ROMA

Uscire dal ghetto: come le istituzioni stanno creando segregazione a Roma

Le politiche di esclusione e marginalizzazione dei migranti e poveri a Roma nel rapporto presentato sabato scorso delle associazioni (Alterego, A Buon diritto, Medu, Be free, Wiplf) che assistono i migranti sgomberati della Tiburtina. Un’occasione per fare rete con il territorio e individuare risorse e risposte possibili

Negli ultimi dieci anni a Roma le condizioni di migranti, rifugiati e richiedenti asilo è stata deliberatamente peggiorata. L’inefficienza del sistema di accoglienza, l’indifferenza delle istituzioni, l’assenza di soluzioni abitative alternative e una strategia deliberata affinché migranti e richiedenti asilo restino nell’illegalità stanno creando i nuovi ghetti di Roma.

 

Da polo produttivo e industriale a ghetto

Nei capannoni e nelle ex fabbriche dismesse nell’area della Tiburtina, nell’estrema periferia di Roma in zona Tor Cervara, abitano in condizioni di assoluto degrado, senza acqua, luce a gas, tra rifiuti e topi, centinaia di migranti esclusi dal sistema di accoglienza e privi di soluzioni abitative alternative.

 

«Un luogo marginale ed isolato, costeggiato da capannoni industriali, sale con slot-machine e compro oro, con una forte presenza della criminalità organizzata, come testimonia l’operazione antimafia Babylonia che, il 23 giugno del 2017, ha portato al sequestro di numerose attività commerciali».

 

Tra queste il Dubai Palace, tempio del gioco d’azzardo, un cubo di luci a neon piazzato a ridosso della strada.

Poco distante, in via di Vannina, una strada sterrata dietro la Tiburtina, dal 2014 vivevano circa cinquecento persone, nella maggior parte dei casi legalmente soggiornanti. Si erano sistemati in due dei tanti edifici dimessi nell’area, ai civici 74 e 78. Sempre in zona, in Via Patini, ha sede l’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma.

 

 

Gli sgomberi forzati

L’8 e il 12 giugno 2017 e ancora il 21 marzo scorso sono stati sgomberati i due edifici di via Vannina. La polizia è intervenuta con i blindati, senza preavviso, senza alcuna presa in carico dei migranti e senza la presenza della Sala Operativa Sociale. Ci sono stati diversi feriti, tra cui un rifugiato gambiano che ha perso definitivamente la vista dall’occhio destro. Le modalità degli sgomberi hanno completamente disatteso le disposizioni stabilite dalla circolare del Ministero dell’Interno del 1 settembre 2017, emessa dopo il violento sgombero di via Curtatone, che prevede un’attività di pianificazione degli sgomberi da parte del Prefetto con il coinvolgimento degli enti locali e della Regione, per garantire la presa in carico dei soggetti vulnerabili e la definizione di soluzioni alloggiative alternative. Le associazioni stanno facendo un accesso agli atti per verificare se ci sia stato o meno coinvolgimento delle istituzioni.

Intanto un’ottantina di migranti cacciati sono andati ad aggiungersi alle circa cinquecento persone che vivono tra cumuli di rifiuti speciali abbandonati, residui chimici e amianto nell’ex Fabbrica della Penicillina in via Tiburtina 1040, un immobile fatiscente e pericolante. Sono gli ultimi tra quelli che a Roma vivono in condizioni di forte disagio abitativo.

L’unica risposta messa in campo dalle istituzioni è stata quella repressiva, in nome della presunta sicurezza e del decoro urbano.

 

Ma a Roma sono proprio le istituzioni che dovrebbero promuovere la legalità e l’avvio di processi di integrazione, principalmente la Questura di Roma, a ostacolare l’inclusione con pratiche arbitrarie e difformi che violano i diritti fondamentali dei migranti.

 

Le occupazioni di edifici dismessi e la criminalizzazione della povertà generata dall’assenza di welfare sono il risultato. Le cause di questo cortocircuito sono a monte e a valle, raccontano le associazioni.

 

Sistema di accoglienza inefficace

In Italia nel 2017 gli sbarchi sono diminuiti, ma la registrazione forzata dei migranti negli hotspot ha determinato l’aumentato il numero di richiedenti asilo. Il sistema di accoglienza, articolato nei diversi centri, riesce ad accogliere solo il 17% del totale di richiedenti asilo e rifugiati, secondo il rapporto di Medici Senza Frontiere. Sono aumentati i “dublinati”, richiedenti asilo rinviati in Italia ai sensi del regolamento di Dublino. La carenza di posti e il basso turn-over nei centri di accoglienza è causato anche da tempi burocratici lunghi: il tempo medio di attesa tra la presentazione della richiesta di asilo e la notifica dell’esito dell’audizione è di 307 giorni. In caso di esito negativo la sentenza del ricorso può richiedere anche fino a dieci mesi di attesa, secondo MSF.

 

Molti degli occupanti di via Vannina provenivano da strutture di accoglienza ma è mancato loro il supporto per raggiungere l’autonomia: l’insegnamento della lingua italiana, la carenza di orientamento lavorativo e ai servizi socio-sanitari.

 

Al vuoto nel passaggio da accoglienza a inclusione suppliscono le associazioni presenti in via Vannina, con sportelli di assistenza legale (a cura di Alterego – Fabbrica dei Diritti e A Buon Diritto), socio-sanitaria (Medu e Intorsos) e per il lavoro (WILPF).

