Il tavolo di confronto con le istituzioni il 12 luglio non ha trovato soluzioni adeguate. Un nuovo incontro è fissato per il 23 luglio. La comunità chiede l’assegnazione di un bene pubblico da rigenerare e autogestire, e il riconoscimento del valore dell’esperienza fin qui prodotta. Le proposte della comunità sudanese, oltre le soluzioni emergenziali del Comune.

VIA SCORTICABOVE

I rifugiati sudanesi di via Scorticabove abitano a Roma da oltre dieci anni, molti lavorano, alcuni hanno la cittadinanza italiana. Fino all’agosto 2004 la comunità abitava nei pressi della Tiburtina, nel cosiddetto Hotel Africa. Dopo lo sgombero di quel posto hanno iniziato una vertenza per l’assegnazione di un immobile con l’allora giunta Rutelli.

Dopo una lunga trattativa è stato trovato l’immobile di via Scorticabove. L’edificio è stato dato in gestione ad una cooperativa, La Casa della Solidarietà, che si sarebbe dovuta occupare di garantire loro un’accoglienza degna, percependo circa 40mila euro al mese dal Comune. Nel corso degli anni però nessun servizio è stato effettivamente erogato e addirittura, visto il mancato pagamento delle utenze, gli abitanti sono rimasti senza luce e gas. Nel 2015 la cooperativa, rimasta coinvolta nell’inchiesta Mafia Capitale, ha abbandonato lo stabile.

La comunità sudanese aveva nel frattempo iniziato ad autogestire lo stabile supplendo alle mancanze delle istituzioni, in un contesto complesso e difficile come quello di San Basilio, privo di servizi pubblici, dove è forte la presenza della criminalità organizzata. È stata creata una cassa di mutuo-sostegno per pagare le utenze e garantire il sostentamento di chi era momentaneamente disoccupato. Sono stati avviati sportelli di orientamento per chi, richiedente asilo, era appena giunto in città; sono stati organizzati corsi di italiano, convegni ed importanti momenti di incontro ed informazione su quanto avviene in Sudan per mano del dittatore al-Bashīr. Questo grazie al sostegno non delle istituzioni ma delle associazioni e delle reti solidali.

La settimana scorsa, il 5 luglio, lo sgombero: uno sfratto per morosità, perché la cooperativa che aveva in gestione il bene non pagava da tempo il canone alla proprietà. Da allora i rifugiati sudanesi dormono in strada.

Una situazione vergognosa anche alla luce dei tentativi di interlocuzione con le istituzioni fatti in precedenza, alla ricerca preventiva di una soluzione alternativa. Già nel luglio del 2017 i rifugiati sudanesi avevano inviato una lettera aperta all’assessora Baldassarre e alla sindaca Raggi per chiedere un confronto, non ricevendo alcuna risposta. La stessa assessora alle politiche sociali ha effettuato un censimento delle persone presenti nell’immobile di via Scorticabove nel febbraio del 2018, essendo ben a conoscenza che uno sfratto era imminente. Da febbraio a luglio tuttavia nessuna interlocuzione con i rifugiati è stata effettuata. Così il 5 luglio la soluzione è stata affidata a due blindati della polizia ed un ufficiale giudiziario. Durante lo sfratto era presente per il Comune solo la Sala Operativa Sociale, che ha offerto ai rifugiati 40 posti nei centri di accoglienza temporanea.

La soluzione emergenziale è stata declinata, la comunità vuole restare unita. Per questo è rimasta in presidio permanente in via Scorticabove, avviando una battaglia per il riconoscimento dei propri diritti e dell’importante lavoro sociale fatto in questi anni. La richiesta è quella di un bene pubblico da rigenerare e autogestire.

 

IL TAVOLO CON L’ASSESSORA BALDASSARRE

Il 12 luglio una delegazione di rifugiati sudanesi è stata ricevuta dall’assessora alle politiche sociali Laura Baldassarre. Al tavolo hanno partecipato anche alcuni rappresentanti della rete di solidarietà che sta dando loro supporto – i movimenti per il diritto all’abitare, movimenti sociali, la Coalizione Internazionale Sans Papier, USB, Libera, A Buon Diritto, ARCI e UNHCR.