 

Le pratiche difformi della questura di Roma

La Questura di Roma – Ufficio Immigrazione in maniera totalmente arbitraria e pretestuosa richiede il certificato di residenza per il rilascio del permesso del soggiorno. Ma la legge stabilisce il contrario: il permesso di soggiorno è il presupposto per ottenere la residenza anagrafica – necessaria per accedere al sistema sanitario nazionale. L’assenza di iscrizione anagrafica non è rilevane ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno, è sufficiente una semplice autocertificazione. Le Questure dovrebbero e potrebbe rilasciare la ricevuta dell’avvenuta presentazione della domanda di titolo soggiorno, con cui si possono avviare le pratiche per la residenza.

 

Il problema della residenza

Pochi dei migranti di via Vannina erano iscritti all’anagrafe, perché prima del 2017 la loro iscrizione da parte dei centri di accoglienza era facoltativa.

Per l’iscrizione anagrafica di persone senza fissa dimora il Comune di Roma aveva istituito nel 2002 un indirizzo fittizio, via Modesta Valenti; nel 2015 il Comune autorizzò solo cinque associazioni del privato sociale all’iscrizione anagrafica di senza fissa dimora presso il loro domicilio. Nel 2017 la giunta ha cambiato il sistema, ponendo il procedimento in capo ai Municipi, senza però prevedere risorse aggiuntive o il monitoraggio del nuovo sistema, che alla prova dei fatti non funziona.

Nel IV Municipio l’accesso per l’iscrizione anagrafica avviene recandosi in Municipio o tramite “TuPassi”, una piattaforma online per la prenotazione. Nel primo caso i tempi di attesa sono di almeno due mesi, nel secondo almeno di quattro (e secondo MSF il sistema richiede il codice fiscale, per il cui rilascio alcune Agenzie delle Entrate richiedono, illegittimamente, la residenza). Intanto il permesso di soggiorno temporaneo – rilasciato (e magari smarrito a causa degli sgomberi) ai richiedenti asilo di prima istanza in attesa di audizione in Commissione territoriale, o ai «ricorrenti» a cui è stato negato l’asilo ma che hanno fatto ricorso e sono in attesa della sentenza – scade.

Senza permesso di soggiorno ai migranti è preclusa qualsiasi possibilità di accedere alla casa, al lavoro, alle cure mediche. Lo stato di emarginazione aggrava le condizioni di salute e salute mentale di molti migranti, già compromessa da un abuso di sostanze connaturato al disagio abitativo, che a Roma riguarda molte persone abbandonate dai servizi pubblici.

 

Le associazioni che forniscono assistenza ai migranti si ritrovano paradossalmente a esigere il rispetto della legalità e chiedono l’applicazione di un protocollo unico anche attraverso azioni legali per fissare la responsabilità giuridica e non solo politica di queste pratiche difformi.

 

 

 

Non solo denuncia

Le associazioni e le realtà territoriale della zona della Tiburtina si sono confrontate con l’obiettivo di fare rete, mappare le risorse e immaginare le soluzioni al forte disagio abitativo che riguarda sia gli ultimi che i penultimi della città e che rischia di esplodere, come già avvenuto a Tor Sapienza, in una guerra fra poveri. All’assemblea territoriale convocata sabato pomeriggio hanno partecipato alcune realtà romane che si occupano dei migranti come il Baobab, realtà territoriali per il diritto alla casa, ma anche esperti e accademici che lavorano sul tema della casa e su modelli inclusivi di rigenerazione urbana, dati alla mano.

 

Non è vero che non ci sono fondi

Tra fondi regionali per l’emergenza abitativa inutilizzati, soldi risparmiati o che potrebbero esserlo dall’affitto dei residence, soldi versati al Comune per l’IMU sulle case popolari Ater (IMU che in costruttori di case invendute non devono invece pagare), fondi per la ristrutturazione degli alloggi Erp non spesi, per le politiche abitative a Roma ci sarebbero 212 milioni già in cassa, per un totale 369 milioni di euro compresi i fondi regionali ancora non versati.

La circolare del 1 settembre ha istituito una Cabina di Regia presso il Ministero degli Interni, che avrebbe dovuto mappare i beni pubblici e privati inutilizzati, compresi quelli confiscati e sotto sequestro, per predisporre un piano un piano per il loro riuso anche a fini abitativi. Ma a distanza di otto mesi, nulla è stato fatto, dicono le associazioni, che chiedono di conoscere i lavori portati avanti dalla Cabina di regia, e di essere audite dal Comitato dell’Area Metropolitana di Roma Capitale, la sede nella quale il Prefetto può acquisire informazioni utili e le istanze dei soggetti interessati. Intanto, associazioni e attivisti fanno da sé con l’obiettivo di mappare le risorse e il fabbisogno abitativo dell’area.

In un clima di sgomberi e provvedimenti d’urgenza, con un discorso pubblico incentrato sul degrado e sulle «fragilità», anziché sulla povertà e sulle sue cause, l’obiettivo comune è l’individuazione di una soluzione degna per le circa tremila persone che abitano nelle circa 19 occupazioni di edifici dismessi nella zona della Tiburtina. Di certo, per cominciare, c’è bisogno di umanità. Perché, come ha raccontato un rifugiato, «dove c’è umanità, via Vannina non succede».

 

Foto di copertina di Francesco Pistilli