L’assessora ha rimesso a disposizione 40 posti nel circuito di accoglienza per le «fragilità sociali» in quattro centri diversi, per un periodo di permanenza dai 3 ai 6 mesi. Pochi, perché sono 90 le persone lasciate in strada senza soluzione abitativa.

I rifugiati hanno definito «irricevibile» la proposta dei centri di accoglienza. Sono intenzionati a non smembrare una comunità che negli anni ha autogestito il proprio percorso di inclusione con consapevolezza e autonomia decisionale. La visita ai centri di accoglienza temporanea, che i rifugiati hanno comunque accettato di fare, ha confermato la loro posizione: accettare un posto in uno dei centri sarebbe un passo indietro di quindici anni rispetto al percorso di autonomia intrapreso e alla capacità di autorganizzarsi acquisita.

La proposta dell’Assessora è poi del tutto priva di una progettazione temporale perché non si prospettano soluzioni dopo i primi sei mesi nei centri. Al tavolo la questione dei rifugiati sudanesi è stata trattata dalle istituzioni nei termini dell’emergenza abitativa, della «presa in carico» della «fragilità sociale», con un appiattimento delle istanze della comunità su una visione tutta assistenzialista. Le risposte delle istituzioni continuano ad anteporre una vuota idea di legalità, di burocrazia e di procedure da rispettare – l’ostacolo solo a volte insormontabile dell’affidamento diretto degli spazi pubblici – alla volontà politica di risolvere una questione innanzitutto molto umana. La macchina amministrativa ancora una volta stenta a riconoscere il valore di esperienze come quella della comunità di rifugiati sudanesi, ripetendo che «bisogna valutare caso per caso».

Da anni la comunità chiede alle istituzioni la possibilità di contribuire al pagamento dell’affitto di uno spazio da abitare insieme. Uno spazio dove far crescere la rete creata, un punto di riferimento culturale e di sostegno concreto per tutti i sudanesi nella città di Roma, che fornisce orientamento ai servizi, mediazione, ospitalità.

L’Assessora si è detta disponibile ad aprire un tavolo di confronto permanente per valutare insieme una soluzione di medio periodo. Si è ipotizzata l’assegnazione di uno dei beni confiscati alla criminalità per la cui gestione è stato recentemente approvato un regolamento comunale. Una proposta auspicabile quanto paradossale perché se non fosse stato per il fondamentale impegno della Rete dei Numeri Pari, cui partecipa Libera, il regolamento avrebbe escluso l’utilizzo dei beni per finalità sociali. La Rete dei Numeri pari ha invece assicurato che i beni sottratti alle mafie possano essere destinati a fini sociali e abitativi, anche per rifugiati e richiedenti asilo.

I rifugiati di Scorticabove sono ancora accampati in strada. La proprietà nega l’utilizzo dei bagni e l’accesso alla struttura per il recupero degli oggetti personali, un fatto che aggrava ancor di più la situazione priva di alternative. I rifugiati chiedono di restare in via Scorticabove e utilizzando i bagni almeno fino al 23 luglio, data del secondo appuntamento del tavolo, a cui si auspica anche la partecipazione della Regione nelle deleghe al sociale e al patrimonio.

La comunità sudanese e la rete solidale chiedono all’amministrazione una dimostrazione di buona politica, riconoscendo il valore di un’esperienza di inclusione e integrazione che dovrebbe essere presa a modello per progettare finalmente politiche concrete che non si limitino a governare emergenze – peraltro continuamente prodotte da quelle stesse politiche – e a evocare soluzioni assistenziali, ma che invece abbiano il coraggio di superare burocrazia e tecnicismi procedurali costruendo percorsi duraturi di valorizzazione di comunità meticce e solidali.

 

Qui la lettera aperta della comunità sudanese di via Scorticabove

 

Foto: Daniele Napolitano